A Daniela Danna non piace proprio il termine “maternità surrogata” che le appare una falsificazione e poco sopporta “utero in affitto”, perché non esiste un utero autonomo dotato di vita propria. Lei preferisce chiamare questa pratica “maternità per altri”, perché spiega:
“Madre surrogata è come se una donna che porta avanti per nove mesi una gravidanza e poi affronta un parto mettendo al mondo un bambino non fosse una vera madre. Utero in affitto è un termine ancora peggiore perché se c’è un utero c’è una donna ed è assurdo considerare un pezzo del suo corpo separato da tutto il resto”.
Daniela Danna è ricercatrice in sociologia, presso la facoltà di Scienze Politiche di Milano dove si occupa principalmente di questioni legate alla globalizzazione. Il suo ultimo lavoro pubblicato solo in lingua inglese si intitola “Contract children” e, tra i tanti temi legati all’istituto della famiglia, affronta anche questo che in Italia viene comunemente definito come maternità surrogata, ripercorrendone la storia cominciata da una quarantina di anni.
Come è nato questo suo interesse?
“Ho cominciato a osservare e studiare la maternità delle lesbiche, accorgendomi che coppie lesbiche o anche lesbiche sole, negli anni novanta, mettevano al mondo bambini ricorrendo allo sperma maschile in una forma di auto-organizzazione semi spontanea. Poi arrivò all’attenzione dei media l’argomento delle unioni tra omosessuali che portava con sé quello delle adozioni da parte di coppie gay. A me parve un grave errore mettere sullo stesso piano donne omosessuali e uomini omosessuali per quel che riguardava la questione dei figli. Il mio libro su questo tema è del 1994. Da allora ho continuato a interessarmene”.
Per arrivare a quali conclusioni?
“La mia opinione è che non si possa stipulare un contratto vincolante per avere un bambino tra una giovane donna e un singolo o una coppia eterosessuale, (e sono la maggioranza), oppure una coppia omosessuale, maschile o femminile che sia (e sono una sparuta minoranza). Se si chiede a una donna di portare a termine una gravidanza fino ad arrivare al parto, non si può considerare come proprietà indiscussa il bambino che nascerà. L’ultima parola, secondo me, deve toccare a chi lo ha partorito il bambino. Anche nel caso in cui la così detta “madre surrogata” si fosse fatta impiantare l’ovulo della donna richiedente fecondato dal seme del suo compagno. Se colei che lo ha tenuto in grembo e poi partorito volesse tenersi il bambino occorrerebbe lasciarglielo. E’ per questo che io chiamo questo atto “maternità per altri”. Presuppone individui maturi da una parte e dall’altra, disposti a correre il rischio di cambiare idea”.
Niente avvocati di mezzo, niente cliniche specializzate, niente scambio di denaro, quindi…
“No. La “maternità per altri” nasce da uno scambio libero tra donne libere, fermo restando che, per me, conta di più la volontà della donna che ha partorito il bambino di quella che ha fornito il materiale genetico perché nove mesi di gravidanza sono sufficienti a stabilita una relazione autentica tra persone. Del resto per la legge il figlio è della madre che lo partorisce”.
Nel mondo, però, grazie a queste nuove tecniche mediche, si sta sviluppando il commercio di bambini su ordinazione.
“Vero, ma sono ancora pochi i paesi che hanno legalizzato la maternità surrogata. Alcuni stati dell’America del nord, il Tabasco in Messico, la Grecia, il Sud Africa, Israele, la Gran Bretagna. Almeno così mi pare di ricordare. In Olanda, per esempio, c’è una pratica che si avvicina alla mia idea di “maternità per altri”. Donne al di sotto dei 40 anni che non riescono a portare avanti una gravidanza possono chiedere il sostegno di una donna disposta a farlo in loro vece sotto il controllo di un ospedale”.
I maschi omosessuali, quindi, sarebbero esclusi dalla “maternità per altri”?
“Il maschio per sua natura non può avere una gravidanza. Il suo è un apporto genetico: niente di più. E io tra l’apporto genetico e quello relazionale do più importanza al secondo. Del resto, in un certo senso il maschio è sempre escluso dalla nascita di un figlio. Se è il marito gli viene automaticamente attribuita la paternità, ma a meno che non ricorra all’esame del Dna, non può averne alcuna certezza. Le coppie di maschi omosessuali potrebbero adottare uno o più bambini, oppure crescere il figlio o i figli che uno dei partner potrebbe aver avuto da un precedente legame con una donna. Non credo sia opportuno andare oltre. E’ una falsa parità quella che si vuole stabilire tra uomini e donne quando si affronta la nascita di un figlio”.
Non teme di essere accusata di omofobia per questa sua posizione?
“Non credo. Sono favorevole alle unioni gay avversate dai movimenti fondamentalisti, religiosi e non. Trovo che si possa crescere bene anche in una famiglia arcobaleno come in una mono-genitoriale. Sono una docente, chiamata a studiare la società non a giudicarne i comportamenti. Ma non mi pare concettualmente onesto riconoscere gli stessi diritti a uomini e donne rispetto alla nascita di un figlio. Gli uomini per secoli hanno avuto infiniti vantaggi rispetto a noi. Su questo terreno, tuttora, non possono vincerci”.