Silvio Berlusconi, Adriano Galliani e Marcello Dell’Utri fotografati a cena nel 1989
Nel disinteresse generale i pm di Palermo hanno iniziato le conclusioni del processo a politici, ufficiali e boss
di Marco Lillo
Nel deserto dell’aula bunker di Palermo e nel quasi disinteresse della stampa nazionale e delle tv, un gruppo di magistrati sta tentando di ricostruire un tornante fondamentale della storia d’Italia della fine del secolo scorso. Il pm Antonino Di Matteo, che si alterna con i colleghi Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, continuerà a esporre la requisitoria nell’aula bunker dell’Ucciardone per il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia davanti alla Corte d’Assise presieduta da Alfredo Montalto.
L’insufficiente copertura mediatica di queste prime udienze è stata una grande occasione sprecata per accendere una luce su un periodo oscuro della storia italiana. I pm in aula stanno tentando di ricostruire infatti la trama dei rapporti tra politica, mafia e istituzioni nel biennio che va dalle stragi del 1992 ai primi vagiti della Seconda Repubblica dopo l’insediamento del governo Berlusconi nel 1994. Ovviamente è il punto di vista dell’accusa e sarà interessante anche ascoltare quello delle difese, ma l’impegno e il tema meriterebbero un’attenzione ben diversa dei media.
Nel processo sono imputati tre ex ufficiali del Ros dei Carabinieri (i generali Mario Mori e Antonio Subranni e il colonnello Giuseppe De Donno) un politico della Prima Repubblica (l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza) e uno della Seconda (l’ex parlamentare di Forza Italia Marcello Dell’Utri) più i mafiosi detenuti Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, il boss pentito Giovanni Brusca. L’ex ministro Calogero Mannino è stato assolto in primo grado, avendo scelto il rito abbreviato mentre i boss Totò Riina e Bernardo Provenzano sono morti.
È contestato l’articolo 338 che punisce con la reclusione da uno a sette anni “chiunque usa violenza o minaccia a un corpo politico(…) per impedirne, in tutto o in parte, anche temporaneamente, il funzionamento o per turbarne comunque l’attività”. La trama complessa dell’accusa si dipana dall’omicidio del politico della Democrazia cristiana, l’andreottiano Salvo Lima, nel marzo del 1992 fino all’insediamento del governo Berlusconi nel 1994, grazie alla vittoria di Forza Italia, fondata con l’apporto dell’imputato Marcello Dell’Utri, già condannato per concorso esterno in associazione mafiosa per le sue condotte fino al 1992.
La tesi dell’accusa, già anticipata in una memoria del 2012 (quando era ancora pm Antonio Ingroia, poi candidatosi come leader di una nuova formazione ma non eletto nel 2013) è quella del cedimento dello Stato al ricatto della mafia corleonese. I politici e gli ufficiali sono imputati perché avrebbero agevolato il condizionamento delle istituzioni da parte dei boss.
Riina e Provenzano puntavano a ottenere a suon di bombe i mutamenti delle leggi condensati nei punti del “papello” consegnato da Massimo Ciancimino e contenente le richieste di Riina alle istituzioni. Nell’ipotesi dell’accusa lo Stato, con l’uniforme del Ros, si sarebbe seduto al tavolo con l’accordo di alcuni politici per ottenere la fine delle stragi.
L’accusa è pesante e, secondo giuristi come Giovanni Fiandaca, con fatica può essere supportata dal fragile articolo 338. Dopo cinque anni di processo e polemiche è però arrivato il momento della verità, almeno quella giudiziaria. La sentenza potrebbe arrivare poco dopo le elezioni o a ridosso delle urne ma in pochi sembrano interessati.
