Vecchi e nuovi protagonisti di una guerra di poteri occulti nel nuovo libro di Carlo Palermo
di Lorenzo Baldo – Seconda parte
Sfogliando le pagine del libro si arriva alla sentenza dalla Corte d’Appello di New York del 10 maggio 1984 attraverso cui la Corte distrettuale di New York condanna la Artoc Bank a restituire al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi quindici milioni di dollari, da versare a una consociata del Banco Ambrosiano in Perù. “Mi domando dove siano finiti questi soldi dopo la sua morte – scrive Carlo Palermo – e poi lo chiedo anche al figlio di Roberto Calvi, ma senza ottenere risposte. Nel 1987 in Perù, località nemmeno rientrante nelle competenze della nostra Gladio né dell’ultima cellula operativa Scorpione, appena formata a Trapani, avverrà una strana missione segreta dei nostri servizi, su ordine di Bettino Craxi, da allora a oggi sottoposta a segreto di Stato, per contrastare, si dirà, i guerriglieri di Sendero luminoso. Tuttavia proprio in quel Paese risiedeva la ‘società controllata del Banco Ambrosiano in Perù’, in favore della quale la Corte distrettuale di New York pronunciava nel 1984 la sentenza di condanna”. L’immagine che esce dalla composizione di questo mosaico è quello di un potere criminale che attraversa gli stati di tutto il mondo e che obbedisce a logiche ben definite. “Dopo tanti anni – sottolinea l’ex pm – mi sembra di vedere come in un film quel giudice di Trento che si rode per lo stop inflitto all’inchiesta mentre scopre le proprietà del PSI riguardo a quelle società indagate nelle operazioni di esportazioni di armi. Lo vedo recarsi a Roma, incredulo e deciso ad andare fino in fondo, per un incontro con il ministro di Grazia e giustizia Mino Martinazzoli con in mano un esposto contro l’onorevole Craxi (che conservo come ricordo). Dopo averlo letto, il ministro mostra un volto serio e accigliato e dice: ‘Se anche il presidente del Consiglio, intervenendo in quel modo, dovesse avere sbagliato, io, come ministro di Grazia e giustizia, che cosa potrei fare?’”.
Un’inchiesta smembrata
Nel 1996 un ex collega di Torre Annunziata (Na) chiede a Carlo Palermo di aiutarlo a rintracciare vecchi documenti. “Il 10 novembre (‘96, ndr) andai a Venezia. Nell’archivio del tribunale, insieme a un magistrato della locale procura e agli investigatori, scoprii che quegli atti erano quasi tutti spariti, distrutti, cancellati. Ne restavano frammenti in uno scantinato. Faldoni aperti, fogli sparpagliati a terra. L’inchiesta di Trento finita così, fatta a pezzi. La denuncia che presentai non ha mai avuto una risposta”. La consapevolezza di Carlo Palermo racchiude una profonda amarezza. “Oggi sarei un bugiardo se dicessi che già allora sapevo tutto. No, non avevo capito molto. Mi ero però imbattuto in alcuni nomi importanti, non solo italiani ma anche stranieri, e avevo intuito che tutto era collegato: dalla droga alle armi, dai servizi deviati al terrorismo e alla politica, dal Libano alla Sicilia, a Trapani, agli americani e ai russi, ai turchi e ai siriani”.
