Quali vaccini esistono per il Covid-19, chi li paga, chi li produce e perché sono distribuiti in modo estremamente diseguale nel mondo
Nello scorso mese di maggio l’assemblea annuale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, avevano posto quello che era apparso come un punto fermo. Il vaccino contro il Covid-19, malattia provocata dal coronavirus, dovrà essere «un bene pubblico mondiale», aveva spiegato Guterres. Per questo, la stessa OMS aveva lanciato l’iniziativa ACT (Access to Covid-19 Tools): una collaborazione globale finalizzata a garantire trattamenti accessibili a tutti contro la malattia. Allo stesso modo, fu predisposto un dispositivo chiamato Covax, co-diretto con l’Alleanza globale per i vaccini (GAVI), organismo pubblico-privato creato nel 2000 con l’obiettivo di aiutare i Paesi poveri nelle campagne di vaccinazione.
Covax, il tentativo dell’OMS di garantire il vaccino ai Paesi poveri
In termini concreti Covax avrebbe dovuto “pesare” nei negoziati con le industrie farmaceutiche, al fine di ottenere prezzi adeguati. I Paesi più ricchi avrebbero pre-acquistato le dosi e finanziato in tal modo lo sforzo economico necessario affinché i vaccini, una volta omologati, potessero essere venduti anche alle nazioni meno fortunate. Ciò poiché queste ultime non sono in grado di investire sulla ricerca a fondo perduto. Problema: Cina, Russia e Stati Uniti non hanno partecipato da subito al dispositivo. Pechino ha aderito soltanto nello scorso ottobre. A loro volta, gli europei, che invece avevano aderito da subito, si sono trovati incastrati. E hanno cominciato a comprare le dosi. Ciascuno per sé.
In termini finanziari, il risultato è stato che i Paesi ricchi hanno consacrato agli acquisti diretti presso le case farmaceutiche 88,3 miliardi di euro nel 2020 (secondo la fondazione kENUP). Mentre al meccanismo Covax sono andati finora solo 2,4 miliardi di dollari. Soltanto venerdì 19 febbraio i membri del G7 hanno accettato di concedere un aiuto complessivo di 7,5 miliardi.
Così, l’iniziativa solidale dell’OMS – che aveva promesso di riuscire a vaccinare il 20% della popolazione mondiale entro la fine del 2021 – ha dovuto rivedere le proprie ambizioni al ribasso. E anche i Paesi poveri hanno cominciato ad organizzarsi. L’Unione africana ha lanciato una propria iniziativa, l’African Vaccine Acquisition Task Team, e ha ordinato 670 milioni di dosi nello scorso gennaio. Ancora una volta sulla base del “ciascuno per sé”.
Il «cronico sotto-investimento» di Big Pharma nella ricerca sui vaccini
Cosa non ha funzionato? Come si è arrivati a questo punto? Si sa che le case farmaceutiche prediligono gli investimenti sui medicinali (trattamenti per malati) piuttosto che sui vaccini (prevenzione). Ciò per intuitive ragioni di business: in particolare nei casi delle malattie di lungo corso, è molto più lucrativo vendere un farmaco ciclicamente che un vaccino una tantum. Secondo uno studio di due economisti americani, Michael Kramer (premio Nobel nel 2019) e Christopher Snyder, ciò si riflette chiaramente nei numeri. Esiste, infatti, un «cronico sotto-investimento» da parte dell’industria farmaceutica nella ricerca sui vaccini.
Non è un caso se nella lista di chi ha prodotto quelli contro il Covid-19 non figurano (almeno per ora) alcuni colossi del settore come Roche o Novartis. Al contrario, nomi poco noti fino ha qualche mese fa sono oggi sulla bocca di tutti: è il caso di Moderna o BioNTech. Esempi perfetti per illustrare il ruolo centrale che hanno ormai le imprese di biotecnologia (biotech). Si tratta di piccole strutture relativamente giovani. Moderna, ad esempio, ha soltanto 10 anni di vita e poco più di un migliaio di dipendenti. BioNTech è stata creata nel 2008 e dà lavoro a circa 1.300 persone.
Numeri imparagonabili con quelli dei leader del settore farmaceutico. Ma per Big Pharma le “biotech” sono fondamentali. Perché è a loro che è stata, di fatto, delegata la ricerca. Ciò che infatti potrebbe essere considerato come il cuore del mestiere dell’industria farmaceutica, per le grandi multinazionali è qualcosa di eccessivamente costoso e che comporta troppi rischi.
La ricerca sui vaccini delegata dalle multinazionali alle biotech
«La finanziarizzazione delle grandi case farmaceutiche porta ad esternalizzare queste attività. Le aziende preferiscono risparmiare i capitali propri e tendono ad acquistare piccole partecipazioni nelle biotech, anziché finanziare direttamente la ricerca. Spesso, non appena si apre una prospettiva di mercato, ovvero non appena un’innovazione mostra di funzionare realmente, le multinazionali acquistano le imprese di biotecnologia», ha riassunto Matthieu Montalban, economista presso l’università di Bordeaux, parlando alla rivista Alternatives Economiques.
