Ciao a tutti,
vi inoltriamo la lettera di invito alla costituzione del Comitato Valdera del “Coordinamento Democrazia Costituzionale”, che si terrà mercoledì 24/02/2016, alle ore 21:00, presso il Centro Poliedro di Pontedera (PI). Alleghiamo alla presente due documenti di approfondimento che trattano più in dettaglio gli argomenti della controriforma costituzionale e dei possibili effetti della nuova legge elettorale.
Saluti!
Ass.ne LA ROSSA
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Si sta costituendo il Comitato Locale della Valdera del Coordinamento Democrazia Costituzionale con l’obiettivo di difendere e valorizzare i principi della democrazia della nostra Costituzione nata dalla Resistenza, operando per attivare l’opinione pubblica, e per promuovere un dibattito politico che consenta la partecipazione di tutti i cittadini e faccia avanzare la consapevolezza della posta in gioco per gli anni futuri.
Vi chiediamo di partecipare alla costruzione unitaria di questo Comitato Valdera e di ritrovarci tutti presso il Centro Poliedro di Pontedera (PI) Mercoledì 24 Febbraio alle ore 21:00
Nel nostro paese sono in cantiere profonde modifiche dell’assetto politico-istituzionale, perseguite dall’attuale governo attraverso una vasta revisione della Costituzione ed una nuova legge elettorale destinate, purtroppo, ad incidere negativamente sulla qualità della democrazia e sui diritti dei cittadini. Ciò avviene ridimensionando la centralità del suffragio diretto e del Parlamento, quale istituzione rappresentativa della sovranità popolare, alterando le garanzie del bilanciamento dei poteri e realizzando una inusitata concentrazione di poteri nelle mani dell’Esecutivo espresso da un unico partito e in particolare esaltando il ruolo dominante del Presidente del Consiglio, nel quadro di un generale soffocamento delle autonomie regionali e locali. E’ inaccettabile che iniziative come queste, che incidono tanto profondamente sulla democrazia costituzionale avvengano imponendo al Parlamento una marcia a tappe forzate. Questo strozza il confronto politico impedendo la necessaria partecipazione dei cittadini al processo decisionale su scelte che determinano un significativo cambiamento del Patto costituzionale sul quale si fonda l’unità del popolo italiano come comunità politica. Ed è intollerabile che l’Esecutivo pretenda che la riforma costituzionale sia trattata come un decreto legge che il Parlamento deve ratificare, e in aggiunta che la Costituzione sia riscritta da un Parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale, senza sentire l’esigenza, almeno, di un largo e democratico confronto preventivo.
Hanno aderito costituzionalisti e personalità della cultura come Gustavo Zagrebelsky, Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara, Massimo Villone, Nadia Urbinati, Pietro Adami, Franco Russo, Anna Falcone, Domenico Gallo, Pancho Pardi, Francesco Baicchi, Sandra Bonsanti, Felice Besostri, Antonio Caputo, Raniero La Valle, Vincenzo Vita, Sergio Caserta, Alfiero Grandi, Tommaso Fulfaro, Lanfranco Turci, Gim Cassano, Paolo Ciofi, Cesare Salvi, Antonello Falomi, Giovanni Russo Spena, Emilio Zecca,nonché i parlamentari Vannino Chiti, Erica D’Adda, Francesco Campanella, Maria Grazia Gatti, Alfredo D’Attorre, Paolo Corsini, Felice Casson, Loredana De Petris, Stefano Fassina, Stefano Quaranta, Corradino Mineo, Giorgio Airaudo, Lucrezia Ricchiuti, Walter Tocci.
Cordiali saluti
Costituendo Comitato Valdera – Coordinamento Democrazia Costituzionale
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Italicum: una riforma che oltraggia la democrazia
di Domenico Gallo
Adesso che la nuova legge elettorale (italicum), approvata a tambur battente dal Parlamento, è stata promulgata dal Presidente della Repubblica, il discorso non è chiuso. Non solo perchè il nuovo sistema elettorale per la Camera dei deputati si applica a partire dal 1° luglio 2016, lasciando uno spazio temporale per i ripensamenti, ma anche perchè la riforma costituzionale che abolisce il carattere elettivo del Senato della Repubblica è ancora in gestazione e – se approvata – potrebbe essere spazzata via dal referendum.
