Foto © Shobha
Per il pentito Gioacchino La Barbera la mafia non agì da sola
di Aaron Pettinari
“C’era un uomo, durante la preparazione della strage di Capaci, che non avevo mai visto prima. Non era dei nostri, era sui 45 anni. Arrivò con Nino Troia, il proprietario del mobilificio di Capaci dove fu ucciso Emanuele Piazza, un giovane collaboratore del Sisde che pensava di fare l’infiltrato”. E’ il racconto del pentito Gioacchino La Barbera, l’ex boss di Altofonte che sistemò il tritolo per la strage e diede il segnale per l’esplosione, in un’intervista rilasciata al quotidiano “La Repubblica”.
Raggiunto nella località protetta in cui vive, con un’altra identità, il collaboratore di giustizia, rivive il giorno dell’Attentatuni, in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo ed i tre agenti di scorta, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo.
“Fui io a dare il segnale agli altri appostati sulla collina – ricorda – Ero in contatto telefonico con Nino Gioè. Sapevamo che il giudice sarebbe arrivato di venerdì o sabato… Era tutto pronto, e il cunicolo già imbottito di esplosivo. Ce lo avevo messo io, due settimane prima. Quando mi dissero che la macchina blindata era partita da Palermo per l’aeroporto mi portai con la mia Lancia Delta sulla via che costeggia l’autostrada Palermo-Punta Raisi, all’altezza del bar Johnnie Walker… Seguii il corteo delle macchine blindate parlando al cellulare con Gioè. Andavano più piano del previsto, sui 90-100 chilometri orari… Chiusi la telefonata dicendo vabbè ci vediamo stasera… amuninni a mangiari ‘na pizza. Poi sentii un boato, fortissimo, poi vidi alzarsi un’enorme nuvola di fumo alta quasi cinquanta metri…”.
Sulla presenza di quel soggetto estraneo La Barbera non sa dire molto. In questi anni gli investigatori gli hanno mostrato diverse fotografie ma non lo ha mai riconosciuto. “Evidentemente – aggiunge – mi hanno mostrato quelle sbagliate”.
Mandanti o concorrenti esterni
L’ipotesi di un possibile intervento di soggetti esterni a Cosa nostra, così come il coinvolgimento di mandanti esterni sulla delibera di morte, non è peregrina. A Caltanissetta, dove si stanno celebrando i processi Capaci bis e Borsellino quater, per il momento non sarebbero stati trovati riscontri determinanti in tal senso ma, come ha più volte detto l’ex Procuratore capo Sergio Lari prima di riceve il nuovo incarico di Procuratore generale, “non si può smettere di indagare”. Del resto gli elementi oscuri che restano da approfondire sono diversi, a cominciare dalle testimonianze sulla presenza di un aereo misterioso che sorvolava il tratto Palermo-Punta Raisi nel giorno della strage, fino alla presenza di uomini in mimetica sul tetto della Mobiluxor, il mobilificio a ridosso dell’autostrada.
Non solo. Resta assolutamente un mistero la ragione per cui Cosa nostra, anziché uccidere Falcone a Roma, dove spesso girava anche privo di scorta, ha voluto compiere un attentato così eclatante lungo l’autostrada.
Diversi collaboratori di giustizia raccontano come, fin dal febbraio del 1992, Falcone era stato pedinato nella capitale da un gruppo di fuoco guidato da Matteo Messina Denaro e dagli uomini della famiglia di Brancaccio: doveva essere assassinato lì a colpi di kalshnikov, senza bisogno di ricorrere ad alcuna azione clamorosa. Poi arrivò il contrordine di Riina. Perché Falcone bisognava ucciderlo in modo eclatante, a Palermo.
Perché quel cambio di strategia? E come facevano i boss a conoscere con precisione l’arrivo di Falcone a Punta Raisi? Domande che restano aperte. Chi era l’uomo di cui parla Gioacchino La Barbera? Può essere lo stesso che ha visto Gaspare Spatuzza all’interno del garage di via Villasevaglios, mentre la Fiat 126 rubata a Pietrina Valenti veniva trasformata in autobomba per uccidere Borsellino in via d’Amelio? “Non era un ragazzo, né un vecchio – ha raccontato il pentito di Brancaccio – doveva avere 50 anni. Non l’avevo mai visto prima, né lo vidi dopo quella volta. Di certo non era di Cosa nostra. Ma non mi allarmò la presenza di quell’uomo perché se era lì era perché Giuseppe Graviano lo voleva. In questi anni mi sono sforzato di dare indicazioni su di lui, ma lo ricordo come un negativo sfocato di una foto”. Può essere uno uomo appartenente ai servizi deviati? Nel giugno del 2013, durante la sua deposizione al Borsellino quater, Spatuzza ha anche aggiunto qualche dettaglio: “Ho fatto pure una descrizione, effettuando un riconoscimento fotografico ma non è che posso dire cose. Tra le possibilità c’è che possa appartenere alle forze dell’ordine e la mia vita la gestiscono loro, sono io la prima persona ad avere interesse a vederla in carcere. Ma proprio non ricordo. Questo è un mistero fondamentale da risolvere e io sono qui per la verità”.
