di Attilio Geroni
Ci sono almeno due paradossi alla Conferenza Cop24 sulla lotta ai cambiamenti climatici di Katowice, in Polonia. Il primo riguarda la Cina, grande produttore di Co2 ma al tempo stesso il più importante firmatario degli accordi di Parigi (Cop21 del 2015) e quindi in qualche modo impegnato in un percorso di riduzione delle emissioni di anidride carbonica, contrariamente agli Stati Uniti di Trump che quegli accordi li hanno rinnegati.
Il secondo paradosso riguarda il Paese ospitante, la Polonia, e la stessa location del vertice, Katowice, capoluogo della Slesia, storicamente una delle regioni più inquinate d’Europa per la presenza di miniere, centrali elettriche alimentate a carbone e acciaierie. Varsavia, come Pechino, vuole una transizione la meno possibile traumatica verso le rinnovabili. L’appuntamento è comunque importante perché i lavori, che dureranno dodici giorni, fino al 14 dicembre, dovranno fissare il quadro regolamentare – a cominciare dai criteri che i Paesi dovranno adottare per misurare le emissioni inquinanti – necessario per trasformare gli impegni di principio sottoscritti a Parigi in azioni concrete. Non sarà facile proprio perché l’obiettivo finale è ambizioso: contenere l’aumento della temperatura, rispetto ai livelli pre-industriali, ben al di sotto dei 2°C e possibilmente entro 1,5°C.
Al di là delle enunciazioni, la realtà di partenza è complessa e fin troppo articolata. La Commissione europea ha da poco pubblicato una roadmap secondo la quale per raggiungere il target di zero emissioni nette di Co2 entro il 2050 dovrà investire in infrastrutture energetiche fino a 290 miliardi di euro in più all’anno rispetto agli attuali livelli. Nei giorni scorsi il rapporto quadriennale compilato da 13 agenzie federali per l’Amministrazione americana ha contraddetto il “negazionismo” di Trump sui pericoli del cambiamento climatico stimando un costo annuo di 500 miliardi di dollari per l’economia americana (2,5% del Pil) se le emissioni di gas a effetto serra dovessero continuare a crescere ai ritmi attuali.
Infine, l’ultimo rapporto Onu sulla differenze che separano impegni e realtà (“2018 Emission Gap Report”) evidenzia che per conseguire il target di 1,5°C gli obiettivi nazionali dovranno essere cinque volte più ambiziosi di quelli attuali (tre nel caso di uno scenario a 2°C). Nel 2017, poi, evidenzia il rapporto, per la prima volta dopo tre anni di stabilizzazione le emissioni di Co2 sono tornate a crescere.
Secondo lo scenario di transizione energetica “Sky”, elaborato da Shell, il saldo netto delle emissioni di Co2 pari a zero è fissato al 2070 su scala globale. Un appuntamento che richiederà non solo una transizione energetica accelerata, ma un nuovo modello di sviluppo economico e sociale: «Nel nostro scenario – spiega David Hone, che di Shell è chief advisor per il cambiamento climatico – l’intero processo di transizione è sì guidato dai governi, ma avviene in presenza di una costante pressione della società. Di recente abbiamo assistito alle proteste in Francia dei gilet gialli contro l’implementazione della nuova politica dei prezzi del carburante. Ecco, questo è un esempio che illustra bene il tenore della sfida che ci aspetta».
Assenti da questo impegno gli Stati Uniti di Trump, gli occhi di molti a Katowice sono puntati sul ruolo della Cina, particolarmente attiva da mesi, secondo gli addetti ai lavori, a definire l’agenda della Cop24 e in particolare a pretendere flessibilità e margine di manovra nel determinare i criteri per la misurazione delle emissioni di Co2. La Cina, spiega Hone, ha intrapreso un percorso comunque interessante. Si è data un obiettivo di riduzione della dipendenza dal carbone, che rappresenta ancora il 60% del proprio mix energetico, e prevede di raggiungere un picco delle emissioni di Co2 intorno al 2030: «Per raggiungere gli obiettivi di Parigi è però necessario che Pechino e altre grandi economie emergenti accelerino, e di molto, la loro transizione».
E da qui si passa all’altro aspetto rilevante della Conferenza Onu di Katowice: come contribuire a finanziare questa transizione nei Paesi più poveri. Torna la cifra annua, già ventilata a Parigi nel 2015, di un fondo da 100 miliardi di dollari per investimenti in infrastrutture energetiche, ma non è chiaro come saranno reperite tali risorse e soprattutto da chi. Il fondo dovrebbe partire nel 2020, anno in cui si prevede la piena operatività degli impegni sottoscritti alla Cop21.
Anche se i nuovi scenari climatico-energetici si sviluppano nell’arco di svariati decenni, l’esito positivo di tali scenari impone di affrontare una serie di urgenze: «È sempre più evidente che fenomeni estremi come grandi siccità, alluvioni, ondate di caldo, incendi boschivi su larga scala colpiscano non solo sempre più spesso, ma molto prima di quanto avessimo previsto nel recente passato», osserva Ottmar Edenhofer, capo economista del Potsdam Institute for Climate Impact Research e docente all’Università Tecnica di Berlino, secondo cui il percorso attuale ci porta dritto ad un aumento della temperatura di 4°C mentre gli impegni presi a Parigi si tradurranno in un correttivo di 1°C, posto che tutti i governi li rispettino.
David Hone, di Shell, invita a considerare un aspetto più ampio del processo di conversione-transizione poiché buona parte delle soluzioni e degli sforzi tende a concentrarsi sulla produzione di energia elettrica: «Nel contesto dei consumi energetici finali di individui e aziende, – conclude – si tratta del 20% del totale. Il restante 80% continua a emettere, e parlo ad esempio del settore dei trasporti, come quello aereo e marittimo. E in questo 80% dobbiamo anche considerare molte industrie importanti, acciaierie, cementifici, impianti petrolchimici, produttori di vetro. La transizione dovrà provvedere a soluzioni anche per loro, non solo per soddisfare le nostre esigenze di mobilità e trasporto su strada, dove sta già emergendo, come risposta, quella dei veicoli elettrici».