Se l’obiettivo cui tendono le riforme elettorali è quello di razionalizzare il sistema politico per favorire la governabilità, la situazione attuale apre le porte al caos istituzionale perchè determina la contemporanea esistenza di due differenti sistemi elettorali per la Camera e per il Senato destinati per la loro natura intrinseca a provocare risultati profondamente divergenti nei due rami del Parlamento.
Può darsi che l’istituzione Senato della Repubblica sia in procinto di essere cancellata come ramo elettivo del Parlamento, ma la logica ed il buonsenso imponevano di delineare prima il nuovo volto del Parlamento e dopo di procedere ad approvare una riforma elettorale valida per la sola Camera dei Deputati.
Invece si è voluto procedere a tappe forzate, ricorrendo addirittura alla fiducia, come avvenne nel 1953 per la legge truffa, evidentemente per nascondere sotto l’asfalto del decisionismo governativo le scorie tossiche (per la democrazia) del nuovo sistema ed evitare ogni reale dibattito.
E tuttavia, proprio com’è accaduto per il porcellum, è l’insostenibilità costituzionale e politica del nuovo sistema che rende necessario riaprire il dibattito per far emergere le storture che devono essere corrette.
La legge elettorale, lungi dal rappresentare un’asettica tecnica di selezione della rappresentanza, è il principale strumento attraverso il quale si realizza un ordinamento rappresentativo e viene data concreta attuazione al principio supremo posto dall’art. 1 della Costituzione che statuisce: “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione”.
Sono le caratteristiche dei sistemi elettorali, e le loro opzioni per l’organizzazione della rappresentanza e la traduzione dei voti in seggi, che determinano la vera natura costituzionale del sistema politico, aumentandone o diminuendone il tasso di democraticità. E’ indiscutibile, pertanto, il valore costituzionale delle leggi elettorali, che è sempre stato ben chiaro ai teorici dello Stato di diritto. Oltre 200 anni fa Domenico Romagnosi così si esprimeva: ”la teoria delle elezioni altro non è che la teoria della esistenza politica della Costituzione.. E’ evidente che quando il diritto elettorale venga radicalmente modificato è la Costituzione che viene posta in discussione”.
Orbene la Corte Costituzionale, con una pronuncia storica è intervenuta nel campo del diritto elettorale, riconoscendo che anche questo terreno squisitamente politico deve essere coerente con i principi costituzionali e con diritti politici del cittadino.
E’ da qui che bisogna partire per giudicare la sostenibilità del nuovo sistema elettorale.
La Corte costituzionale con la sentenza 1/2014 ha dichiarato incostituzionali due istituti della legge Calderoli:
– le liste bloccate, riconoscendo ai cittadini elettori il diritto di scegliersi i propri rappresentanti esprimendo (almeno) una preferenza;
– il meccanismo che attribuiva alla minoranza “vincente” un premio di maggioranza senza soglia minima.
La Corte non ha contestato di per sé qualsiasi meccanismo correttivo dei voti espressi attraverso un premio di maggioranza, ma ha dichiarato costituzionalmente intollerabile che possa essere attribuito un premio di maggioranza “senza soglia” perchè l’effetto sarebbe quello di produrre una distorsione enorme fra la volontà espressa dagli elettori ed il risultato in seggi, determinando un vulnus intollerabile all’eguaglianza del voto e al principio stesso della sovranità popolare.
Nessun sistema elettorale è in grado di assicurare una perfetta corrispondenza fra i voti espressi ed i seggi conseguiti da ciascuna forza politica che partecipa all’agone elettorale. Questo però non consente di buttare a mare il principio espresso dall’art. 48 della Costituzione secondo cui il voto è libero ed uguale, diretta conseguenza del principio di eguaglianza e di partecipazione espresso dall’art. 3 Cost.
La legge Calderoli aveva istituzionalizzato la diseguaglianza dei cittadini italiani nel voto, attraverso il meccanismo previsto dall’art. 83 che prevedeva la formazione di un “quoziente di maggioranza” e di un “quoziente di minoranza”.