Tracce di un “depistatore”
Ma cosa c’entra con Carlo Palermo l’ex questore del capoluogo siciliano, Arnaldo La Barbera, morto nel 2002, più volte citato nell’inchiesta sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio?. E’ lo stesso autore a spiegarlo. “Di sicuro l’inchiesta di Trento, sin dal suo inizio, nel 1980, apparve frontalmente e formalmente contrastata dalla polizia giudiziaria e dalla magistratura di Venezia; in particolare da un dirigente ben preciso della sua Questura (più esattamente della Questura di Mestre), Arnaldo La Barbera, solo di recente individuato come possibile ‘depistatore’, nelle indagini sulla mafia negli anni Ottanta e Novanta. L’inchiesta si aprì a Trento con i più rilevanti sequestri di stupefacenti dell’epoca (circa duecento chili di eroina pura e di morfina base). Ma l’indagine corse il rischio di rimanere subito bloccata”. Ecco che entra in scena Arnaldo La Barbera che qualche anno dopo sarebbe stato affiliato al Sisde con il nome in codice di “Rutilius”. “Negli atti di sequestro firmati da La Barbera, questi non indicò la fonte che ne aveva consentito il rinvenimento per proteggere la ‘sua incolumità’. Tuttavia gli specifici luoghi in cui la droga era stata recuperata, in bidoni sepolti sotto metri di terra, potevano essere conosciuti solo da chi l’aveva riposta lì”. “Il 31 dicembre 1980 – ricorda l’ex pm – nel mio ufficio di Trento, interrogai lui (Arnaldo La Barbera, ndr) e i suoi agenti. Dopo ammonimenti vari, sia La Barbera sia gli agenti della sua squadra ammisero di aver fatto uscire dal carcere di Venezia, d’accordo con un magistrato, il più importante socio di Karl Kofler (imputato nell’inchiesta di Trento), il turco Arslan Hanifi. Grande gloria per chi aveva condotto l’operazione. Ma la prova contro l’imputato era stata cancellata. Non figurando nomi, lui e i complici sarebbero rimasti fuori da ogni possibile indagine”. Certo è che “l’investigatore ‘speciale’ La Barbera continuerà invece a operare, anche di nascosto, per i nostri servizi (SISDE), tra Venezia e Palermo. Craxi e Martelli governeranno. Poi cadranno”.
Le “XI Tavole”
Carlo Palermo non ha dubbi: è questa la chiave dei collegamenti fra traffici internazionali di armi, terrorismo e massoneria. “XI Tavole”, è così che le chiama l’ex magistrato. Si tratta di appunti, scritti a penna (che risalgono alla fine del 1983 o al massimo ai primi di gennaio del 1984) provenienti dal Comando generale del IV reparto della Guardia di finanza di Roma (da pag. 367), “quel suo supremo organo che opera in contatto con i nostri servizi di sicurezza”. L’ex pm sottolinea che il documento risulta consegnato alla Commissione parlamentare sulla P2, presieduta dall’on. Tina Anselmi, il 23 gennaio 1984, in un periodo in cui la stessa era in contatto con l’avv. Palermo. Carlo Palermo scopre queste “tavole” per la prima volta nel 2015, spulciando tra gli atti della Commissione P2. “E parlano proprio di coloro che cerco adesso, i ‘sopravvissuti di Settembre nero’ e in particolare quelli presenti nella mia vecchia inchiesta di Trento. Non le ho mai viste prima. Eppure quadrano perfettamente con le intercettazioni telefoniche, con i documenti allora sequestrati e anche con… le mie arrabbiature di allora nei confronti della Guardia di finanza”. L’ex giudice Palermo lamenta che a gennaio del 1984 queste indicazioni “avrebbero potuto confermare le mie indagini mentre ero sotto attacco da parte di tutte le istituzioni dello Stato. Nessuno me le ha mai mostrate. In esse si spiega non solo il ruolo dei palestinesi, ma anche l’intreccio di circa duecentosessanta nomi in torbide vicende di armi, di droga, di banche, di affari, di terrorismo dall’ultimo dopoguerra e anche da prima”.