Purtroppo, per il momento, non è stato individuato alcun soggetto e chissà che le parole di La Barbera non possano dare nuovi spunti.
Il “suicidio” di Gioé
Sempre nell’intervista a La Repubblica quest’ultimo torna anche sulla morte di Nino Gioé, non senza qualche timore: “Non so se si è suicidato. Rispondendo a questa domanda mi fa mettere nei guai funzionari della Dia che con me si sono comportati bene… Che mi hanno aiutato. Sapevo che avevano fatto dei verbali con lui. Gioè stava collaborando, ne sono certo. Ero nella sua stessa sezione, insieme a Santino Di Matteo, e Gioè era l’unico a ricevere visite. La mia finestra dava sulla strada e vedevo un viavai di macchine e di persone che arrivavano per lui. Pochi giorni prima della sua morte, dal carcere di Rebibbia mi trasferirono a Pianosa mentre Di Matteo fu tradotto all’Asinara”. Quanto alle dichiarazioni del boss Francesco di Carlo, secondo cui le stragi furono pianificate in una riunione cui parteciparono anche iscritti alla P2, “so – dice il pentito – di riunioni con generali e di incontri tra Riina ed ex ministri democristiani. I loro nomi sono stati fatti, come quelli dei giudici che aggiustavano i processi…”.
Il pentito poi dice che vi fu una collaborazione dei servizi segreti per l’omicidio Lima (“C’erano uomini dei servizi sul Monte Pellegrino”) e che l’omicidio Mattarella “fu voluto dai politici” mentre Dalla Chiesa fu ucciso probabilmente “per fare un favore”.
Il confronto dimenticato
Ma La Barbera, rispondendo alle domande della collega Raffaela Fanelli torna anche sulla vicenda che l’ha visto protagonista con Vincenzo Scarantino: “Mi assumo la responsabilità di quello che sto dicendo: all’inizio della mia collaborazione mi fu proposto di fare un confronto audio visivo con lo stesso Scarantino alla presenza dei carabinieri che l’avevano in gestione, funzionari della Dia e i magistrati di Caltanissetta che allora si occupavano del caso. Durante il confronto lo sbugiardai. Dissi subito che Scarantino non sapeva cose importanti di Cosa Nostra. Di quel confronto non c’è traccia: sono spariti verbali e registrazioni”.
Il riferimento al confronto con il falso pentito si mescola di fatto alla nota querelle di alcuni avvocati di boss mafiosi scaturita nel ’95 a seguito di una loro richiesta (in un primo momento inevasa) di poter leggere i verbali di confronto tra lo stesso Scarantino e i collaboratori di giustizia: Salvatore Cancemi, Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera. Il 13 gennaio 1995 quei “faccia a faccia” avevano palesemente rivelato l’inconsistenza della caratura mafiosa del picciotto della Guadagna. Un occhio di riguardo meritano le dichiarazioni dell’ex boss di Porta Nuova (deceduto nel 2011). “Tu sei un bugiardo – aveva detto Cancemi a Scarantino – chi è che ti ha detto questa lezione? Chi te l’ha fatta questa lezione? Dicci la verità, devi dire la verità, ma chi ti conosce, ma chi sei? Ma questa lezione chi te l’ha fatta?” (…) “Ma veramente date ascolto a questo individuo? Signori giudici, questo sta offendendo l’Italia, tutta l’Italia sta offendendo costui!”. “Attenzione, state attenti è falso, non credete nemmeno a una virgola di quello che vi sta dicendo”. (…) “Queste parole gliele hanno messe in bocca, gli hanno fatto una lezione e ora la sta ripetendo”. Il deposito posticipato di questi atti al processo “Borsellino bis” era costato una denuncia da parte dei quegli stessi legali nei confronti dei pm Annamaria Palma, Carmelo Petralia e Nino Di Matteo per “comportamento omissivo”. A loro volta i magistrati avevano denunciato per calunnia i tre avvocati. Il 25 febbraio 1998 il Gip di Catania aveva definitivamente archiviato l’inchiesta sui sostituti procuratori di Caltanissetta in quanto priva di alcun “comportamento omissivo”.
I documenti della casa di Riina
Infine l’ex boss di Altofonte parla dei documenti spariti dalla villa di Totò Riina dopo il suo arresto: “Dopo il suo arresto accompagnai, insieme a Nino Gioè, i figli e la moglie di Riina fino alla stazione, da lì presero un taxi per Corleone. Poi seguii la pulizia e l’estrazione della cassaforte dalla villa di via Bernini e portai in un parcheggio la golf bianca intestata a un giardiniere della provincia di Trapani, non ricordo se Marsala o Mazara. Un’auto che ritirò Matteo Messina Denaro, con tutto quello che era stato trovato nella cassaforte. L’auto non era di valore quindi posso pensare che fossero più importanti i documenti”.
19 Settembre 2015