Nelle elezioni del 2013 il quoziente di maggioranza è stato di circa 29.000 voti, mentre quello di minoranza è stato superiore a 80.000 voti (cioè per eleggere un deputato nei partiti “premiati” sono stati sufficienti 29.000 voti popolari, mentre per eleggere un deputato per tutti gli altri partiti sono occorsi più di 80.000 voti popolari) Il rapporto fra i due quozienti è stato di 2,66. Basti pensare che il PD con 8.646.457 voti (25,42%) ha ottenuto 292 seggi (pari al 47%) mentre il Movimento 5 stelle con 8.704.969 (25,56%) ha ottenuto 102 seggi (pari al 16,5%).
La Consulta ha dichiarato incostituzionale il porcellum proprio per evitare il ripetersi di una simile insostenibile distorsione fra la volontà espressa dal popolo italiano ed i risultati in termini di composizione della Camera rappresentativa.
Orbene l’Italicum finge di adeguarsi alle prescrizioni della Corte sia per quanto riguarda le liste bloccate, sia per quanto riguarda il premio di maggioranza, ma in realtà si sbarazza dei paletti che la Consulta ha posto alla discrezionalità del legislatore, riesumando una versione peggiorata del porcellum.
L’italicum apparentemente abbandona il sistema delle liste bloccate (in cui i deputati sono eletti in base all’ordine di lista, senza che l’elettore possa mettervi becco), rendendo bloccati “soltanto”i capilista, mentre gli altri deputati vengono eletti sulla base delle preferenze. Però c’è un trucco. Vengono creati 100 collegi di dimensioni variabili da tre a sei seggi. Poiché difficilmente un partito elegge, in collegi così ridotti, più di un deputato, ecco che buona parte dei deputati non saranno scelti dagli elettori con il voto di preferenza ma saranno direttamente “nominati”dai capi dei partiti.
Ma ancor maggiore è lo scostamento dalle prescrizioni della Consulta in tema di premio di maggioranza. Anche in questo versante l’italicum finge di adeguarsi perchè introduce una soglia minima al premio di maggioranza (40%), con ciò legittimando, peraltro, un premio di maggioranza notevolissimo (il 15%, pari a circa 90 seggi), superiore a quello stabilito dalla legge truffa. Nella realtà quest’adeguamento viene rinnegato con un trucco. Alle elezioni del 1953, la coalizione governativa non raggiunse per pochi voti la soglia minima (50%) ed il premio di maggioranza non scattò. Per evitare questo rischio il legislatore moderno ha risolto il problema, rendendo la soglia minima rimuovibile, attraverso l’istituto del ballottaggio su base nazionale fra le due liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti.
In questo modo l’italicum non solo non abolisce il meccanismo del premio di maggioranza senza soglia censurato dalla Corte costituzionale, ma addirittura lo esalta, attribuendo il premio ad una unica lista, anziché alle coalizioni. E’ questo l’aspetto più preoccupante della nuova legge elettorale. L’italicum smantella ogni possibile coalizione perchè attribuisce il premio di maggioranza ad una sola lista. Per legge viene attribuita la maggioranza politica e la guida del Governo ad un solo partito, a prescindere dalla volontà del popolo sovrano. In questo modo viene reintrodotto nel nostro paese un sistema di governo basato sul partito unico. Per rendersi conto della gravità di questa svolta, basti pensare che dal 24 aprile del 1944 (secondo governo Badoglio) ad oggi si sono sempre e solo succeduti governi di coalizione, o quantomeno sostenuti da una maggioranza di coalizione, mentre un governo del partito unico in Italia è esistito soltanto nel ventennio fascista. Fu proprio la legge elettorale dell’epoca (legge Acerbo) che consentì l’avvento di un partito unico al governo, attribuendo una maggioranza garantita al “listone”.
Poichè il sistema politico italiano non è bipolare, né tantomeno bipartitico il meccanismo elettorale congegnato è destinato a produrre naturalmente – soprattutto attraverso il ballottaggio – una fortissima distorsione fra la volontà espressa dal corpo elettorale ed i seggi conseguiti dalle singole forze politiche, istituzionalizzando la diseguaglianza dei cittadini nell’esercizio del diritto di voto.
Una simulazione renderà più chiari gli effetti perversi di questo sistema.
Si prenda una platea i 30 milioni di voti. Concorrono alle elezioni 5 liste.
