Lo scandalo Datagate scoppiato negli Usa mette a nudo la fragilità della nostra privacy minacciata non solo dagli hacker ma anche da chi è deputato a proteggerci.
Salvatore Grasso
Si è fermata nell’area di transito dell’aeroporto Sheremetyevo di Mosca la fuga di Edward Snowden, l’ex contractor della National Security Agency (NSA), in cerca di un paese che gli offra asilo politico.
L’ex collaboratore della NSA, accusato di spionaggio, dalla Procura Federale della Virginia, delitto per il quale rischia non meno 30 anni di galera, è ricercato per aver rivelato, al Guardian e al Washington Post, l’acquisizione, su larga scala e senza discrimine, da parte del governo statunitense di dati sensibili della popolazione: dalle telefonate a internet.
Gli Usa hanno controllato le telefonate della popolazione accedendo ai tabulati forniti dalla compagnia telefonica Verizon e hanno acquisito informazioni personali (email, chat, chat vocali e video-chat, video, foto, conversazioni VoIP, trasferimento di file) su milioni di internauti dai grandi colossi del web, quali Microsoft, Google, Facebook e Apple, attraverso il programma di sorveglianza Prism.
Una storia degna dei migliori scrittori di spionaggio come John le Carré e Ian Fleming, ma ai tempi di internet.
La vicenda dell’ex collaboraote della NSA che per rimorso di coscienza e per amore della libertà spiffera tutto ai giornali e fugge in cerca di un rifugio, inseguito dai 007 americani, è affascinate ma sarà del tutto vera?
Le rivelazioni di Snowden sono dettate realmente dal pentimento e dalla salvaguardia dei diritti civili? Gli equilibri geopolitici sulla governace di internet non sono, ad esempio, da sottovalutare considerando anche che le sue rivelazioni sono giunte poco prima del vertice di Palm Springs in California tra Obama e il presidente cinese Xi Jinping, in cui tra i punti all’ordine del giorno c’era pure il presunto cyberspionaggio subito dagli Usa da parte della Cina.
Ma il Datagate porta alla ribalta un tema attualissimo: la vulnerabilità della privacy persone, infatti stavolta a essere spiati non sono le nazioni straniere (almeno non solo quelle) ma i privati cittadini americani, i quali forse ingenuamente pensavano che certe cose potessero accadere solo negli altri paesi e non nella terra a cui Tocqueville dedicò il suo saggio più famoso: La democrazia in America.
Invece la fantapolitica distopica è entrata direttamente in casa loro. I paragoni con 1984, il romanzo di Georg Orwell, si sono sprecati, e secondo noi anche a sproposito, perché quello che è successo in America (e probabilmente c’è da sospettare avvenga nella stragrande maggioranza del mondo), con la scusa di garantire la sicurezza degli States da eventuali attacchi terroristici, è ancora più grave, in quanto verificatosi in una democrazia e non in uno stato totalitario come quello a cui Orwell si era ispirato per scrivere 1984.
E ancora in Nineteen Eighty-Four gli abitanti dell’Oceania erano consapevoli di essere spiati dai teleschermi disseminati in ogni edificio di quella nazione, qui invece se alludi a una situazione del genere vieni etichettato come paranoico. Un po’ è quello che è successo al grillino Paolo Bernini dopo aver dichiarato a Ballarò che l’America aveva incominciato a impiantare i microchip sotto la pelle delle persone. Quell’intervista adesso non ci appare più così fantascientifica, e dopo esserci fatti delle grasse risate, l’idea che possa essere anche vera non ci sembra più così peregrina. Infatti nell’ambito di questo scandalo si è parlato pure del prelievo del DNA da parte della polizia americana nei confronti dei criminali e non solo di questi.
Mettendo un attimo da parte il web e le telefonate, forse non ci rendiamo neanche più conto che la nostra vita è controllata diuturnamente attraverso i gesti abituali che compiamo, ormai ritenuti talmente normali da essere assimilati a un semplice respiro. L’uso della carta di credito, della tessera sanitaria, del telepass, delle fidelity card, non fa altro che tracciare a ogni istante la nostra vita.
La priorità di garantire sicurezza nazionale può giustificare una tale invasione nelle “vite degli altri”?
A chi e a che serve sapere con chi parliamo e dove si trova in quel momento il chiamato o il chiamante? A chi a che serve conoscere il nostro pensiero politico o le foto dei nostri cari e il contenuto delle e-mail?
Noi occidentali siamo cresciuti nel mito della bugia di vivere in un’effettiva democrazia e nell’illusione di essere gli unici privilegiati a fruire pienamente di (posticci) diritti civili, perché il controllo delle “vite degli altri” – ci dicevano – era un’esclusiva degli ex paesi comunisti, soprattutto durante la guerra fredda, e, nell’epoca attuale, di alcuni paesi afro-asiatici. Che a noi tutto questo non poteva mai succedere!
Ne siamo usciti con le ossa rotte adesso che abbiamo scoperto (anche se lo sospettavamo) che le “vite degli altri” sono e forse sono sempre state anche le nostre.
Ci siamo sentiti nudi, come quando abbiamo patito un furto in casa, fermi immobili dinanzi alle stanze a soqquadro, ai cassetti svuotati dai propri effetti personali e dalla biancheria intima riversa per terra. In quel momento non pensi ai preziosi rubati. Ti senti violato nel profondo della tua anima, nelle viscere della tua intimità.
No, non è questa l’osmosi giusta tra sicurezza e privacy, non è una scusa che regge, ma è una mera invasione nella vita di milioni di cittadini onesti che s’illudevano di manifestare il loro pensiero in assoluta riservatezza. Non siamo ingenui, lo sappiamo che ciò non serve solo a proteggere un paese dal terrorismo.
E tristemente guardiamo disincantati il mito sgretolarsi nelle macerie di una democrazia che adesso ha tutto l’aspetto di una patina che ne copre le sue degenerazioni.
29 giugno 2013-