Gea Ceccarelli
Sono di qualche settimana fa, le dichiarazioni del pm Teresa Principato che, da anni, dà la caccia a Matteo Messina Denaro. Secondo lei, Diabolik, il latitante più pericoloso d’Italia, è tenuto nascosto e protetto dalla ‘Ndrangheta.
Una rivelazione che non ha sorpreso più di tanto: i legami tra Cosa Nostra e mafia calabrese, infatti, sono più che noti, sebbene poco citati. E la nuova inchiesta della procura di Reggio Calabria, “mammasantissima”, l’ha ben dimostrato.
Questa, infatti, ha portato a galla i collegamenti tra massoneria e mafia, in primis, ma anche i progetti comuni che hanno collegato, negli anni, la criminalità organizzata calabrese a quella siciliana: l’idea di costituire “Cosa Nuova”, un nuovo ente che avrebbe dovuto, nei piani, comandare l’intero Sud Italia.
A permettere agli inquirenti di ricostruire il tutto, le dichiarazioni di Giuseppe Costa, collaboratore di giustizia ex appartenente alla cosca Piromalli, assieme alla De Stefano, la più vicina a Riina. “I legami fra Cosa Nostra e ‘Ndrangheta erano strettissimi”, ha infatti raccontato, riportato anche in un articolo de L’Espresso. “Non so in concreto per quanto tempo, né con quali risultati operativi, ma, sicuramente, si arrivò, anche a progettare e poi a dare forma (parliamo del periodo immediatamente successivo alle stragi di Falcone e Borsellino) ad una super-struttura che comprendeva le due organizzazioni: la cosiddetta Cosa Nuova”.
“Si trattava”, ha poi raccontato “di una sorta di organizzazione mafiosa di vertice che ricomprendeva sia gli elementi di spessore e di peso di Cosa Nostra che quelli della ‘Ndrangheta. Ciò avrebbe consentito uno scambio di favori ancora più intenso e continuo fra siciliani e calabresi. Ma non solo: Cosa Nuova serviva anche ad inserire in modo più organico nel tessuto del crimine organizzato siciliano e calabrese, persone insospettabili, collegamenti con entità politiche, istituzionali e massoniche”. “Con riferimento ai rapporti fra Massoneria e mondo criminale voglio precisare anche che a me era noto, in quanto ‘ndranghetista e in quanto me lo aveva detto personalmente Giuseppe Piromalli nel corso di una comune detenzione nel carcere di Palmi, che si trattava di rapporti molto intensi specie in Calabria”, ha poi aggiunto Costa. “Più in Calabria che in Sicilia…”
Sì, anche massoneria. Non è una sorpresa: in passato, anche un collaboratore di giustizia siciliano, Tullio Cannella, tra i fedelissimi di Bagarella, ne aveva parlato. E non solo: ricostruendo un incontro con Vito Ciancimino, aveva ricordato le parole dell’ex sindaco di Palermo, il quale sosteneva che la vera massoneria si trova in Calabria e, sempre la Calabria, era il terreno fertile della deviazione dei servizi segreti. Il pentito, nelle sue testimonianze rilasciate ai magistrati, chiarì quindi: “Queste dichiarazioni di Ciancimino mi fecero comprendere meglio perché si era tenuta a Lamezia Terme la riunione di cui ho riferito in precedenti interrogatori, e alla quale partecipai personalmente tra esponenti di “Sicilia Libera” e di altri movimenti leghisti o separatisti meridionali, riunione alla quale erano presenti anche diversi esponenti della Lega nord”.
L’idea di una scissione, di uno “Stato” della mafia, non era certo una novità: basti ricordare al tentativo di golpe di Michele Sindona, o quello di Junio Valerio Borghese. Anche in quest’ultimo caso, ‘ndrangheta e Cosa Nostra si trovarono vicinissime: a far da anello di congiunzione, l’avvocato, legato alla cosca De Stefano, Paolo Romeo. Massone, appartenente alla struttura Gladio, collegato ai servizi segreti e al terrorismo nero, fu colui che organizzò, nel 1970, l’incontro tra il golpista di destra, fiancheggiato da Cosa Nostra, e, appunto, la ‘ndrina.
