In un nuovo libro Saverio Lodato intervista il Pm Nino Di Matteo sulla sentenza di Cassazione
Giorgio Bongiovanni
“Rivendico, adesso che la vicenda processuale si è conclusa, il mio diritto a parlare. Le sentenze si devono rispettare, ma si possono criticare”. E’ così che il magistrato Nino Di Matteo (pm di punta del processo Stato-Mafia che ha rappresentato l’accusa insieme ai colleghi Francesco Del Bene, Vittorio Teresi e Roberto Tartaglia), assieme al giornalista e scrittore Saverio Lodato, si oppone al sostanziale oblio che in molti vorrebbero apporre sul tema della Trattativa Stato-mafia.
Lo fanno con un libro-intervista (“Il colpo di spugna. Trattativa Stato-mafia il processo che non si doveva fare”, edito da Fuoriscena-Libri Rcs), da oggi disponibile, che può essere considerato un vero vademecum sull’intera vicenda.
Da quando quasi un anno fa la Cassazione ha assolto “per non aver commesso il fatto” gli ufficiali del Ros dei carabinieri, Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni (in secondo grado giudicati non colpevoli perché il fatto non costituisce reato e in primo grado condannati a vari anni di carcere), e l’ex senatore Marcello Dell’Utri (condannato in primo grado già assolto in appello), così come i boss mafiosi, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, (condannati nei precedenti gradi di giudizio e “salvati” dalla prescrizione, dopo che i Supremi giudici hanno riformulato il reato in “tentata minaccia a corpo politico dello Stato”) da una parte è tornato il silenzio, dall’altra è stata avviata una campagna di denigrazione contro magistrati e giudici che si sono occupati del processo.
E tutto ciò avviene mentre in molti vorrebbero stringere “mordacchie” e bavagli al giornalismo d’inchiesta e rendere la magistratura sempre meno indipendente e sempre più “servente” del potere politico.
Coraggiosamente il magistrato Nino Di Matteo prende la parola per ripercorrere e commentare ciò che è avvenuto in questi anni, evidenziando come la motivazione della sentenza di Cassazione (di appena 91 pagine) non possa cancellare ciò che è consacrato in quasi diecimila pagine di motivazioni delle sentenze dei giudici di primo e secondo grado.
“Poche pagine pretendono di smontare la valenza probatoria di dati processuali emersi in anni e anni di lavoro – dice Di Matteo -, con valorosi ed esperti giudici di merito che avevano accertato fatti molto gravi.”
La sentenza della Suprema Corte “sembra invece risentire di un antico vizio che troppe volte in passato aveva caratterizzato l’approccio giudiziario alle più complesse vicende di Mafia. E in proposito, esistono purtroppo precedenti negativi illustri. Qual è la sostanza della questione? La sostanza è che isolare i fatti l’uno dagli altri, parcellizzare la valutazione, ridurre e sfoltire per principio, concentrarsi sul particolare perdendo di vista il contesto, è prassi diffusa quando non si vogliono assumere decisioni delicate che rischiano di diventare dirompenti”.
Rispondendo alle domande di Lodato, Nino Di Matteo spiega la gravità di una sentenza che presenta tante, troppe, lacune. “Alcuni passaggi della sentenza della Cassazione sono davvero preoccupanti. Per esempio, si afferma che i giudici di Palermo avrebbero ricostruito i fatti ‘secondo un approccio metodologico di stampo storiografico’. E ancora si fa riferimento all’asserita ‘eccessiva dilatazione’ – così scrivono i giudici – delle motivazioni delle sentenze di merito. Questi sferzanti giudizi della Cassazione assumono una valenza ingiustamente offensiva della professionalità di altri giudici che, pur nella parziale diversità delle rispettive conclusioni, avevano avuto il merito di individuare il metodo più giusto. Non un giudizio atomizzato, parcellizzato su ogni singolo segmento, ma un approccio completo e di sistema a una serie di condotte, a volte anche omissive, che potevano essere comprese nella loro reale portata solo se tra loro collegate e valutate unitariamente”. Secondo Di Matteo, dunque, “non erano, né in primo grado né in appello, motivazioni ‘elefantiache’ o ‘manifestamente sovrabbondanti’. Erano il frutto di un lavoro di analisi e sintesi integrata di un materiale processuale enorme. Non se ne poteva fare a meno, se si voleva capire davvero quello che era successo”.
