L’arresto del CEO di Telegram, Elon Musk: “Violata la libertà di espressione”. Lavrov: “Rapporti con Parigi al punto più basso”
Giuseppe Cirillo
Mark Zuckerberg, il CEO di Meta, l’azienda che possiede Facebook, Instagram e il servizio di messaggistica WhatsApp, ha ammesso di aver ricevuto pressioni da parte del governo degli Stati Uniti, in particolare dall’amministrazione Biden, per censurare determinati contenuti sia su Facebook che su WhatsApp. Parte di queste richieste sarebbero state fatte per esercitare pressioni per rimuovere contenuti che riguardavano il Covid-19. “Nel 2021 – ha ammesso Zuckerberg – alti funzionari dell’amministrazione Biden, compresa la Casa Bianca, hanno ripetutamente esercitato pressioni sui nostri team per mesi affinché censurassero alcuni contenuti relativi al Covid-19, inclusi l’umorismo e la satira”. Zuckerberg ha rivelato queste informazioni attraverso una lettera inviata alla Commissione Giustizia della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, guidata dai Repubblicani, nella quale ha spiegato di essere rammaricato per la decisione di aver accettato le richieste fatte dall’amministrazione di Joe Biden. “Le pressioni del governo erano sbagliate – ha ammesso il CEO di Meta – e mi dispiace che non siamo stati più espliciti al riguardo.” E ha aggiunto: “Oggi non lo rifaremmo. Come ho detto ai nostri team all’epoca, sono fermamente convinto che non dovremmo compromettere i nostri standard di contenuto a causa delle pressioni esercitate da qualsiasi amministrazione, in entrambe le direzioni, e siamo pronti a reagire se qualcosa di simile dovesse accadere di nuovo”.
Il fondatore di Facebook ha voluto sottolineare che Meta ha tratto insegnamento dagli errori commessi in passato e, per questo motivo, ha aggiornato le proprie politiche per prevenire il ripetersi di situazioni simili in futuro. Zuckerberg ha spiegato che Meta non riduce più temporaneamente la visibilità delle notizie in attesa delle verifiche da parte dei fact-checker negli Stati Uniti. Ha anche evidenziato un cambio di rotta riguardo ai contenuti di natura politica. Inoltre, ha ricordato il periodo in cui, insieme a sua moglie Priscilla Chan, ha donato oltre 400 milioni di dollari a organizzazioni non profit per sostenere il processo elettorale durante la pandemia. “So che alcuni ritengono che questo lavoro abbia avvantaggiato un partito rispetto all’altro. Il mio obiettivo – ha scritto il fondatore di Facebook – è quello di essere neutrale e di non giocare un ruolo in un senso o nell’altro, né di apparire come tale. Perciò non ho intenzione di dare un contributo simile durante questo ciclo elettorale”.
La storia del laptop di Hunter Biden e la falsa pista della disinformazione russa
Durante e dopo le elezioni presidenziali del 2020, un’altra vicenda che ha suscitato grande dibattito pubblico è stata quella del computer portatile di Hunter Biden, figlio del presidente Joe Biden. Il laptop conteneva materiale compromettente, tra cui email, foto e video. Nell’aprile del 2019, Hunter Biden decise di portare il suo computer laptop in un negozio di riparazioni nel Delaware. Sembra che, dopo vari tentativi di restituire il computer portatile al figlio di Biden, il proprietario del negozio di informatica abbia deciso di contattare l’FBI per denunciare la presenza di materiale compromettente all’interno del disco rigido del computer, tra cui varie email, fotografie e video che ritraevano Hunter Biden in situazioni imbarazzanti, alcune delle quali sembravano confermare anche l’uso di sostanze stupefacenti da parte. Dopo che l’FBI prese possesso del laptop, una copia dei file compromettenti finì nelle mani dell’avvocato Rudy Giuliani, consigliere di Donald Trump, il quale passò l’informazione al New York Post, che ovviamente pubblicò la storia. L’articolo del New York Post – come riporta un articolo del Fatto Quotidiano” – oltre a mostrare le foto compromettenti, sosteneva che le email provassero accordi di corruzione tra Hunter, il padre Joe e una società ucraina, Burisma. Nel momento in cui la storia iniziò a circolare, Twitter e Facebook intervennero immediatamente per limitarne gli effetti. Twitter rimosse i contenuti legati alla storia, mentre Facebook ne limitò la visibilità in attesa di una verifica da parte del proprio team di fact-checking, al fine di verificare la possibilità che dietro quella storia ci fosse la manina della Russia attraverso una campagna di disinformazione. Successivamente, vari media confermarono l’esistenza del laptop e l’autenticità di parte del materiale contenuto, anche se non vennero trovate prove definitive che collegassero Joe Biden ad affari illeciti.