La lista n.1, la lista n. 2 e la lista n. 3 prendono il 25 per cento dei voti, pari a 7.500.000 ciascuno (ma la lista n. 3 prende qualche centinaio di voti in meno), mentre le altre liste si dividono il restante 25% . Effettuato il ballottaggio fra la lista n. 1 e la lista n. 2, quale che sia il vincitore, alla lista vincente, con il 25% dei voti vengono assegnati 340 seggi, mentre a tutte le altre liste che hanno raccolto 22.500.000 voti vengono assegnati i rimanenti 278 seggi. A questo punto il quoziente di maggioranza sarà pari a 22.058 voti, mentre il quoziente di minoranza sarà di 80.935 voti. Il rapporto fra questi due quozienti ci indica che il voto del cittadino di maggioranza vale 3,67 volte quello del cittadino di minoranza.
Queste semplici considerazioni dimostrano che l’Italicum è una legge insostenibile poichè aggredisce i fondamenti della democrazia repubblicana e ferisce uno dei principi che non può essere oggetto di revisione costituzionale: quello dell’eguaglianza dei cittadini. L’ aspetto più preoccupante dell’italicum è che attraverso questo percorso di manipolazione della rappresentanza viene cambiata profondamente la forma di governo e squilibrata ogni forma di contrappeso istituzionale poiché un solo partito – per legge – avrà in mano le chiavi del governo e della maggioranza parlamentare. Senza mediare con nessuno, potrà eleggere il Presidente della Repubblica e attraverso di lui influire sulla composizione della Corte costituzionale, neutralizzandone la funzione di controllo. L’italicum è una pistola carica puntata alle tempie della democrazia.
Distribuzione diseguale dei seggi e diseguaglianza dei cittadini nel voto con l’italicum.
Simulazione I
Si prenda una platea di 30.000.000 di voti.
Concorrono alla distribuzione dei seggi, avendo superato la soglia di sbarramento del 3%, n.5 partiti.
Nessuno dei partiti concorrenti riesce a superare la soglia del 40% per cui si rende necessario il ballottaggio
Partito | Voti ricevuti | Percentuale | Seggi |
Lista n.1 | 7.500.000 | 25% | 340 |
Lista n. 2 | 7.500.000 | 25% | 93 |
Lista n. 3 | 7.490.000 | 24,97% | 93 |
Lista n. 4 | 4.000.000 | 13,33% | 49 |
Lista n. 5 | 3.510.000 | 11,7% | 43 |
Quoziente di maggioranza | 7.500.000/340=
22.058 |
||
Quoziente di minoranza | 22.500.000/278=
80.935 |
||
Rapporto fra i 2 quozienti | 80.935/22.025=
3,67 |
Il voto del cittadino di maggioranza vale 3,67 volte in più del voto del cittadino di ” minoranza”
Distribuzione diseguale dei seggi e diseguaglianza dei cittadini nel voto con l’italicum.
Simulazione II.
Si prenda una platea di 30.000.000 di voti.
Concorrono alla distribuzione dei seggi, avendo superato la soglia di sbarramento del 3%, n.5 partiti.
Nessuno dei partiti concorrenti riesce a superare la soglia del 40% per cui si rende necessario il ballottaggio.
Partito | Voti ricevuti | Percentuale | Seggi |
Lista n.1 | 10.000.000 | 33,33% | 121 |
Lista n. 2 | 7.000.000 | 23,33% | 340 |
Lista n. 3 | 6.000.000 | 20,00% | 73 |
Lista n. 4 | 4.000.000 | 13,33% | 48 |
Lista n. 5 | 3.000.000 | 10,00% | 36 |
Quoziente di maggioranza | 7.000.000/340=
20.588 |
||
Quoziente di minoranza | 23.000.000/278=
82.733 |
||
Rapporto fra i 2 quozienti | 82.733/20.588=
4,01 |
Il voto del cittadino di maggioranza vale 4,01 volte in più del voto del cittadino di ” minoranza”
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ASSEMBLEA DEL COMITATO PER IL NO
Aula dei gruppi parlamentari, 11 gennaio 2016
Gustavo Zagrebelsky
Presidente onorario del Comitato per il No
Coloro che, la riforma costituzionale, la vedono gravida di conseguenze negative non si aggrappano alla Costituzione perché è “la più bella del mondo”. Sono gli zelatori della riforma che usano quell’espressione per farli sembrare degli stupidi conservatori e distogliere l’attenzione dalla posta in gioco. La posta in gioco è la concezione della vita politica e sociale che la Costituzione prefigura e promette, sintetizzandola nelle parole “democrazia” e “lavoro” che campeggiano nel primo comma dell’art. 1. Qui c’è la ragione del contrasto, che non riguarda né l’estetica (su cui ci sarebbe peraltro molto da dire, leggendo i testi farraginosi, incomprensibili e perfino sintatticamente traballanti che sono stati approvati) né soltanto l’ingegneria costituzionale (al cui proposito c’è da dire che nessuna questione costituzionale è mai solo tecnica, ma sempre politica).
