A colloquio con l’economista Andrea Ventura, curatore, insieme con la collega Anna Pettini, della raccolta di saggi Quale crescita. La teoria economica alla prova della crisi.
Sono molti gli elementi che chiamano pertanto a una riflessione su quale crescita debba essere cercata, superando l’idea che non sia necessario qualificarla e che i danni da essa provocati – quando non è pensata in modo armonico con il sistema in cui si inserisce – siano inevitabili e da affrontare separatamente.
Per orientarci in questo complesso scenario Cronache Laiche ha rivolto alcune domande ad Andrea Ventura, ricercatore presso la facoltà di Scienze politiche “Cesare Alfieri” dell’Università degli Studi di Firenze, curatore con la collega Anna Pettini, della raccolta di saggi Quale crescita. La teoria economica alla prova della crisi (L’Asino d’oro edizioni, 2014). Un volume che, con un linguaggio chiaro, concreto ed efficace, intreccia questioni centrali per il dibattito teorico – come la natura dei bisogni e la loro distinzione dalle esigenze, il tempo libero, la moneta, il ruolo degli economisti – con i temi dello sviluppo storico e dell’impegno politico. E che, sin dalla composizione dei saggi proposti, fa emergere la possibilità e l’assoluta necessità di superare le barriere della specializzazione disciplinare per impostare una ricerca “condivisa” con diversi ambiti della conoscenza focalizzata su problematiche del tutto nuove nella storia dell’uomo.
“Quale crescita”, spiega Ventura nasce in seguito a un incontro organizzato con Anna Pettini il 12 aprile 2014 all’Università di Firenze: «Il nostro proposito era quello di far dialogare economisti di diversa specializzazione disciplinare attorno ad un tema comune, prendendo come spunto il noto saggio di Keynes, Possibilità economiche per i nostri nipoti. In questo lavoro del 1930 – di cui si continua a distanza di tempo discutere – Keynes prospetta la possibilità di un superamento della centralità del problema economico a seguito del fatto che il grande progresso della produttività umana avrebbe reso accessibili a tutti, con un limitato dispendio di lavoro, i beni necessari alla sussistenza. Al contrario di quello che pensava Keynes, oggi, nonostante le condizioni di base per il superamento della lotta per la sussistenza almeno in Occidente si siano realizzate, paradossalmente l’economia occupa una posizione ancora più importante di allora. Volevamo suscitare una discussione sul perché di questo fenomeno».
Paradossalmente se da un lato Keynes prospettava la possibilità di un superamento della crescita quantitativa, dall’altro, anche su base keynesiana, proprio l’obiettivo della crescita è diventato sempre di più centrale nei nostri sistemi economici. Quale tipo di legame oggi è possibile stabilire tra l’aumento del Pil e il livello di benessere di una popolazione?
Anzitutto possiamo affermare che il pensiero di Keynes è più complesso di come viene comunemente presentato. Ne discute, per il legame profondo che egli ha con la storia e la politica, il saggio di Claudio Gnesutta. Per restare alla domanda, senz’altro la crescita quantitativa che si è registrata nei paesi avanzati si è associata a un miglioramento oggettivo del benessere fisico di fasce crescenti di popolazione. Questo risultato è stato possibile anche grazie al fatto che le forze del movimento operaio – oggi sotto scacco – per un certo periodo sono riuscite a orientare la spinta alla massimizzazione del profitto capitalistico verso obiettivi socialmente validi. Il cosiddetto “compromesso socialdemocratico”, che ha caratterizzato il nostro modello di sviluppo fino agli anni settanta del secolo scorso, è stato questo. La questione è che, come sostenuto da Giorgio Fuà ormai più di vent’anni fa, il Pil ha perso progressivamente di significato: non solo perché è un indice aggregato che fa riferimento ai beni che passano tramite il mercato e che, come osservò Bob Kennedy in un celebre discorso del 1968, “misura tutto fuorché ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”, ma anche perché non considera come perdite gli aspetti negativi provocati dall’aumento della produzione (il consumo di risorse naturali, il degrado ambientale) né valuta come questo Pil è distribuito tra la popolazione. Oggi poi siamo all’assurdo dell’inserimento nel Pil della stima di alcune attività illegali come traffico di droga, prostituzione e contrabbando. Guido Rossi, in un bell’articolo sul Sole 24 ore dell’8 giugno scorso, osserva che in questo modo l’economia rischia di passare da “scienza triste” a “scienza turpe”. Il caso del Pil, peraltro, è solo un aspetto di un problema più generale connesso al fatto che le politiche pubbliche troppo spesso si basano su indicatori privi di rapporto con le condizioni effettive di benessere delle persone o il reale stato dell’economia. Rimane il fatto che da un lato la crescita è ormai scissa dal benessere, dall’altro il blocco della crescita a cui oggi assistiamo determina quei fenomeni di gravissima crisi che stiamo subendo. È un dilemma difficile da risolvere. Da qui il titolo del volume: Quale crescita. A nostro avviso questa domanda dovrebbe essere preliminare alla formulazione delle politiche necessarie ad uscire dalla crisi.