In questo clima surreale i pubblici ministeri vanno avanti sulla loro strada. In salita e disseminata di ostacoli come l’assoluzione di Mannino e le due assoluzioni definitive di Mori per la mancata perquisizione del covo di Riina nel 1993 (con Giuseppe De Donno) e per la mancata cattura di Provenzano nel 1995 (con Mario Obinu). Non aiuta anche la sentenza Dell’Utri, condannato per concorso esterno ma assolto (dopo un esito diverso in primo grado) per il periodo a partire dal 1993 sul quale pende l’accusa del processo.
I pm nei giorni scorsi hanno iniziato a lumeggiare la notte che segna il passaggio dal tramonto della Prima all’alba della Seconda Repubblica. Il 1992 è stato ricostruito dai pm Roberto Tartaglia e Antonino Di Matteo sotto due punti di vista diversi. Tartaglia ha illustrato il filo rosso che lega l’appoggio della mafia corleonese a tre movimenti politici sorti tra 1992 e fine 1993: le Leghe del sud, con la partecipazione attiva di Licio Gelli e Vito Ciancimino; il movimento Sicilia Libera sostenuto dagli uomini del boss Leoluca Bagarella e infine Forza Italia. Antonino Di Matteo invece si è dedicato alla trattativa tra il Ros di Mario Mori e Vito Ciancimino avviata nel 1992.
Vale la pena di riportare qui i passaggi più delicati. Per il pm Tartaglia c’è “unicità di un progetto. Il perseguimento del progetto autonomistico e federalista da parte di Cosa Nostra parte già a far data dal 1991, come affermato da Leonardo Messina (collaboratore di giustizia catanese, ndr) che per primo ha parlato del progetto maturato in alcune riunioni del 1991 nelle campagne di Enna. I boss della mafia in quella sede parlarono di separare l’Italia in tre macro-aree.
Secondo il pm Tartaglia, il debutto di Dell’Utri nello scenario della Trattativa sarebbe molto precedente alla discesa in campo. “Il linguaggio con cui Cosa Nostra cerca il primo contatto con Marcello Dell’Utri è quello classico di Cosa Nostra: l’intimidazione, la minaccia, in questo caso gli incendi alla Standa”. Tartaglia si riferisce agli attentati incendiari realizzati dalla mafia ai danni dei supermercati di Berlusconi, avvenuti nei primi anni 90. Se ne parlò già nel processo Dell’Utri, ma qui sono riletti in una logica nuova che li inserisce nella minaccia a corpo politico dello Stato, il reato contestato a Dell’Utri.
Tramite Dell’Utri e Vittorio Mangano, i boss Bagarella e Brusca avrebbero chiesto a Berlusconi interventi sulle leggi, i processi e il trattamento carcerario ponendo l’accettazione di questa “proposta che non si può rifiutare” come condizione “ineludibile” per la fine delle stragi e degli attentati. Dell’Utri, quindi, avrebbe sostituito prima Salvo Lima e poi Vito Ciancimino come intermediario delle relazioni con la mafia, agevolando “il progredire della trattativa” e “la ricezione di tale minaccia da Berlusconi, dopo il suo insediamento come capo del governo”.