La fonte occulta
“Nella lettera che accompagna questo documento viene scritto che provengono da ‘fonte […] non valutabile’”. La prima pagina delle “XI Tavole” è un organigramma, una sintesi, con quaranta nomi. “Al centro indica i principali personaggi allora presenti nell’inchiesta di Trento (Massimo Pugliese e Giuseppe Santovito, entrambi della P2, ex dei servizi segreti e allora imputati nei traffici di armi nell’inchiesta di Trento). Ai lati, sopra, sotto, a destra e sinistra, sono indicati numerosi altri personaggi di tutto il mondo. Alcuni di questi li conoscevo già all’epoca. Altri li ho incontrati in seguito. Altri ancora li apprendo soltanto adesso, sconosciuti, potenziali indagati, di allora e del futuro, sino a oggi. L’intero documento è dedicato ai traffici internazionali di armi, di droga, dei massimi affari di ogni tempo, del petrolio, dei rifiuti tossici, di omicidi, stragi, terrorismo, strategie della tensione, P2, massoneria, ordine mondiale”. L’ex pm evidenzia che “nella sintesi, a scendere sulla sinistra sono stati scritti nomi di faccendieri arabi e americani, dal Nord al Sud, legati a traffici internazionali di petrolio, armi e droga. Sulla destra viene indicata, in pochi passaggi, la catena dei flussi finanziari della Sicilia, ovvero quella chiave di lettura mai individuata né tantomeno oggetto di organiche indagini da ieri a oggi”. L’autore si addentra in un pericoloso labirinto che contiene centinaia di nomi, di citazioni, di fatti, di date, “di episodi, tra i più eclatanti della storia d’Italia, da quelli stragisti ad altri affaristici, finanziari e politici”. “In tutta la memoria non compare mai il nome del suo verosimile autore: Stefano Giovannone, ovvero il capogruppo dei nostri servizi segreti militari a Beirut dal 1972 al 1981, liquidato dagli stessi servizi perché risultato appartenente, anche lui, alla P2. Nonché, come sin da allora noto, in stretto rapporto con i fondatori di ‘Settembre nero’”.
Le parole di un Gladiatore
“Dottore, per capire l’origine del patto tra lo Stato e la mafia bisogna risalire al dopoguerra e al ruolo svolto da quel vecchio aeroporto…”. E’ il 2016, Carlo Palermo incontra a La Spezia un ex appartenente a Gladio. Che non ha remore a raccontargli quanto di sua conoscenza. “Per quei traffici di armamenti che la interessano, dottore, viene spesso citato un aeroporto di Trapani, quello di nome Chinisia, ma per capire l’origine di quei traffici, non della ‘trattativa’ tra lo Stato e la mafia, ma del ‘patto’ Stato-mafia, bisogna risalire all’altro aeroporto. Quello di Milo”. Il racconto prosegue fitto. “Prima della guerra, la struttura SIM, ovvero il Servizio informazioni militari, si trova, come saprà [in effetti lo ignoro] a San Vito Lo Capo, vicino Trapani, e comprende due aeroporti, quello di Milo e quello di Chinisia. Il primo viene usato per i caccia, il secondo per i ricognitori. Quei campi di volo poi vengono presi dagli americani. L’aeroporto di Milo nacque come importante campo di volo della Regia aeronautica sin dagli anni Trenta e venne utilizzato durante la Seconda guerra mondiale. Poi, dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia nel luglio del 1943, fu usato dall’aviazione USA sino al dopoguerra. Venne abbandonato circa nel 1947, perché gli fu preferito quello di Chinisia. Nel 1961 i voli vennero spostati a Birgi, il nuovo aeroporto nella contrada vicina”. L’ex Gladiatore chiarisce quello che a suo dire è un pensiero errato. “Comunemente si ritiene che l’aeroporto militare di Milo sia stato in uso solo sino al 1947 o al 1949. In realtà non è così. Dopo l’abbandono, Milo rimase un campo d’atterraggio ‘fantasma’, in gestione a famiglie mafiose. Sono state queste, e non altri, a occuparsi dell’uso dell’aeroporto per fini militari. Sin dal 1974, e cioè da quando ho iniziato la mia attività lì”. Con la testa indica la sede del Comsubin (Comando subacquei e incursori “È un reparto della Marina, molto segreto, fa parte delle forze speciali italiane, svolge operazioni anche di guerra non convenzionale in ambiente acquatico e di difesa subacquea, e altro. Io provengo da lì…”). “Si sapeva che era la famiglia Virga a provvedere alla manutenzione dell’aeroporto – prosegue –. Il campo era abbandonato e pieno di erbacce alte così. All’improvviso i Virga lo ripulivano perfettamente e lo rendevano idoneo per l’atterraggio. Erano i loro uomini, persone distinte della zona, e non i militari, a dare accoglienza a quelli che atterravano e che poi prendevano in consegna quanto veniva scaricato lì…”. “Quelli che accoglievano i militari e li mettevano a proprio agio erano civili. Erano operazioni ‘coperte’, nascoste, per carico e scarico di materiali”.