In quest’ottica, acquistano così un senso i numerosi viaggi che Totò Riina intraprese dall’altra parte dello Stretto: in quelle occasioni si discuteva, dunque, della possibilità di creare una “nazione mafiosa”, da spartirsi. Ma non soltanto: nelle stesse riunioni si gettarono le basi per la strategia stragista. A rivelarlo è stato l’ex autista di Leoluca Bagarella, ai magistrati. Parlò infatti “di una struttura riservata”, suddivisa in due “club” -quello siciliano e quello calabrese-, “destinata a gestirne le relazioni e gli affari di maggior rilievo”. Tra cui, appunto, le stragi, per le quali Riina voleva coinvolgere la ‘ndrangheta. Il gotha ‘ndranghetista tutto preferì però defilarsi: un piano, quello delle stragi, troppo avventato: non vollero prenderne parte, anche se, negli anni successivi, è emerso come, durante gli attacchi in continente del ’93, tra gli attentatori mafiosi vi fosse anche Antonio Scarano, calabrese, uomo di fiducia di Matteo Messina Denaro. Successive inchieste hanno anche gettato nuove ombre su possibili sinergie nel periodo stragista: possibile che Cosa Nostra si rifornisse di esplosivo proprio dalla ‘ndrangheta.
Su tale eventualità c’è ancora molto da chiarire. Certo è che, almeno in un fatto di sangue, Cosa Nostra e ‘ndrangheta si sono strette la mano. Lo ricorda anche Costa, citando l’omicidio del giudice Scopelliti, il giudice calabrese che avrebbe dovuto rappresentare l’accusa nel maxiprocesso di Palermo. Non fece in tempo: venne ammazzato, a Piae, il 9 agosto 1991.
Più che probabilmente fu la ‘Ndrangheta a uccidere Scopelliti, ma essa non fu che il braccio armato. L’ordine sarebbe infatti partito da Cosa Nostra, la quale voleva eliminare il magistrato scomodo, che rappresentava un ostacolo alla criminalità. Questa teoria trovò conferma anche nelle dichiarazioni dei pentiti calabresi Nino Fiume, Giacomo Lauro e Filippo Berreca. Secondo le loro ricostruzioni, le ‘ndrine intervennero uccidendo il magistrato e, per ricambiare il favore, la criminalità siciliana si sarebbe adoperata per porre fine alla guerra di mafia che insanguinava Reggio Calabria dal 1985. Un patto che funzionò tanto bene da dar poi vita al sodalizio e alla collaborazione tra le due. La ‘Ndrangheta è sempre stata maestra nell’avvicinare i potenti, così che, durante i primi anni novanta, fu lei a offrire a Cosa Nostra un grande bacino da cui attingere contatti e agganci, fossero questi politici o d’intelligence.
Altro punto di contatto tra ‘Ndrangheta e Cosa Nostra è ravvisabile in un non chiaro gruppo di terroristi che in quegli anni rivendicò numerosi attentati. Si tratta della “Falange Armata”, una sigla probabilmente utilizzata dalla criminalità per confondere le acque e non permettere agli inquirenti di scindere correttamente le azioni mafiose da quelle politiche, tanto più che questa organizzazione si attribuì attentati celebri della mafia, come le stragi di via D’Amelio e di Capaci, nonché quella di via dei Georgofili. Molti punti oscuri si celano dietro questo nome e non è possibile non trovarvi anche collegamenti con i servizi segreti. Il pentito Maurizio Avola spiegò inoltre che “Cosa nostra fin dal ’90 aveva intenzione di eseguire attentati anche fuori della Sicilia celandosi dietro false rivendicazioni con la sigla ‘Falange Armata’”. Eppure, già nel 1990, prima ancora dunque che i corleonesi dessero vita alla strategia della tensione, a Milano, l’educatore penitenziario Umberto Mormile venne ucciso presso il carcere di Opera, su ordine del boss Domenico Papalia, ‘ndranghetista. Ad attribuirsi l’omicidio fu niente meno che la “Falange armata”.