Molte volte sono state chiarite le radici storiche e ideali di quella concezione, perfettamente conforme alle tendenze generali del costituzionalismo democratico, sociale e antifascista del II dopoguerra, tendenze riassunte nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel dicembre del 1948, di cui la nostra Costituzione contiene numerose anticipazioni, perfino sul piano testuale. Quelle, le radici della Costituzione che c’è. E quelle della Costituzione che si vorrebbe che fosse, quali sono?
Quali credenziali possono esibire gli attuali legislatori costituzionali? A parte la questione, bellamente ignorata, dell’incostituzionalità della legge elettorale in base alla quale essi sono stati eletti; a parte la falsificazione delle maggioranze che quella legge ha comportato, senza la quale non ci sarebbero stati i numeri in Parlamento; a parte tutto ciò, la domanda che deve essere posta è: quale visione della vita politica li muove? A quale intento corrispondono le loro iniziative? C’è un “non detto” e lì si trovano le ragioni di tanta enfasi, di tanto accanimento, di tanta drammatizzazione che non si giustificherebbero se si trattasse solo di riduzione dei costi della politica e di efficientismo decisionale. La posta in gioco non è di natura economica e funzionale (risparmiare sui costi e sui tempi delle decisioni). Se fosse solo questo, si dovrebbe trattare la “riforma” come una riformetta da discutere tecnicamente, incapace di sommuovere acute passioni politiche. Invece, c’è chi la carica d’un significato eccezionale, si atteggia a demiurgo d’una fase politica nuova e dice d’essere pronto a giocarsi su di essa perfino il proprio futuro politico.
Ciò si spiega, per l’appunto, con il “non detto”. Cerchiamo, allora, di dirlo, nel quadro delle profonde trasformazioni istituzionali degli ultimi decenni, trasformazioni che hanno comportato un ribaltamento della democrazia parlamentare in uno strano regime tecnocratico-oligarchico che, per sua natura, ha come suo punto di riferimento l’esecutivo. Viviamo in “tempi esecutivi”! La politica esce di scena. I tecnici ne occupano lo spazio nei posti-chiave, cioè nei luoghi delle decisioni in materia economica, oggi prevalentemente nella versione della finanza, e nel campo della politica estera, oggi principalmente nella versione degli impegni militari. La partecipazione politica che dovrebbe potersi esprimere nella veritiera rappresentazione del popolo, cioè in Parlamento, a partire dai bisogni, dalle aspirazioni, dagli ideali non è più considerata un valore democratico da coltivare, ma un intralcio. Così, del fatto che la metà degli elettori sia lontana dalla politica al punto da non trovare attrattive nell’esercizio del diritto di voto, nessuno si preoccupa: pare anzi che ce ne si rallegri. Il fatto che i sindacati trovino difficoltà nel rappresentare i bisogni dei lavoratori, invece che a spingere a misure che ne rafforzino la capacità rappresentativa, induce ad atteggiamenti sprezzanti e di malcelata soddisfazione. Che i diritti dei lavoratori siano sottoposti e condizionati alle esigenze delle imprese, non fa problema: anzi il ritorno a condizioni pre-costituzionali si considera un fattore di modernizzazione. Che i partiti siano a loro volta ridotti come li vediamo, a sgabelli per l’ascesa alle cariche di governo e poi a intralci da tenere sotto la frusta del capo e di coloro che fanno cerchio attorno a lui, non è nemmeno da denunciare con più d’una parola. A questa desertificazione social-politica corrisponde perfettamente la legge elettorale. Essa dovrebbe servire a incoronare “la sera stessa delle elezioni” il vincitore, cioè il capo politico che per cinque anni potrà governare controllando il Parlamento attraverso il controllo del partito di cui è capo. La piramide si è progressivamente rovesciata e non abbiamo fatto il necessario per impedirlo. La democrazia dalle larghe basi voluta dalla Costituzione è stata sostituita da un regime guidato dall’alto dove si coagulano interessi sottratti alle responsabilità democratiche. L’informazione si allinea; la vita pubblica è drogata dal conformismo; gli intellettuali tacciono; non c’è da attendersi alcuna vera alternativa dalle elezioni, pur se e quando esse si svolgano, e se alternative emergessero dalle urne, sarebbe la pressione proveniente da fuori (istituzioni europee, Fondo monetario internazionale, grandi fondi d’investimento) a richiamare all’ordine; nella scuola si affermano modelli verticistici e i nostri studenti e i nostri insegnanti gemono sotto programmi ministeriali finalizzati a produrre non cultura ma tecnica esecutiva.