La scena dell’omicidio del dc Salvo Lima (13 marzo 1992)
Il pm Tartaglia ha spiegato come si arrivò al risultato partendo dalle dichiarazioni del 1994 del pentito di Cosa Nostra catanese, Filippo Malvagna: “Dopo gli incendi erano scesi a Catania direttamente personaggi del gruppo Berlusconi. So che è sceso – testuale – un alto dirigente del gruppo Berlusconi ed è stato sanato tutto”. Il pm a questo punto ricorda le due perplessità del pentito per come si era svolta la vicenda: da un lato la mafia aveva incassato pochi soldi; dall’altro a gestire la vicenda, nonostante gli attentati fossero nel Catanese, erano stati i Corleonesi. “Il modo in cui era stata chiusa quella vicenda – spiega ai giudici il pm Tartaglia – era la conferma per Malvagna che la finalità era duplice perché l’estorsione era stata chiusa a meno della metà del dovuto (…) e questo dice Malvagna perché la dovevano chiudere i Corleonesi (…) perché non è questione di soldi, è questione di amicizie e basta”. Per il pm Tartaglia tutto inizia alla fine del 1991 quando, come racconta il pentito Leonardo Messina, ci sono riunioni dei boss della Cupola nelle campagne di Enna per decidere la strategia di destabilizzazione: “I tempi sono questi: fine 1991, riunioni di Enna, fase di malcontento, ricerca nuovi referenti (politici dopo la delusione per Lima, ndr) quello che ci dice Messina (pentito che parla di riunioni con Riina e Provenzano per decidere la strategia stragista di Cosa Nostra nel 1991, ndr) e la situazione viene chiusa con la discesa dell’alto dirigente, dice Malvagna, verso maggio del 1992”. A questo punto, Tartaglia si chiede con enfasi: “Ma chi è questo alto dirigente? Avola (Maurizio Avola, altro pentito di Cosa Nostra catanese, ndr) conferma tutto quello che ha detto Malvagna: la collocazione temporale, gli incendi, i Corleonesi eccetera, però dice anche espressamente che l’uomo del gruppo Berlusconi, l’alto dirigente che era sceso a parlare, era Marcello Dell’Utri. Marcello D’Agata (boss di Catania, ndr) aveva detto ad Avola che nel corso di quegli incontri si era visto direttamente con Nitto Santapaola.
Sempre sul vero significato profondo dell’operazione Standa di Catania (l’incendio del negozio della catena di Berlusconi, nella centralissima via Etnea, il 18 gennaio 1990, ndr), voglio citare Giuseppe Di Giacomo che ha aggiunto in udienza: ‘Fu deliberato da quel potere di Cosa Nostra palermitano di attaccare la Standa affinché potessero assoggettare Berlusconi attraverso questi attacchi e indurlo non solo a un pagamento di una tangente ma affinché potessero realizzare un nuovo progetto politico (…) e anche Di Giacomo dice di aver sentito direttamente da Aldo Ercolano il nome di Dell’Utri come soggetto che era sceso a Giardini Naxos che si era incontrato certamente almeno con Aldo Ercolano, cugino del boss Nitto Santapaola”. Poi il pm Tartaglia si pone nei panni dell’avvocato di Dell’Utri e formula le solite obiezioni: “Ci potranno dire le difese che i collaboratori lo hanno detto tardi, e non è vero. Ci potranno dire che lo hanno detto con finalità calunniatorie e per avere visibilità, e non è vero”. Allora Tartaglia tira giù un asso che nei due gradi del processo Dell’Utri i colleghi Ingroia e Scarpinato non potevano giocare: le intercettazioni in carcere del Capo dei Capi.
“Richiamo solo la conversazione intercettata di Salvatore Riina del 22 agosto 2013. Vi dico da subito che non ci sono nomi. Non c’è Berlusca, Berlusconi, grande, grandissimo non c’è bisogno di utilizzare spettrogrammi o altro”. Qui Tartaglia ironizza sulla frase pronunciata da Giuseppe Graviano nel 2016 sulla cortesia a “Berlusca”, secondo l’accusa, o a “bravissimo”, secondo la difesa di Dell’Utri.
A differenza di Graviano che parlava piano, per il pm Tartaglia, con Riina non c’è bisogno di uno strumento come lo spettrogramma per tracciare le onde sonore al fine di decrittare le parole del boss.
Il pm prima di leggere le parole dette da Riina in cella nel 2013 nell’aula bunker, prima di imitare dialetto e tono del Capo dei Capi premette ironico: “Vediamo solo se si comprende a chi sta facendo riferimento Salvatore Riina”. Poi Tartaglia come un consumato imitatore di boss inizia a leggere interpretando: “Io mannaggia a questo uomo non sono riuscito a capirlo mai e però lo cercavamo. A questo si cercava. Lo misi sotto per il fatto di Palermo e l’agganciammo. Tant’è vero che poi a Catania gli dettero fuoco alla Standa. ‘Dategli fuoco alla Standa’, gli dissi. Accussì li metto sotto, accussì, accussì li metto sotto accussì, dategli fuoco alla Standa”.