All’interno della lettera inviata da Mark Zuckerberg alla Commissione Giustizia della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, vengono ricostruite le dinamiche che portarono il fondatore di Facebook a decidere di limitare la visibilità dei contenuti relativi alla vicenda che ha travolto il figlio del presidente Biden. “L’FBI ci aveva avvertito di una potenziale operazione di disinformazione russa sulla famiglia Biden – ha spiegato Zuckerberg -. Quando abbiamo visto un articolo del New York Post che riferiva di accuse di corruzione che coinvolgevano la famiglia dell’allora candidato democratico alla presidenza Joe Biden, abbiamo inviato l’articolo ai fact-checker per una revisione e lo abbiamo temporaneamente declassato in attesa di una risposta”. Ma la notizia era vera. “Da allora – ha sottolineato il CEO di Meta – è stato chiarito che non si trattava di disinformazione russa e, col senno di poi, abbiamo capito che non avremmo dovuto declassare la storia”. La Commissione Giustizia della Camera USA, a maggioranza repubblicana, ha raccolto delle prove che confermano le pressioni esercitate dall’FBI e dai membri dell’amministrazione Biden, in particolare dall’attuale Segretario di Stato Antony Blinken. Secondo la ricostruzione fatta dalla Commissione Giustizia della Camera USA, Blinken avrebbe contattato l’ex vice direttore della CIA Michael Morell, spingendolo a dichiarare pubblicamente che la storia del laptop aveva tutte le caratteristiche di una disinformazione russa.
Il caso Telegram e l’arresto di Pavel Durov
L’arresto del fondatore e CEO di Telegram, Pavel Durov, avvenuto sabato scorso all’aeroporto di Le Bourget a Parigi, ha riacceso i timori che la politica e i poteri forti stiano ancora una volta cercando di controllare e manipolare la comunicazione per i propri interessi. Infatti, subito dopo la notizia dell’arresto di Durov, cittadino russo, francese ed emiratino, sono esplose critiche sul web. Molti hanno puntato il dito contro l’Occidente, e in particolare contro Parigi, paragonando l’arresto di Durov a quello di Julian Assange. Il miliardario Elon Musk, proprietario di Tesla, SpaceX e della piattaforma social X (ex Twitter), ha pubblicamente accusato Parigi di violare la libertà di espressione nel caso Durov. Riguardo al caso Meta, invece, Musk ha parlato di una “violazione del Primo Emendamento” della Costituzione americana, che, vale la pena ricordare, non solo garantisce le libertà fondamentali di espressione, ma proibisce anche al Congresso di fare leggi che limitino la libertà di parola o di stampa.
Riguardo all’arresto di Durov, oltre a Elon Musk, anche il Cremlino ha criticato Parigi. Il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ha sottolineato come i “rapporti con Parigi siano giunti al punto più basso”. Ancora più esplicito è stato il presidente della Duma di Stato, Vyacheslav Volodin, che ha accusato apertamente gli Stati Uniti: “Dietro l’arresto di Durov c’è Washington – ha dichiarato Volodin -. Telegram è una delle poche, e la più grande, piattaforma Internet sulla quale gli Stati Uniti non hanno alcuna influenza, e opera in molti Paesi di loro interesse”. Volodin – scrive l’agenzia “Adnkronos” – ha aggiunto che per il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, è “importante” prendere il controllo dell’app di messaggistica “prima delle elezioni presidenziali americane”. Ha inoltre sottolineato che, per Washington, “la sorveglianza sui social network, la loro totale censura e subordinazione, anche attraverso il ricatto con il pretesto di combattere varie minacce, è un metodo tradizionale di controllo politico e influenza esterna”.
28 Agosto 2024