di Claudia Cernigoi
È stato recentemente pubblicato, per la casa editrice Safarà, un libro sulla figura di Enrico Berlinguer, curato dal ricercatore bisiaco Ivan Buttignon, che si dichiara “di sinistra” nonostante la sua appartenenza alla Lega nazionale di Gorizia e la sua adesione alla manifestazione organizzata da Trieste Pro Patria (associazione che raccoglie la créme de la crème dei vecchi arnesi del neofascismo locale) contro il movimento per il Territorio libero di Trieste. Buttignon è l’autore di “Compagno Duce” pubblicato da Hobby and work nel 2009 (“nel fascismo italiano c’è sempre stata una componente di sinistra”, è la tesi di questo studio); è stato relatore al convegno indetto da CasaPound Brescia “Linea Rossa su Sfondo Nero: Il Fascismo di Sinistra da Sorel a Salò” assieme a Simone Di Stefano, vice responsabile nazionale di CasaPound Italia ed a Mirko Bortolusso del PD veneziano; ed ha pure partecipato ad una conferenza organizzata a Trieste dall’associazione rossobruna Strade d’Europa (collegata alla rivista Eurasia diretta dall’ex ordinovista Claudio Mutti, seguace delle idee di Jean Thiriart ed uno degli ideologi del nazimaoismo italiano, su cui torneremo più avanti), nel corso della quale ha dissertato sul mazzinianesimo come idea primigenia della sinistra in Italia, non marxista né socialista, spiritualista e non materialista, nazionale e non internazionalista, solidale ma non collettivista. Buttignon si è anche richiamato ad una teoria di Massimo Fini (l’industrialismo è una moneta con due facce, da una parte il capitalismo e dall’altra il comunismo) per sostenere che sia il comunismo sia il capitalismo si sviluppano in uno sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Torniamo al libro su Berlinguer, che è una raccolta di brevi saggi sia di personalità come Pietro Folena e Nicola Tranfaglia, indiscutibilmente qualificati ad analizzare vita e pensiero di Berlinguer, sia di altri autori (come l’avvocato Paolo Sardos Albertini, presidente della Lega nazionale di Trieste, il professor Fulvio Salimbeni ed alcuni autori dell’area rossobruna come Andrea Colombo e Miro Renzaglia) dei quali ci sfugge la competenza a dissertare sulla figura dello scomparso segretario del PCI. Il senso di questo lavoro è stato però chiarito nel corso della presentazione svoltasi a Trieste il 20/5/14. Berlinguer, ha spiegato Sardos Albertini, era nato come comunista convinto, ma nel corso degli anni si è reso conto del fallimento dell’idea comunista e per crearsi un “alibi” dato che non poteva dichiarare “la morte del comunismo” ha inventato la “questione morale”, ritornando in tal modo alle vecchie tesi del Partito d’azione. Uno studio che sembra finalizzato dunque a stravolgere l’essenza stessa del PCI, cancellando dalla sua storia ideologica le idee comuniste (ed anche quelle eurocomuniste di Berlinguer) per attribuire al partito una falsa identità mazziniana. Perché mazziniani erano gli azionisti, antifascisti ma anche anticomunisti, quel settore che da un decennio in qua vediamo rivalutato a Trieste come l’unica componente valida della Resistenza dal professor Stelio Spadaro e dal suo sodale Fabio Forti, al quale Spadaro ribadisce la propria gratitudine per avergli fatto conoscere “l’esistenza di quel patriottismo liberale mazziniano” la cui memoria era sparita dalla cultura storica locale.
È interessante la figura di Spadaro, che rivendica di avere partecipato alle manifestazioni nazionaliste per Trieste italiana al tempo del GMA; iscritto al PCI dal 1960, fu l’artefice del pellegrinaggio di esponenti del PCI alla foiba di Basovizza nell’agosto del 1989 (dove lui peraltro non era presente); in seguito divenne segretario dei DS ed avviò, nei primi anni ’90, una collaborazione con l’ex segretario del Fronte della Gioventù Roberto Menia, poi deputato di Alleanza nazionale, collaborazione che costituì una sorta di apripista per il convegno “pacificatore” tra Fini e Violante (che forse non a caso si svolse proprio a Trieste nel 1998). Spadaro (che oggi è nel PD) ha più volte ribadito il suo pensiero democratico seguace di ideali “mazziniani”: ideali che, pur del tutto degni di rispetto non hanno alcunché a che vedere con il pensiero comunista, neanche con quello del PCI in cui Spadaro ha militato per 30 anni fino al suo scioglimento. Dato che nel 1960, quando Spadaro si iscrisse al Partito comunista, in Italia esisteva anche un Partito repubblicano a disposizione di chi professava ideali mazziniani, viene spontaneo domandarsi perché Spadaro scelse invece di entrare nel PCI.