Non si possono cancellare le testimonianze che si sono sviluppate nel corso del processo che hanno fatto emergere un quadro inquietante degli anni delle stragi.
Testimonianze come quelle dell’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ascoltato in un’udienza straordinaria al Quirinale, il 28 ottobre 2014.
“Napolitano accettò di essere interrogato dai giudici di Palermo. E qui voglio riportare testualmente la mia domanda e la risposta di Napolitano che, all’epoca delle stragi del 1993, era presidente della Camera dei Deputati. Gli chiesi: ‘Presidente, quali furono ai più alti livelli istituzionali e politici le reazioni più immediate a quelle stragi? Quali furono in quelle sedi, cioè ai più alti livelli istituzionali, le valutazioni più accreditate sulla matrice e la causale di quelle stragi che tanto profondamente avevano scosso il Paese?’. Il presidente rispose: ‘La valutazione comune alle autorità istituzionali in generale e di governo in particolare, fu che si trattava di nuovi sussulti di una strategia stragista dell’ala più aggressiva della Mafia, si parlava allora in modo particolare dei corleonesi, e in realtà quegli attentati, che poi colpirono edifici di particolare valore religioso, artistico e così via, si susseguirono secondo una logica che apparve unica e incalzante, per mettere i pubblici poteri di fronte a degli aut-aut, perché questi aut-aut potessero avere per sbocco una richiesta di alleggerimento delle misure soprattutto di custodia in carcere dei mafiosi o potessero avere per sbocco la destabilizzazione politico-istituzionale del Paese’.”
Come ribadisce con forza Di Matteo a Lodato: “Le parole di Napolitano rimangono agli atti. La sua fu una risposta estremamente chiara e precisa, che evidenziava come, non solo il governo, ma tutte le più alte istituzioni dello Stato avessero ben compreso la minaccia e le finalità del ricatto. Altro che minaccia solo tentata e non consumata! Altro che conseguente assoluzione anche per i mafiosi! Per sostenere la propria tesi la Cassazione ha dovuto ignorare perfino le dichiarazioni testimoniali di un presidente della Repubblica!”.
Nonostante tutto, però, nelle parole di Di Matteo traspare l’orgoglio di chi non ha fatto altro che il proprio dovere, fino in fondo, senza se e senza ma. “Non mi sento sconfitto – dice – Ho cercato solo di fare il mio dovere, mettendo da parte ogni calcolo opportunistico e ogni ambizione di facile carriera. Per questo ancora oggi ho la serenità di chi, con tutti i limiti e i possibili errori, è consapevole di avere contribuito, con altri valorosi colleghi, a far emergere fatti gravi e importanti, a cercare di portare un po’ di luce nei labirinti più oscuri della nostra storia recente”.
No, la storia delle stragi degli anni Novanta e della trattativa Stato-mafia che si consumò in quel tempo non può essere dimenticata. E nel libro vengono anche evidenziati i rischi che si corrono oggi, dal momento che anche altri ambiti istituzionali, come la Commissione parlamentare antimafia, stanno cercando di riscrivere la storia senza guardare all’insieme.
Forse tutto si racchiude in un’amara considerazione finale, che riprende le parole di un grande pensatore come Leonardo Sciascia: “Se lo Stato italiano volesse davvero sconfiggere la Mafia, dovrebbe suicidarsi”.
Pagina dopo pagina, grazie all’esposizione chiara e lucida del pm Nino Di Matteo il lettore-cittadino ha tutti gli strumenti per comprendere la portata di un’analisi tanto necessaria quanto veritiera.