Poi, dopo avere riportato le parole di Riina, registrate nel 2013 mentre passeggiava nel carcere di Opera con il codetenuto Alberto Lorusso, Tartaglia prosegue a riportare il Riina-pensiero su un soggetto anonimo che sarebbe proprio Dell’Utri: “E ancora, sulla conclusione di questo assoggettamento intimidatorio per raggiungere il patto ‘mandò a chiddu. Scinnìu (scese, in palermitano, ndr) parlò cu uno e si mise d’accordo. Questo senatore sì, sì, serio era, serio devo dire la verità. Però poi finì in galera questo qua’. Io lascio a voi al di là di ogni equivoco di dizione – chiosa Tartaglia – capire chi è stato messo sotto; chi è il senatore che scinnìu, che era serio serio, però poi finì in galera questo qua, con riferimento agli incendi alla Standa di Catania”. Poi ancora Tartaglia: “Ed è certamente a tutta questa storia che Riina deve aver fatto riferimento anche il 20 settembre 2013, quando ancora Lorusso lo informa che rischiano di arrestare Dell’Utri dopo la sentenza definitiva, e Rina parlando tra sé, quasi in un soliloquio, neanche guarda Lorusso e dice: ‘Ma tanto non se la canta’, lo ripete cinque volte: ‘Ma tanto non se la canta’. Chi è che non se la canta?”, è la domanda retorica di Tartaglia.
Poi il pm rievoca il verbale di un altro collaboratore ormai defunto, Salvatore Cancemi, vicino a Vittorio Mangano e al boss della Noce, Raffaele Ganci, prima dell’arresto del braccio destro di Totò Riina. “A fine 1991, inizio 1992, Riina mandò a chiamare Cancemi e si vedono a casa di Guddo. C’è Raffaele Ganci e Riina gli disse di rivolgersi subito, spendendo il suo nome, a Vittorio Mangano (…) e gli dice: ‘Devi fare presente che si doveva mettere da parte rispetto al rapporto con Berlusconi perché a proposito di questo rapporto – dice Cancemi – Riina lo definiva un bene per tutta Cosa Nostra la definizione usata da Riina alludeva per quanto Riina faceva capire all’attualità e all’avvenire. Mangano si deve fare da parte proprio quando partono gli incendi alla Standa perché non serve più il rapporto economico, serve altro”.
Poi il pm Tartaglia analizza il versante opposto della Trattativa, il lato politico, e cerca un riscontro alla sua tesi dell’aggancio tra Dell’Utri e Cosa Nostra nel 1992 nella testimonianza di un ex politico di area Dc che svolgeva corsi per i funzionari di Publitalia, Ezio Cartotto.