Nelle società più efficienti e ordinate del Nord Europa si registra anche un alto tasso di suicidi e di consumo di psicofarmaci. Nel saggio d’apertura del vostro libro, Bartolini demolisce il mito americano e sconfessa l’equazione “ricchezza=felicità”. Scrive anche Stefano Bartolini in Quale crescita: ” Mente gli Usa si andavano trasformando nel paradiso dell’opulenza consumistica, l’americano medio si sentiva sempre peggio”. Peraltro, la middle class americana è quella che più di tutte ha subito la crisi dei subprime. Parafrasando il titolo del vostro libro, si può dire che riguardo il perseguimento di un benessere diffuso la teoria economica “dominante” non ha superato la prova della crisi?
Senz’altro. Il nostro volume riporta nell’esergo una citazione del fisico teorico Carlo Rovelli: “I grandi passi avanti nella scienza non sono dovuti alla scoperta di soluzioni nuove a problemi ben posti. Sono dovuti alla scoperta che il problema era mal posto”. Nella teoria economica dominante il problema economico mal posto fin dalla definizione che viene data della parola “economia”, che con Lionel Robbins è identificata con il problema della scelta. Gli uomini, in effetti, a differenza degli animali hanno la capacità di effettuare delle scelte, quindi hanno un ampio margine di libertà nella determinazione dei loro comportamenti. Il problema è che, alla base della teoria economica dominante, vi è l’idea che l’economia sarebbe il terreno su cui si gioca la libertà umana. Cercare la propria libertà, quindi il benessere e la propria realizzazione, sul piano delle scelte economiche, conduce a quello che mette in evidenza il saggio di Bartolini. La teoria economica, pertanto, non ha superato la prova della crisi sia per il fatto evidente che il liberismo e l’idea dell’autoregolamentazione dei mercati è stata una componente fondamentale della crisi, sia per motivi molto più profondi che investono appunto l’antropologia che fonda la teoria stessa. La complessità e le difficoltà che abbiamo nella fase attuale, a mio modo di vedere, non possono essere ridotte all’adozione di riferimenti teorici errati per le politiche economiche: va posto in questione il modo in cui concepiamo il “problema economico”.
Può fare degli esempi?
Pensiamo ad esempio alla questione dell’iniquità nella distribuzione del reddito e delle ricchezze, di cui si discute sempre di più, e che sotto molti profili è anche alla base delle dinamiche della crisi. Finché l’economia è considerata il terreno della libertà, la libertà dell’uno finisce dove inizia quella dell’altro. Dunque una redistribuzione della ricchezza in senso più equo è concepita, appunto, come aumento della libertà di qualcuno (il povero) a svantaggio di quella di qualcun altro. In realtà l’iniqua distribuzione delle ricchezze che oggi osserviamo genera due povertà: quella di chi ha ricchezze sproporzionate, e che, finalizzando la propria esistenza al loro accrescimento vive una condizione di miseria sul piano della qualità dei rapporti interpersonali, e la povertà di chi soffre di privazioni materiali. Non è ovviamente la ricchezza in quanto tale che rende infelici: lo è una vita orientata al perseguimento del benessere economico. Un discorso analogo può essere fatto per i beni comuni, o per l’ambiente, il cui rispetto richiede una dimensione di socialità che consenta a ciascuno di riconoscere come proprio anche ciò che materialmente non possiede.
Dunque è in questione il modello di Homo oeconomicus su cui ha puntato l’Occidente, un’idea di essere umano centrato su una razionalità strumentale, volta all’utile e al guadagno, un’idea di uomo in fondo povero di umanità e di relazioni? Che cosa ha prodotto questo tipo di pensiero?