L’intero processo comporta molto tempo. Ci vogliono parecchi anni per terminare le ricerche su un farmaco o un vaccino. E solo poche biotech (una su dieci in media) non fallisce nei primi anni di vita. Come mai, però, nel caso del Covid-19 i tempi si sono accorciati improvvisamente moltissimo? E come mai numerosi colossi si sono convinti che, stavolta, era utile investire risorse (umane e finanziarie) su un vaccino piuttosto che su una cura? Semplice: grazie agli investimenti pubblici. Grazie alle gigantesche promesse di acquisto da parte dei governi. Grazie allo snellimento delle procedure e alle partnership con università o istituti di ricerca (pubblici).
Grazie agli Stati, il vaccino si è trasformato nel business più lucrativo
Così, a differenza del passato, per Big Pharma, la ricerca sui vaccini (o, meglio, su questo vaccino) si è improvvisamente trasformata nel business più lucrativo. Il che ci indica da un lato che, in caso di intervento diretto degli Stati, l’ostacolo legato agli investimenti può essere rapidamente superato. Dall’altro, che quella di Big Pharma non è improvvisa filantropia, ma un preciso calcolo.
Basti pensare che, secondo una (prudente) stima di Credit Suisse, il business potenziale dei vaccini per il Covid-19 sarebbe di almeno 10 miliardi di dollari all’anno. Ciò immaginando un costo medio di produzione di 5-10 dollari e un prezzo sul mercato medio di vendita di 20 dollari a dose. Prospettive che hanno portato numerose aziende del comparto farmaceutico a vedere “esplodere” le loro capitalizzazioni in Borsa. Un effetto-bolla generato proprio dalla “mano” pubblica. Mano che, in realtà, è sempre ben presente anche nella ricerca sui medicinali: uno studio effettuato negli Stati Uniti nel periodo 2010-2016 ha evidenziato che il 90% delle nuove molecole (farmaci) è stato finanziato proprio da enti pubblici.
Il coronavirus ha fatto emergere un “nazionalismo sanitario”
La politica del “ciascuno per sé”, tuttavia, ha comportato anche altre distorsioni. La prima è il primato dei ricchi. Israele, ad esempio, avrebbe sborsato il 40% in più rispetto agli europei per assicurarsi le dosi di cui ha bisogno. E oggi, guarda caso, risulta la prima nazione in assoluto in termini di avanzamento nella campagna vaccinale. Pur avendo “dimenticato” per mesi i palestinesi: «Nulla può giustificare il fatto che in Cisgiordania, da una parte della strada i residenti di religione ebraica ricevono i vaccini, dall’altra i palestinesi non ne hanno diritto», ha denunciato Omar Shakir, direttore per Israele e per la Palestina della Ong Human Rights Watch. Allo stesso modo, finché è stato presidente, Donald Trump ha imposto che le dosi prodotte dalle case americane fossero destinate prioritariamente ai cittadini statunitensi.
Risultato: 10 nazioni si sono accaparrate il 75% delle dosi di vaccino presenti nel mondo. Mentre 130 Paesi non ne hanno ricevuto neanche una dose, secondo quanto denunciato da Antonio Guterres.
Tutto ciò si intreccia con un altro nodo: quello dei brevetti. Documenti che garantiscono a Big Pharma il monopolio sulla produzione (e sui profitti). Da due mesi circa, esistono sei vaccini in circolazione. Secondo l’OMS, altri 177 sono in fase di sperimentazione (63 sull’uomo). In Europa e America settentrionale, tuttavia, di fatto ne esistono soltanto tre: quelli di Pfizer/BioNTech e Moderna (Stati Uniti) e quello di AstraZeneca (Regno Unito e Svezia). Eppure, tra i più utilizzati nel mondo figurano lo Sputnik V russo e il Sinovac cinese. Mentre si attende a breve il via libera a un prodotto della Johnson & Johnson e al CureVac tedesco.
Cuba promette il vaccino per i poveri
Il mondo occidentale, dunque, appare incastrato in una curiosa logica economica. Con i governi che intervengono nella fase di ideazione, in quella di sviluppo e in quella di test dei vaccini, assumendosi la stragrande maggioranza dei rischi finanziari. Per poi pagare quegli stessi vaccini 25 dollari a dose (nei casi di Moderna e BioNTech), che per due dosi a persona fanno 50 dollari. A tutto vantaggio di Big Pharma: Pfizer prevede di incassare 15 miliardi di dollari per il suo vaccino anti-Covid. Soltanto nel 2021.
Il solo siero che dovrebbe presentare un brevetto “libero” è il Soberana 02, sviluppato a Cuba. L’autorizzazione dovrebbe arrivare entro le prossime settimane. Fabrizio Chiodo, ricercatore italiano che collabora con l’istituto Finlay de L’Avana ha spiegato che il vaccino «verrà distribuito gratuitamente ai Paesi in via di sviluppo». In pratica, «un bene pubblico mondiale». O quasi. Come chiedeva l’OMS.