“Ancora Ezio Cartotto dice che sempre subito dopo l’omicidio Lima (marzo 1992, ndr) e certamente prima di Capaci (maggio 1992, ndr) Dell’Utri in persona spiega a Cartotto qual era il suo progetto. E le parole che Cartotto riporta di Dell’Utri sono che era necessario sostituire Lima con qualcos’altro. Cartotto chiede: ‘Ma perché con qualcos’altro e non con qualcun altro?’ e Dell’Utri risponde che l’idea sua in quel momento era di andare nella direzione di un partito che fosse alternativo a quello del sistema di cui faceva parte la Democrazia cristiana. Quando Cartotto chiede: ‘Ma perché hanno ucciso Lima?’ L’hanno ucciso perché non mantenne la parola. Dell’Utri sa bene che la strategia dell’intimidazione è iniziata, che non si scherza più e capiremo meglio alla luce di questo dato il significato dell’imputazione a Dell’Utri del 1994. C’è la pressione larvata delle stragi incombenti, nel 1994, quelle per mantenere il patto. E infine dalla ricostruzione di Cartotto ricaviamo anche che l’idea di Dell’Utri nel marzo 1992 non era solo l’idea di un folle. Dice Cartotto che pochi mesi dopo lui partecipa – siamo tra la fine estate i primi di settembre del ’92 –, in qualità di funzionario a un incontro di Berlusconi a Montecarlo con dirigenti Fininvest e Publitalia. Siamo ancora due anni prima delle elezioni. E, diceva (Cartotto, ndr), abbiamo un primo discorso politico di Berlusconi. Dice: ‘Signori qui le cose vanno male, gli amici contano sempre meno e spariscono. I nemici contano sempre di più. Ci vuole fegato, noi dobbiamo cominciare a organizzarci diversamente. E, dice Cartotto, subito dopo Dell’Utri trasforma quell’incarico (che era stato conferito da Publitalia a Cartotto, ndr) sui comitati politici nel primo contratto schiettamente politico ancora nascosto – per non far rendere conto a tutti di quello che covava sotto le ceneri – ‘contratto di marketing politico’, così era denominato. Su questo tema dell’opzione politica di Dell’Utri già nel 1992, dopo l’omicidio Lima, concludo senza commentarle…”.
A questo punto il pm Tartaglia riporta le frasi dette dal boss Giuseppe Graviano al compagno di detenzione Umberto Adinolfi, nel 2016: “Perché davvero non hanno bisogno di esegesi, di consulenti, di periti e di tecniche per comprenderne il significato alla luce di tutto quello che abbiamo detto fino a questo momento. 10 aprile 2016, Graviano è intercettato con Adinolfi durante il passeggio: ‘Umbè nel ’92 voleva scendere, ‘92 già voleva scendere, ed era disturbato per acchianari. ‘92 voleva scendere però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi disse ‘ci vulissi una bella cosa’. Nel 1992 già voleva scendere”.
Più avanti la requisitoria dei pm a gennaio del 2018 entrerà nel dettaglio dei rapporti triangolari tra Berlusconi e Dell’Utri e tra quest’ultimo e la mafia. Il pm Tartaglia in questa prima fase ha però puntellato la sua tesi sull’innesco di questo rapporto triangolare dal sapore politico. La tesi dell’accusa è che ci sia una continuità nel disegno politico di tre soggetti, le Leghe del Sud, Sicilia Libera e infine Forza Italia. Tartaglia valorizza al riguardo la presenza ricorrente di alcuni soggetti nei movimenti suddetti e in Forza Italia. “Quando si punta si apre l’ultima fase della nostra imputazione, chi è che finisce nell’esperienza di Forza Italia? C’è Platania che è trovato nell’agenda di Dell’Utri proprio con riferimento a Sicilia Libera. C’è il fondatore di Sicilia Libera Palermo, iscritto tra i presidenti di circolo di Forza Italia. In particolare Nino Strano e Giuseppe Lipera, due personaggi presenti nell’esperienza delle Leghe del Sud e in Sicilia Libera che poi confluiscono in Forza Italia, Lipera e in Alleanza Nazionale, Strano. Il pm Tartaglia vede un filo comune.
“Abbiamo detto all’inizio della continuità di questo percorso da Enna (le riunioni con Riina e Provenzano, ndr) le Leghe e Sicilia Libera, abbiamo visto l’identità soggettiva, abbiamo visto le dichiarazioni dei collaboratori. Richiamo qualche nome (…) per dimostrare questa continuità.