Spadaro afferma che negli anni passati hanno operato a Trieste “due entità nazionaliste” (quella italiana di matrice di destra e quella slovena di matrice di sinistra) che hanno cercato di cancellare l’esistenza della “resistenza urbana” compiuta dal CLN triestino, come quella portata avanti dall’esponente di Giustizia e libertà Vasco Guardiani (il cui nome si trova tra i 622 “gladiatori” italiani, in buona compagnia con gli altri dirigenti del CVL locale, Ernesto Carra, Giuliano Dell’Antonio ed Antonino Cella); ed aggiunge Spadaro che in questo contesto viene tacciato di “revisionismo” chi decide di far emergere la realtà storica rompendo questi “accordi taciti” tra le due ideologie, che avevano lo stesso obiettivo: cancellare questa storia.
Fabio Forti, da parte sua, tiene a ribadire nei suoi interventi che nel 2000 fu l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi a dire “loro” che “dopo essere scomparsi per 55 anni ha voluto che tornassimo alla luce per scrivere la storia mancante al confine orientale d’Italia”; ma che ha anche, alcune volte, fatto un’affermazione piuttosto inquietante, e cioè, dopo avere asserito che il loro CLN è stato l’unico in Italia che rimase in clandestinità fino al 1954, ha aggiunto: anzi “nel nostro spirito siamo ancora oggi in clandestinità”. Come le Brigate rosse o i Nar? Mah!
Dunque un progetto di riscrittura della storia della Resistenza al confine orientale, per cancellare la parte avuta dai comunisti internazionalisti (italiani e sloveni), che nonostante siano stati quasi gli unici ad opporsi organizzati ed in armi contro il nazifascismo vengono considerati alla stregua di traditori della Patria; mentre nel contempo viene valorizzata solo l’attività politica di quel CLN giuliano che era stato sconfessato dal CLNAI di Milano in quanto i suoi esponenti si erano rifiutati di collaborare con l’Osvobodilna Fronta (il Fronte di liberazione jugoslavo, che comprendeva anche partigiani italiani) e con il Partito comunista locale. E dove d’altra parte l’attività stessa del CLN giuliano (come si legge nei loro stessi documenti) era sorta più per porre un freno all’avanzata jugoslava che non per la lotta contro il nazifascismo.
A fianco di questa riscrittura della storia troviamo anche delle proposte operative di politica per il confine orientale: si è svolto il 3 giugno scorso a Trieste un incontro tra Spadaro, Menia ed un insegnante croato di lingua italiana, il professor Gaetano Benčić di Buie d’Istria, nel corso del quale è stata teorizzata la necessità di agire in modo da mantenere viva l’italianità di Istria, Fiume e Dalmazia, rivendicando il diritto ad un “sentimento nazionale genuino, nel senso mazziniano del termine” (Benčić); mentre Menia, che pensa “a come riportare l’italianità in quelle terre” anche “mandando in Istria insegnanti italiani come faceva a suo tempo la Lega nazionale”, si è richiamato al “Fascio mazziniano” per ribadire che “l’italianità di queste terre è stata una scelta più che non una questione etnica”.
Al di là degli ideali patriottici, mazziniani o no, in realtà il senso dell’incontro è stato molto pragmatico, visto che Benčić ha sostenuto che è necessario favorire il “ritorno degli italiani dalla Venezia Giulia all’Istria”, anche “con il possesso di una casa” in modo da avere un contatto “costante anche se non permanente che porti nuova linfa per l’italianità”; ma ha valutato anche necessaria “una politica economica che favorisca lo sviluppo dell’imprenditorialità italiana in Istria”, con imprenditori “che abbiano senso di responsabilità sul territorio” e che facciano investimenti non solo per fare soldi ma anche per aiutare “i fratelli italiani in Istria”.
Menia si è inserito dicendo che se “la porta orientale è la più bella del continente”, perché lasciarla colonizzare ai tedeschi, ed ha sostenuto che va lanciata l’imprenditoria oltre confine, sviluppandola con fondi governativi: e l’imprenditore italiano che andrà ad investire in Istria assumerà solo italiani, facendo così vivere la comunità.
Come questo possa conciliarsi con le normative comunitarie non ci è chiaro, ma sembra invece piuttosto chiaro che quello che viene spacciato per un intervento patriottico per i nostri connazionali d’oltre confine è in realtà semplicemente l’ennesimo progetto di delocalizzazione, in questo caso con il benestare ed il sostegno del governo, che dovrebbe finanziare imprenditori italiani per chiudere l’attività in patria, creando nuovi disoccupati, per andare ad investire all’estero, dove la manodopera è sicuramente meno cara.