Craxi, Forza Italia e quei 20 miliardi dal Perù
Il Gladiatore gli parla quindi dell’operazione “Lima” che a suo dire “dovrebbe essere consistita nel recupero di circa cinquecentosettanta milioni di dollari e svariati milioni in promissory notes (cambiali internazionali)”. “Craxi – sottolinea – dovrebbe avere ricevuto, in utilità, un totale di venti miliardi di lire. Il grosso però a quanto pare è finito in un’area di Mogadiscio controllata dall’imprenditore e trafficante Giancarlo Marocchino” (l’imprenditore sul quale non sono mai state chiarite alcune ombre relative all’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, ndr). “Ma tutto proveniva dal Perù?” gli chiede Carlo Palermo. “No – replica il Gladiatore – in questi venti miliardi ricomprendo anche i contributi di svariata natura elargiti dal FAI (Fondo aiuti internazionali)”. “E per che cosa vennero utilizzati quei fondi?, lo incalza l’ex pm. La risposta è disarmante: “Vennero utilizzati in particolare per la costituzione della nascitura Forza Italia”. L’ex agente Gladio fa intendere che queste sarebbero le uniche informazioni riferitegli da Vincenzo Li Causi prima che restasse ucciso in un misterioso incidente in Somalia.
Stato-mafia, un patto infinito
Il discorso si chiude così come era iniziato: il “patto” tra Stato e mafia. “All’epoca dell’attentato di Pizzolungo chi comandava era Messina Denaro padre, don Ciccio. Lì c’era […] quel patto che non era soltanto tra alcuni settori del nostro Stato con la mafia, ma era soprattutto tra gli Stati Uniti, Stay-behind e Cosa Nostra”. Carlo Palermo si dice convinto che quel patto “era stato imposto prima ancora dalla massoneria, in quanto supremo potere occulto”. “Sì – prosegue l’ex magistrato – c’era quel mostro intuibile dietro Portella delle Ginestre, dietro il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, dentro i palazzi vaticani contro papa Luciani e contro papa Wojtyla, così come a Valderice contro Ciaccio Montalto, a Palermo contro Chinnici, a Pizzolungo contro di me, all’Addaura contro Falcone, nelle stragi degli anni Novanta, a Civitavecchia, a Palermo, Roma, Firenze e Milano contro chi avrebbe potuto osare di avvicinarsi alla verità”. Un “mostro” che negli anni a venire si sarebbe scagliato contro il pool di Palermo, Nino Di Matteo in primis, per aver osato indagare sul cuore nero del nostro Stato.
Verità e Kintsugi
“Tornerò a Trapani, a Pizzolungo e pure a Erice – conclude Carlo Palermo –. Questa volta non lo farò per partecipare a celebrazioni. Cercherò di finire quel lavoro che lì ho iniziato e che ho dovuto interrompere. Qualcosa, sono sicuro, salterà fuori. Spero la verità”. Una verità scomoda, a tratti sconvolgente, che però può ricostruire ciò che è stato distrutto dalla furia omicida di uno Stato-mafia. Tornano in mente le parole di Margherita Asta, unica sopravvissuta della strage di Pizzolungo. Per ricomporre i pezzi di questo mosaico smembrato, Margherita si affida simbolicamente alla tecnica giapponese chiamata “Kintsugi”. I segni indelebili di una lacerazione che ha marcato a fuoco la nostra storia non devono essere nascosti, devono essere invece accentuati, resi ancora più visibili e valorizzati con un materiale prezioso: la verità.
(fine)
11 Novembre 2018