C’è chi finisce esattamente nell’esperienza politica di Forza Italia, c’è Platania trovato nella pagina 19 dicembre 1993 dell’agenda sequestrata a Dell’Utri proprio con riferimento a Sicilia Libera. E ancora c’è il primo fondatore e presidente di Sicilia Libera Palermo, Vincenzo La Bua, iscritto all’elenco dei presidenti di club di Forza Italia. C’è ancora Nino Strano, vertice di Catania delle Leghe fondatore di Sicilia Libera Catania, e che fa questo Nino Strano? Strano fa un comunicato in quella data. Dice che da quel momento, il progetto Sicilia Libera Catania si deve ritenere concluso, che tutto il bacino elettorale raccolto si deve ritenere inglobato in Forza Italia”. Conclude così Tartaglia: “Più continuità di questa da An (Strano è stato parlamentare di An e poi di altri partiti fino al 2012, ndr) al ’94 non esiste. Presidente io ho concluso questa mia prima parte grazie”.
Via D’Amelio dopo la strage che uccise Paolo Borsellino e gli agenti di scorta (19 luglio 1992)
Nella parte di requisitoria svolta finora, il pm Antonino Di Matteo si è concentrato sull’innesco della Trattativa nel 1992 e sul ruolo del Ros dei Carabinieri nel periodo in cui il capo operativo era l’allora colonnello Mario Mori. Di Matteo ha riletto in aula quella che il pm considera “la confessione dell’esistenza di una vera e propria trattativa di tipo politico con la mafia basata e finalizzata sull’elementare concetto del do ut des”.
Per Di Matteo “l’ammissione di una vera e propria trattativa con i capi di Cosa Nostra attraverso Vito Ciancimino” è stata pronunciata dallo stesso Mori e dal suo collaboratore, l’allora capitano, poi colonnello, Giuseppe De Donno. Leggo alcuni passaggi virgolettati – ha detto Di Matteo il 15 dicembre – di queste dichiarazioni rese all’udienza pubblica in Corte d’Assise a Firenze del 27 gennaio 1998: ‘Andammo da Ciancimino e dicemmo: signor Ciancimino che cos’è questa storia qui? Ormai c’è un muro contro muro. Da una parte c’è Cosa Nostra, dall’altra parte c’è lo Stato, ma non si può parlare con questa gente?’. Guardate – quasi si indigna Di Matteo nella sua requisitoria, pensando a come è trattata la questione dalla stampa – basterebbero queste parole per dire: ma quale pseudo-trattativa? Il rappresentante del comando operativo del reparto d’eccellenza dei Carabinieri del Ros va da un soggetto, che sa essere in contatto con Riina e Provenzano, e gli dice: ‘Ma cos’è questo muro contro muro?’ Come se fosse strano che ci sia un muro contro muro tra l’organizzazione mafiosa più pericolosa al mondo e che poco tempo prima aveva fatto saltare in aria un pezzo di autostrada a Capaci e lo Stato. ‘Cos’è questo muro contro muro? Ma non si può parlare con Cosa Nostra?’. Che cos’è questa, signori giudici popolari? Se non già proprio subito una proposta di mettersi d’accordo per far venire meno il muro contro muro?”. A questo punto, Di Matteo ricorda quanto era diverso l’atteggiamento manifestato in quel periodo dall’ex ministro democristiano Vincenzo Scotti che, secondo l’accusa proprio per questo fu sostituito nel 1992 con un altro democristiano, ritenuto più morbido, al ministero dell’Interno, cioè l’imputato odierno per falsa testimonianza del processo Trattativa, Nicola Mancino. “Altro che Scotti alle Camere che dice non ci può essere nessuna ipotesi di mediazione e di compromesso. Ha ragione Riina – chiosa Di Matteo – quando dice: ‘Mi hanno cercato loro’”. Il pm con un crescendo retorico ripete la frase di Mori: ‘Cos’è questo muro contro muro, non si può parlare con questa gente?’. Mori se lo lascia scappare il 27 gennaio 1998 in una Corte d’assise che giudicava i responsabili degli eccidi di Roma, Firenze e Milano davanti alle parti civili, davanti ai parenti dei morti!”.