Dopo questa parentesi economica, torniamo agli ideali mazziniani, che tanto stanno tornando in auge negli ultimi anni, come abbiamo visto. Mazziniano il patriottismo al confine orientale, riscoperta della filosofia mazziniana in conferenze gestite dalla destra comunitarista, mazziniana (azionista) la costruenda nuova formazione della sinistra italiana? Stiamo parlando di quella promossa dai seguaci di Barbara Spinelli che non a caso è figlia dell’azionista Altiero Spinelli, colui che firmò assieme agli altri azionisti confinati assieme a lui, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, il famoso “Manifesto di Ventotene”, considerato il testo fondante dell’Unione europea così come realizzata nel dopoguerra.
Tale Manifesto prevedeva anche il superamento del concetto di partito come visto fino allora per giungere alla costituzione di un partito sovrannazionale.
Se leggiamo ciò che scrive Wikipedia: “la sua (di Mazzini, n.d.r.) influenza sulla prima fase del movimento operaio fu per questo molto importante ed anche il fascismo, in particolare la sua corrente repubblicana e socializzatrice, si ispirerà al pensiero economico mazziniano come Terza Via tra il modello capitalista e quello marxista”: si comprende come tale teoria possa andare bene ai seguaci del comunitarismo di Jean Thiriart (l’ex SS belga che teorizzò il “comunitarismo come superamento del fascismo uscito sconfitto dal conflitto mondiale”, dando vita al movimento della Jeune Europe per “una grande patria comune, una Europa unitaria, potente, comunitarista”, alle cui idee si rifà Mutti con la sua Eurasia) ed alle organizzazioni rossobrune di oggidì (Strade d’Europa una per tutte), ma non possiamo fare a meno di ricordare anche che nel 1946, come scrive lo storico Giuseppe Parlato, la rivista Rivolta ideale (fondata da un ex giornalista del Piccolo di Trieste, Giovanni Tonelli – il primo parlamentare eletto dall’MSI a Roma –, vi collaborarono gli esoterici Julius Evola ed i suoi seguaci Pino Rauti ed Enzo Erra: uscì tra il 1946 ed il 1959) “sviluppò immediatamente tematiche di sinistra, repubblicane e mazziniane, apertamente filo socialiste, individuando in una sinistra nazionale la collocazione del neofascismo unitariamente inteso”.
Consideriamo che viviamo un contesto di ambiguità e nebbia politica (che non considera più né le divisioni tra destra e sinistra né la necessità della discriminante antifascista) ed è in questo contesto che possono trovare spazio i movimenti nazimaoisti o comunitaristi, che possono celarsi sotto varie forme, dalle prese di posizione nazionaliste contro l’imperialismo statunitense alle teorizzazioni economiche sul signoraggio e sull’uscita dall’Euro; dalla denuncia dei centri di potere economico come la Trilateral ed il Bilderberg alla rivalutazione del mazzinianesimo come unica forma di sinistra realmente valida.
Apparentemente questi raggruppamenti e questi esponenti politici si presentano come condivisibili da chi, stanco della deriva dei tradizionali partiti della sinistra comunista, cerca una nuova sponda politica.
Però c’è una cartina di tornasole che rivela il rossobruno e lo smaschera: quando incontrerete persone che si dicono “di sinistra” ma che parlando di Resistenza al confine orientale, soprattutto quella jugoslava, riproporranno la propaganda menzognera sui presunti crimini dei partigiani jugoslavi (le foibe, dove i primi a diffondere notizie esagerate sulle esecuzioni sommarie avvenute in Istria dopo l’armistizio dell’8/9/43, subito dopo i nazifascisti, furono i contatti del Partito d’azione con i servizi del Regno del Sud e britannici, come l’azionista Giuliano Gaeta che in un documento del 2/7/44 scrisse: “si dice che solo per Trieste gli slavi preparerebbero delle liste contenenti i nominativi di ben 16.000 giustiziandi, il che equivarrebbe a un tentativo di indiscriminata eliminazione degli italiani”: ciò per creare uno stato di tensione contro l’alleato jugoslavo) e che parleranno della Jugoslavia di Tito in quei termini di condanna e disprezzo che furono tipici della caccia alle streghe staliniana, allora diffidate, perché quello che avete davanti con tutta probabilità non è un “compagno”, ma qualcosa d’altro dal quale è meglio stare alla larga.
giugno 2014