Può essere che questo è quanto richiedono i tempi che viviamo, i tempi dello sviluppo per lo sviluppo, dell’innovazione per l’innovazione, della competitività che non ammette deroghe, della spremitura degli esseri umani, dei diritti dei più deboli e delle risorse naturali per tenere il passo sempre più veloce della concorrenza. Può essere che solo a queste condizioni il nostro Paese sia annoverabile tra i virtuosi, nei quali la finanza sovrana consideri conveniente investire le sue immani risorse; cioè, in termini più realistici, consideri conveniente venire a comperarci, approfittando delle tante privatizzazioni che segnano l’arretramento dello Stato a favore degli interessi del mercato. Gli inviti che provengono dalle istituzioni sovranazionali, legate al governo della finanza globale, sono univoci. I moniti che provengono dall’Europa (“ce lo chiede l’Europa”) sono dello stesso segno. Perfino una banca d’affari (gli “analisti” della J.P. Morgan) ha dettato la propria agenda, nella quale è scritta anche la riduzione degli spazi di democrazia che le costituzioni antifasciste del II dopoguerra (è detto proprio così e nessuno, tra le autorità che avrebbero il dovere di difendere la democrazia e la Costituzione ha protestato) hanno garantito ai popoli usciti dalle dittature. La riforma della Costituzione, promossa, anzi imposta dall’esecutivo, s’inserisce in questo contesto generale. Il “non detto” è qui. Occorre dimostrare d’essere capaci di rispondere alle richieste. Se, come si dice nella prosa degenerata del nostro tempo, non si riesce a “portare a casa” il risultato, viene meno la fiducia di cui i governi esecutivi devono godere rispetto ai centri di potere che stanno sopra di loro e da cui, alla fine dipende la loro legittimazione tecnica. La chiamiamo “riforma costituzionale”, ma è una “riforma esecutiva”. Stupisce che tanti uomini e tante donne che hanno nella loro storia politica numerose battaglie per la democrazia, si siano adeguati a subire questa involuzione, anzi collaborino attivamente chiudendo gli occhi di fronte a ciò che a molti appare evidente. La riforma costituzionale è il coronamento, dotato di significato perfino simbolico, di un processo di snaturamento della democrazia che procede da anni. Coloro che l’hanno non solo tollerato ma anche promosso sono oggi gli autori della riforma. Sono gli stessi che ora ci chiedono un voto che vorrebbe essere di legittimazione popolare a un corso politico che di popolare non ha nulla.