L’obiettivo della crescita del Pil cui accennavamo sopra ha un nesso con un tratto fondamentale dell’Homo oeconomicus, l’assioma della cosiddetta “non sazietà”. Il tema è affrontato nel saggio di Anna Pettini. In sostanza, mentre la teoria economica considera la “non sazietà”, cioè la tendenza a perseguire la crescita della disponibilità di beni materiali, un tratto fondamentale della natura umana, in psicologia e in psichiatria quel comportamento è considerato patologico. Forse non si riflette abbastanza su cosa significa orientare i nostri sistemi economici e sociali in funzione di un’antropologia costruita non su ciò che fa star bene le persone, ma su vere e proprie patologie mentali! Va ricordato infatti che le scienze sociali, a differenza delle scienze della natura, contribuiscono a modellare la realtà in modo conforme alla teoria scientifica stessa. In questo senso si parla per esse di “costruttivismo”. La teoria economica dominante perciò va criticata sia nei suoi aspetti tecnici, sia sul piano culturale. Essa, infatti, è veicolo per la diffusione dell’idea che comportamenti finalizzati all’utile economico possano costituire la via maestra per realizzare il benessere individuale e, tramite la mano invisibile del mercato, collettivo. La crisi, a mio avviso, non è solo una crisi economica che può essere superata riavviando la crescita, ma è una vera e propria crisi di civiltà, che investe più terreni e più aspetti dei nostri sistemi sociali.
Si può affermare che alla radice della crisi vi è una questione antropologica?
Sì, è in crisi un’antropologia assai radicata che andrebbe dunque criticata a fondo. Che il capitalismo stia mostrando i suoi lati più distruttivi è un fatto evidente, ma è del tutto illusorio pensare di poter limitare i disastri che genera senza chiedersi quali strutture culturali lo sostengono. Il capitalismo, infatti, non è tanto legato al “mercato”, meccanismo da sempre presente nella storia, né all’attività d’impresa, che può assumere forme diverse. Alla sua base vi è una “logica”, una modalità di rapporto sociale, un fine unico: il principio di “non sazietà” di cui si diceva sopra. Il fine del capitale, infatti, è la sua crescita al tasso più alto possibile. Al servizio di questo principio si è formata una classe dirigente costituita, oltre che dai capitalisti in senso proprio, da tecnici, amministratori, intellettuali, politici che, servendo quella logica e anche assorbendola nei propri obiettivi di vita, ha accumulato e continua ad accumulare ricchezza e potere e di esse si serve per riprodurre, anche tramite il controllo dei mezzi d’informazione, un sistema a essi congeniale. La teoria economica, per come si è costituita negli ultimi trent’anni, ha un ruolo centrale in tutto questo. Ma è chiaro che un’economia organizzata su queste basi non può essere altro che distruttiva: distruttiva dell’ambiente, delle relazioni sociali, della democrazia, delle fondamenta stesse della nostra civiltà. Il “capitale”, in sostanza, va analizzato non solo sul piano economico o tecnologico: esso esprime in massimo grado quell’antropologia malata e purtroppo molto radicata rappresentata dal modello dell’Homo oeconomicus.
La “grande crisi” può essere un’opportunità per ridiscutere a fondo dei nostri sistemi sociali? Su quali basi?
Marx affermava che le crisi capitalistiche nascono dalla “struttura” economica e mettono in discussione la “sovrastruttura”. Egli pensava che dalle crisi potesse nascere una società nuova. Purtroppo la storia mostra che le crisi economiche hanno solo prodotto catastrofi, e quella attuale, al momento, non sembra avviarsi verso un esito molto diverso: per i motivi detti sopra, infatti, le politiche che sono state attuate per risolverla sono state pensate all’interno dalla stessa struttura di pensiero che l’ha generata. Dunque è anche ovvio che non s’intraveda alcuna via d’uscita e che “la ripresa” sia solo un miraggio che si sposta in avanti, da un anno all’altro, generando povertà e sofferenza sociale. Come gruppo di ricercatori ci sembra urgente scavare nelle dinamiche della crisi per proporre invece un discorso diverso da quello dominante, anzitutto sul piano culturale. L’assurdo di invocare la crescita ponendo in atto, come ormai è evidente, politiche che impediscono che essa abbia luogo, deve essere contestato fin dall’idea che la crescita senza altra qualificazione sia un bene di per sé. È finito il tempo in cui, come si è detto prima, la crescita poteva costituirsi come collante sociale condiviso all’interno del quale migliorare il benessere di tutti e al contempo soddisfare la logica dell’accumulazione capitalistica. Spingere su questo terreno – che corrisponde a una fase dello sviluppo umano dove era centrale la soddisfazione dei bisogni – non porta a nulla. Oggi, almeno in Occidente, dobbiamo avere chiaro che il terreno su cui si giocano benessere e progresso sociale non può essere questo. È necessario pensare anche alle esigenze.
