di Valentina Fenu
Nella prima giornata del congresso UsigRai, ospite d’eccezione la collega turca Ceyda Karan. Lei ed altri colleghi al centro della morsa contro la libertà di stampa adottata da Tayyip Erdogan.
“Stiamo attraversando tempi molto duri per quanto riguarda la libertà di parola. Migrazioni e minacce alla sicurezza. La crisi siriana mette in pericolo anche noi giornalisti e tutti i cittadini”. Esordisce così, di fronte alla platea del congresso dei giornalisti Rai Ceyda Karan.
“Il nome del mio giornale, Cumhuriyet, significa Repubblica. Abbiamo ripubblicato le vignette e i le pagine di Charlie Ebdo. E abbiamo subito minacce e pressioni. E questo ha influenzato il nostro lavoro.
Vorrei riassumere il caso del nostro giornale. Se pensiamo alla guerra in Siria, questo è un caso molto importante per tutta l’Europa”.
Il nostro caporedattore e il nostro direttore sono stati arrestati il 26 di novembre. La motivazione dell’arresto è stata un’inchiesta in cui mostravano un’agenzia governativa che portava armi verso la Siria. Sono detenuti da 13 giorni in completo isolamento, senza potersi parlare in una cella di tipo f, che in Turchia consideriamo una cella da tortura.
Tra le accuse ci sono spionaggio e assistenza ai terroristi. Gli imputati hanno respinto le accuse, affermando che sarebbe spettato a un impiegato statale svelare certi meccanismi. Un giornalista non è un impiegato statale.
Nelle immagini del reportage si vedono membri della polizia turca che aprono camion che portano armi e che appartengono a un’agenzia governativa.
“I miei colleghi hanno respinto le accuse e non hanno alcun legame con il gruppo terroristico – afferma la collega turca.
Il caso presenta delle irregolarità legali. Non ci sono prove a carico delle accuse. È stato aperto sei mesi dopo la formulazione delle accuse, quando erano ormai scaduti i termini di prescrizione.
Erdogan ha detto che, stando alle leggi turche, si dovrebbe celebrare il processo senza l’arresto ma ha anche dichiarato che avrebbe fatto pagare caro questo affronto. Questo è un caso politico.
Non c’è mai stato pericolo di fuga.
Membri del governo e persone vicine al governo hanno paragonato il caso a quello di Assange, ma non è questo il caso.
“Il giornalismo è stato messo sotto processo, stiamo lavorando in condizioni molto difficili in Turchia, io personalmente sono stata minacciata anche da persone con incarichi politici, sto affrontando una causa per diffamazione insieme ad una collega, per la pubblicazione delle pagine di Charlie Hebdo. Non abbiamo pubblicato niente di particolare ma rischiamo una pena fino a 4 anni di reclusione. Abbiamo più di 100 querelanti tra cui membri della famiglia di Erdogan. Qualcuno dei querelanti ha chiesto addirittura che noi fossimo consegnate alla massa. Un chiaro invito al linciaggio”.
È molto difficile spiegare le difficoltà. Per noi è quasi impossibile fare inchieste sui temi delle migrazioni. Anche in campo universitario ci sono molte restrizioni.
Data la nostra situazione sono venuta a chiedere sostegno. Abbiamo avuto il sostegno di associazioni. Ma la crisi rende tutto molto difficile perché la Turchia è considerato un alleato per molti paesi per affrontare la crisi. Ma proprio per questo chiedo che facciate pressione sulle vostre autorità perché ci aiutino.
10 dicembre 2015