I singoli contenuti della riforma importano poco o nulla di fronte al significato politico. Contano così poco che chi avesse voglia di leggere e cercare di capire ciò su cui ci si chiede di esprimerci nel referendum resterebbe sconcertato. A parte la lingua, a parte la tecnica più da “decreto mille proroghe” che da Costituzione (si veda il modo di elencare le competenze del nuovo Senato), non si arretra né di fronte alle leggi della matematica e della sintassi, né alle esigenze della logica. Si prenda quello che viene presentato come il cuore della riforma, il nuovo Senato: 95 senatori che rappresentano Regioni e Comuni, più cinque che “possono essere nominati” dal Presidente della Repubblica. Quale logica regga un mélange come questo che poteva spiegarsi nel vecchio Senato che portava tracce di storia costituzionale pre-repubblicana, sfugge. Ogni Regione “ha” (sic!) almeno due senatori, e così anche le Province di Trento e Bolzano. Se si ritiene (ma non è chiaro) che tra i due non sia compreso il sindaco, che dunque si deve aggiungere al numero fisso minimo per ogni Regione, il conto è presto fatto: le Regioni sono 20; venti per 2 fa 40. A ciò si aggiungono 4 senatori per le Province anzidette, e fa 44. Si aggiungono i 22 senatori eletti tra i sindaci, uno per ciascuno dai consigli regionali e provinciali e fa 66. 95 meno 66 fa 29. Questi 29 seggi senatoriali dovrebbero servire a garantire la “ripartizione proporzionale” tra le Regioni, secondo le rispettive popolazioni! 29/20! Se si fa qualche calcolo, risulta tutto meno che la proporzionalità che pure è prevista dal IV comma dell’art. 2. Non cambia di molto il risultato, se il sindaco entra a far parte del numero due garantito a ogni regione. È un guazzabuglio di logiche diverse: la garanzia di almeno due posti in Senato corrisponde all’idea della rappresentanza degli Enti regionali, ma la distribuzione proporzionale dei seggi ulteriori corrisponde invece all’idea che, a essere rappresentate sono le popolazioni. Per non parlare del caso del Trentino Alto Adige che si troverebbe ad “avere” 6 senatori, due per ciascuna Provincia e due per la Regione (a meno che si sostenga, contro ciò che dice lo Statuto speciale, che il Trentino non è una Regione, ma è semplicemente la risultante delle due Province, nel qual caso avrebbe comunque quattro senatori). Anzi, forse ne avrebbe 7, calcolando il sindaco fuori del numero minimo di due, garantito alla Regione. Qual è il filo conduttore ha seguito il legislatore costituzionale? Ma c’è un filo conduttore o siamo allo sbando?
L’art. 2 avrebbe dovuto superare lo scoglio su cui, per un certo periodo, sembrava doversi incagliare la riforma: l’elezione indiretta o diretta. È storia parlamentare nota e non merita d’essere raccontata ancora una volta. Si è creduto di superare l’ostacolo lasciando ferma l’elezione da parte dei Consigli regionali e provinciali: dunque, elezione indiretta, aggiungendo però, in un comma (il V) che tratta di tutt’altro (la durata del mandato dei senatori), lo shibbolleth: eletti “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo” dei Consigli regionali e provinciali. Bel rompicapo! Se “in conformità” significa che i Consigli non dispongono di poteri di scelta autonoma, l’elezione non è più un’elezione ma è una ratifica. Se possono operare scelte, è la “conformità” a essere contraddetta. In più, il II comma stabilisce che i Consigli “eleggono con metodo proporzionale”: presumibilmente, in proporzione alla consistenza dei gruppi consiliari. Ma gli elettori si esprimono sulle persone. I gruppi consiliari si formano dopo. Come può esserci “conformità” quando non c’è omogeneità delle volizioni? Come può esserci proporzionalità, inoltre, se si tratta di assegnare due posti o pochi di più?
Questo articolo 2 è esempio preclaro del modo con cui si è giunti all’approvazione della riforma. Essendo prevalsa l’opinabile opinione secondo la quale nella “lettura” del Senato si sarebbe potuto intervenire solo su norme modificate dalla Camera, si è sfruttata la circostanza che alla Camera, in quel V comma, si era sostituito un “nei” con un “dai” per appiccicarci “la conformità”, oltretutto con una virgola e un inciso sintatticamente scorretti. Tutte queste difficoltà dovranno essere affrontate in una legge di attuazione. Ma, ci può essere attuazione di contraddizioni?
Queste considerazioni precedono la discussione circa l’opportunità di superare il c.d. bicameralismo perfetto, opportunità peraltro da gran tempo largamente condivisa. Ma, una cosa è il cambiare, un’altra è il come cambiare. Siamo di fronte a un testo incomprensibile. Verrebbe voglia di interrogare i fautori della riforma – innanzitutto il presidente della Repubblica di allora, il presidente del Consiglio, il ministro – e chiedere, come ci chiedevano a scuola: dite con parole vostre che cosa avete capito. Qui, addirittura, che cosa avete capito di quello che avete fatto? Saprebbero rispondere? E noi, che cosa possiamo capirci?