Possiamo approfondire questo passaggio relativo a bisogni/esigenze? In particolare, critiche all’arricchimento fine a se stesso vengono anche da parte cattolica. In che modo invece questa distinzione si caratterizza?
La distinzione tra bisogni ed esigenze è stata proposta dallo psichiatra Massimo Fagioli e fa capo alla sua “teoria della nascita”. Il discorso è assai complesso. Come economista, semplificando, trovo fondamentale la possibilità che essa offre di definire il problema economico in modo diverso da com’è proposto nell’ambito della teoria dominante. In particolare il terreno su cui si realizzano le esigenze viene distinto da quello della soddisfazione dei bisogni. Se per i bisogni, infatti, in una certa misura, possono valere i criteri di razionalità, le esigenze fanno invece capo a una sfera che non è legata né alla logica razionale, né alla religione, dove la vera realizzazione si avrebbe nella comunanza con Dio, .dopo la morte! La teoria della nascita, in sostanza, mette definitivamente in chiaro che il modello di comportamento razionale e massimizzante dell’uomo economico non è attinente né al piano dei bisogni, dove non vale la logica massimizzante, né a quello delle esigenze, dove non vale la logica del comportamento razionale. La realizzazione delle esigenze invece va cercata nella socialità, sia nei suoi aspetti culturali, sia in quelli legati alla qualità dei rapporti interpersonali. Più a fondo, un diverso modo di vivere la socialità deve partire dal rifiuto dell’idea che l’identità di ciascuno si costituisca per “identificazione” con chi è uguale, per affermare invece la centralità del rapporto con il “diverso” da sé. Il diverso, poi, come chiarisce la teoria della nascita, non è il nero, il giallo, quello di religione o lingua diversa, o l’omosessuale: il vero diverso è la donna per l’uomo e l’uomo per la donna, per i quali al contempo si riconosce l’uguaglianza nella dinamica, appunto, della formazione del pensiero alla nascita. Le altre sono tutte diversità molto relative. Nonostante alcuni a sinistra continuino a pensare che sia possibile un’alleanza col cattolicesimo, che questo costituisca un gravissimo errore dovrebbe essere evidente anche solo dal fatto che in quel contesto (come anche nel razionalismo) questa diversità è declinata in termini di superiore/inferiore. E se c’è inferiore e superiore, c’è dominio, controllo, sfruttamento, non realizzazione di rapporto. Nell’attuale panorama culturale la teoria della nascita di Massimi Fagioli costituisce una novità assoluta, e questo è solo uno dei campi in cui può essere sviluppata: penso che per ricondurre l’economia all’uomo sia necessario un cambiamento culturale che abbia al centro il piano della realizzazione delle esigenze in tutta la sua complessità. Detto in altri termini, è possibile ricondurre l’economia al sistema dei bisogni solo se si scopre quale è il piano su cui si realizzano le esigenze.
Questo discorso sembra superare la centralità dello scontro tra classi sociali e interessi economici.
La difesa degli interessi materiali rimane centrale quando il sistema dei bisogni è messo a repentaglio, come nella fase attuale. A questo piano deve però essere affiancato un discorso teorico più profondo che indichi la possibilità per la realizzazione umana di tutti, ricchi e poveri che siano. Questo comunque rimane un discorso che può essere portato avanti solo da sinistra: è infatti la sinistra che si caratterizza per l’aspirazione al progresso, al benessere e alla liberazione umana, non la destra (anche quella camuffata per “sinistra”) che, nonostante parli di riforme, cambiamento, innovazione, di fatto sta operando per la distruzione delle conquiste sociali del novecento. La teoria della nascita si può dunque costituire come denominatore comune per battaglie su temi tradizionalmente cari alla sinistra: dalla parità uomo/donna ai diritti civili, dalla lotta contro ogni forma di razzismo e di discriminazione alla difesa della centralità della ricerca e della cultura, fino appunto a una diversa concezione dell’economia.
C’è chi sostiene che la teoria della decrescita felice sostenuta da Latouche sia una via? È d’accordo? L’Austerity non rischia di essere un rimedio peggiore del danno?
Penso che si debba abbandonare del tutto l’idea che un indicatore unico possa avere un qualche significato. Più che per la decrescita sarei dunque per una “a-crescita”. Questo però non ha nulla a che vedere con l’austerità, che invece è solo l’esito di un sistema economico ormai bloccato e di un’Europa mal costruita. Le politiche di austerità, come ho accennato, sono il risultato di pensatissime contradizioni nel pensiero che sostiene le politiche pubbliche poste in atto a seguito della crisi: in sostanza si vorrebbe ancora la crescita ma si mettono in atto politiche che, di fatto, impediscono che essa abbia luogo.
