Per la serie a cosa servono le intercettazioni, ecco un aneddoto (che conosciamo grazie a un’intercettazione) perfetto per l’incipit di questo ritratto: una volta un avvocato difensore, dovendo prendere accordi per la parcella con il cliente, gli chiese chi fosse il pm titolare del fascicolo in cui era indagato. Quello rispose “Davigo”. E l’avvocato: “Allora voglio il doppio”. All’alba di tutto – quando non era ancora il famigerato giudice che agita le notti del vicepresidente renziano del Csm Giovanni Legnini – il giovane Piercamillo lavorava all’Unione industriali di Torino. Due lauree (una in Scienze politiche perché “i giuristi non hanno nessuna preparazione nelle scienze sociali e questo significa che in genere non capiscono i fenomeni sottostanti alle norme”), aveva già fatto il militare come ufficiale (“mi sento essenzialmente un uomo d’ordine”) e si occupava di relazioni sindacali per i “padroni”: “Come ha detto un mio amico: una vita al servizio della repressione”.
È il 1976, anno di metalli pesanti e violenze. Dopo una trattativa sindacale molto dura, avevano cominciato a scrivere su un muro antistante il suo ufficio: “Davigo fascista sei il primo della lista”. Regolarmente gli imbianchini la cancellavano e loro la riscrivevano. Dopo un po’ cambiarono frase: “Davigo abbiamo perso la lista, ma tu sei sempre il primo”: “Mi tranquillizzai: nessuno con quel senso dell’umorismo poteva davvero spararmi”. Quarant’anni dopo l’ex pm di Mani Pulite – oggi è presidente di sezione in Cassazione e, dopo aver guidato per un anno l’Associazione nazionale magistrati (Anm), corre per la presidenza e per la Procura generale della Suprema Corte – è ancora il primo di molte liste, grazie a una non comune caratteristica: essere inviso praticamente a tutto l’arco costituzionale (declinazioni varie delle larghe intese) e pure a qualche suo collega, non ultimi i passati e presenti presidenti del “sindacato delle toghe” (l’Anm, appunto). Luca Palamara lo ha recentemente attaccato dandogli tra le righe del berlusconiano (“Ha lo stesso obiettivo di quella parte politica che ha tentato invano di ridimensionare, o addirittura annientare, il Csm”) così come Eugenio Albamonte: “Le accuse di Davigo delegittimano il Consiglio superiore”.
A Palazzo dei Marescialli (dove i colleghi di Autonomia e indipendenza, corrente dell’Anm di cui Davigo è stato cofondatore, vorrebbero vederlo sedere su una poltrona da consigliere) ha fatto girare i camilleriani cabasisi anche a Legnini, vicepresidente in quota Pd, nonché ex sottosegretario dei governi Letta e Renzi: “In nessun Paese europeo è consentito passare con tanta facilità dai talk show o dalle prime pagine dei giornali a funzioni requirenti e giudicanti fino alla presidenza di collegi di merito e di Cassazione”. E dire che il non nominato giudice che Legnini non vuole alla presidenza della Suprema Corte è uno dei magistrati più stimati dai colleghi: di Mani pulite era “il dottor sottile”, la mente giuridica, quello che trasformava i “reati di porcata” scovati da Antonio Di Pietro in fattispecie che avevano casa nel codice penale. La parabola che Davigo condivide con gli ex colleghi del pool ha dell’incredibile: da salvatori della patria, bandiere della parte migliore della Nazione, a fautori della barbarie giustizialista. “Passammo per toghe rosse, poi per toghe nere, poi dissero che eravamo pagati dalla Cia, poi che eravamo comunisti e avevamo risparmiato il Pci. In pratica avremmo salvato il Pci coi soldi della Cia”, ha detto l’interessato giocando coi tanti retroscena “revisionisti” su Tangentopoli.
Il lettore si sarà domandato a questo punto perché Davigo susciti così tante antipatie nelle stanze dei bottoni. La riposta, molto intuitiva peraltro, sta in una delle sue frasi celebri: “Non mi occupo di politica, solo di politici quando rubano”. Un altro suo cavallo di battaglia spiega forse perché quella battaglia non è stata vinta. Parla degli organi preposti alla repressione e della loro funzione, quella che in natura svolgono i predatori, cioè selezionare la specie: “Abbiamo preso le zebre lente, sono rimaste quelle veloci”. Recentemente anche Renzi ha preso l’abitudine di attaccare Davigo (“khomeinista giudiziario” ha scritto nella sua ultima fatica letteraria, Avanti) per aver affermato che “un cittadino assolto non è detto che sia innocente”. E dire che Renzi è pure laureato in Giurisprudenza. Più volte Davigo ha spiegato: “Se un’intercettazione che prova che Tizio è il mandante di un omicidio è inutilizzabile, Tizio sarà assolto. Resta un assassino, cosa molto diversa da un innocente. Nessuno nella vita di tutti i giorni utilizza la presunzione d’innocenza. Se il nostro vicino è stato condannato per pedofilia, anche se la sentenza non è definitiva, difficilmente gli chiediamo di tenerci i bambini”.
È questa banale verità, insieme all’autorevolezza e alla popolarità, che i politici temono. Davigo dice in sostanza che è un ovvio principio di cautela che la politica basi la sua selezione sui comportamenti e non sulle sentenze definitive (salvo poi, quando arrivano le condanne, lamentarsi che la magistratura fa politica). La vigilanza deve essere stretta: “La classe dirigente, quando delinque, fa più danni dei criminali di strada”. Ogni volta che rilascia un’intervista, sostenendo le stesse cose che ripete da 25 anni su corrotti e corruttori, su politica e giustizia, si guadagna prime pagine e relative, violente, reazioni di chi si sente chiamato in causa. Del resto “non hanno smesso di rubare, hanno smesso di vergognarsi: rivendicano con sfrontatezza quel che prima facevano di nascosto” è un’affermazione che interroga molta della classe dirigente attuale.
Davigo è uomo che non lesina in frasi a effetto, ma una tra le più famose che gli viene attribuita non è sua: “Rivolteremo l’Italia come un calzino”. In realtà è di Giuliano Ferrara che chiese a Davigo: “Siccome qualcuno ha pagato la Finanza, rivoltiamo l’Italia come un calzino?”. Replica: “Dovremmo far finta di nulla?”. Seguì il solito polverone e, alla fine, risarcimento del giornalista. Al Fatto Davigo ha spiegato: “Stare dalla parte dello Stato non è affatto un bello stare, perché lo Stato dovresti averlo sempre dietro le spalle. Qualche volta non accade”. Con lui, succede sempre meno, se per Stato intendiamo tanti di quei signori che siedono in Parlamento e a Palazzo Chigi o, dopo essere passati di lì, a Palazzo dei Marescialli.
il Fatto quotidiano, 8 ottobre 2017