Poi Di Matteo precisa il contesto. Mori si fece scappare quella parola quando stava riferendo alla Corte le perplessità di Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo, vicino ai corleonesi e in particolare a Bernardo Provenzano, quando Mori si presentò con la mano tesa per ottenere elementi al fine di catturare Riina, dice lui. Di Matteo riporta così la deposizione di Mori nel 1998 a Firenze: ‘Ciancimino mi chiedeva se io rappresentavo solo me stesso o anche altri e io dissi: ‘Lei non si preoccupi, lei vada avanti. Lui capì e restammo d’accordo che volevamo sviluppare questa trattativa’. A questo punto, Di Matteo con tono tra l’indignato e l’istrionico ribadisce la parola pronunciata 19 anni fa da Mori stesso: “Trattativa”. Poi dopo una pausa da consumato attore prosegue: “Non esiste la trattativa? E il frutto avvelenato di giudici politicizzati, la presunta trattativa? La pseudo trattativa? La bufala della trattativa? La patacca della trattativa? Mori il 27 gennaio ’98”. Non basta. Di Matteo insiste riportando le frasi dette quel giorno al processo dall’altro suo odierno coimputato. “Capitano De Donno, sempre lo stesso giorno, 27 gennaio ’98: ‘Gli proponemmo di farsi tramite per nostro conto di una presa di contatto con gli esponenti dell’organizzazione mafiosa di Cosa Nostra al fine di trovare un punto d’incontro, un punto di dialogo finalizzato’ (De Donno è ancora più esplicito) alla immediata cessazione di queste attività di contrasto netto e stragista nei confronti dello Stato’. Troviamo un punto di dialogo (…) si capovolgono i termini della questione. Signori giudici popolari questo significa acquisire informazioni? Questo significa fare un’attività investigativa o questo significa, come io e noi qui diciamo, condurre in maniera spregiudicata una scellerata e spregevole trattativa con i vertici della mafia mentre c’era ancora il sangue dei morti in terra?
Proseguo nel citare alcune delle affermazioni rese sotto giuramento da De Donno: ‘Successivamente Ciancimino ci fece sapere che voleva incontrarci e ci disse che l’interlocutore e cioè la persona che faceva da mediatore tra lui e Salvatore Riina…’. Quindi – chiosa Di Matteo – sapevano già tutto. Sapevano che Ciancimino parlava con Riina (…). De Donno dice ai giudici della Corte d’assise di Firenze che – avendo parlato con Riina per capire fino a che punto gli interlocutori istituzionali fossero affidabili dal punto di vista mafioso – Riina chiese: ‘Vediamo fino a che punto si spingono. Dategli un passaporto a Ciancimino’. (…) Io mi permetto per l’ultima volta di sottolineare che veramente sono loro i primi a spiegare che loro hanno fatto è stata una trattativa”. Poi Di Matteo ripete ai giudici di Palermo quanto hanno scritto i giudici di Firenze nella loro sentenza sulle stragi: “L’esame congiunto di ciò che hanno detto testi e collaboratori dimostra in maniera indiscutibile che nella seconda metà del 1992 vi fu un contatto tra il Ros dei Carabinieri e i capi di Cosa Nostra attraverso Vito Ciancimino (…) iniziativa del Ros – perché di questo organismo si parla posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante, lo stesso comandante del reparto – aveva tutte le caratteristiche per apparire come una trattativa. L’effetto che ebbe sui mafiosi fu quello di convincerli definitivamente che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione’. Questo è scritto – chiosa Di Matteo – in una sentenza definitiva pronunciata da una Corte d’assise in nome del popolo italiano”. Poi Di Matteo va a leggere la conclusione della sentenza di Firenze: ‘Questa iniziativa al di là delle intenzioni con cui fu avviata (…) ebbe sicuramente un effetto deleterio per le istituzioni confermando il delirio di onnipotenza dei capi mafiosi e mettendo a nudo l’impotenza dello Stato”.
21 dicembre 2017