In che senso?
Se si volesse veramente la crescita, si dovrebbero sostenere i salari e gli stipendi, le spese sociali, l’istruzione, la ricerca, la riconversione ecologica dell’economia. Ciò potrebbe esser fatto anche assai semplicemente finanziando con l’emissione di moneta parte della spesa pubblica. Invece nulla che sia all’altezza della gravità dei problemi è all’orizzonte: è la costituzione monetaria dell’Europa che lo impedisce, che dunque è strutturalmente recessiva. Si dovrebbe costruire un’Europa su basi opposte a quelle che abbiamo avuto finora, un’Europa della solidarietà sociale e non dei mercati e della finanza. Mettere in atto politiche di austerità, che poi pagano i ceti meno abbienti, quelli cioè per i quali la crescita dei redditi avrebbe ancora molta importanza, porta non solo verso l’aggravarsi degli aspetti economici e finanziari della crisi, ma mette anche a repentaglio la stabilità sociale e l’intera costituzione europea.
In sostanza, secondo la sua analisi l’uscita dalla crisi è ancora lontana. Come può essere considerata la fase attuale? C’è un progetto politico di distruzione dei nostri sistemi sociali, oppure siamo nelle mani di classi dirigenti incapaci?
È difficile stabilire quanto siamo di fronte ad un lucido progetto di demolizione delle conquiste del dopoguerra, e quanto invece sia la logica interna del sistema a produrre gli esiti che stiamo osservando, quasi che le politiche e le istituzioni costruite negli ultimi trent’anni su base liberista avessero messo su una macchina distruttiva che nessuno è più in grado di fermare. Peraltro, per le premesse da cui muove la teoria economica dominante, le due tesi possono ben essere considerate complementari. Comunque si voglia sciogliere questo dilemma, un’efficace definizione della fase attuale è stata proposta dall’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti e purtroppo lasciata cadere sia da lui che a sinistra, mentre andrebbe ripresa e rilanciata: fascismo finanziario. Se rileggiamo, ad esempio, il bel libro di Angelo Tasca, Nascita e avvento del fascismo (Pgreco ed., 2012), troviamo una viva descrizione di quello che fu l’obiettivo del fascismo tra il 1921 e il 1922: la distruzione delle conquiste del socialismo municipale, che aveva costruito una solida rete di protezione sociale e condizionato radicalmente il funzionamento del mercato del lavoro; dai contratti collettivi agli uffici sindacali di collocamento, le classi subalterne, infatti, avevano imposto una serie di vincoli e di rigidità grazie alle quali erano in una posizione di forza nel determinare le condizioni di offerta la manodopera. Dunque non vi era, se non in parte, un “libero mercato” del lavoro. Le bande fasciste, in particolare il fascismo agrario, distruggevano municipi, case del popolo, cooperative, sedi sindacali, organi d’informazione, picchiavano, umiliavano e uccidevano sindaci e sindacalisti e ristabilivano, appunto, il potere degli agrari di dettare le condizioni d’impiego della forza lavoro.
E oggi?
Oggi il modello sociale europeo, costituisce il risultato di decenni di evoluzione democratica e di lotte dei ceti più disagiati: esso fornisce una rete di protezione dal ricatto del mercato del lavoro e dalle incertezze connesse al fatto che, come si è detto, l’economia capitalistica ha come unico fine la massimizzazione del profitto e dunque non s’interessa del benessere effettivo delle persone. La devastazione subita dalla Grecia, dove per ottenere un risparmio di 10-15 miliardi di euro nelle spese sociali (quando per salvare il sistema finanziario in Europa ne sono stati mobilitati 2.700) si è generato un aumento della mortalità infantile del 42%, oltre ad un aumento dei suicidi, dei casi di Hiv-Aids e così via, può ben essere paragonata alle aggressioni fasciste di quegli anni. E il caso della Grecia, come il fumo delle case del popolo incendiate dalle squadracce, sta lì a indicare il destino che attende coloro che non si piegano ai diktat di questa nuova forma di controllo sociale, mentre l’impotenza dei socialisti europei nel difendere conquiste che dovrebbero far parte del loro patrimonio storico e culturale ricorda in modo preoccupante l’impotenza dei socialisti e dei comunisti dei primi anni venti di fronte all’avanzata del fascismo.