di Gianni Barbacetto
Lo avevano accusato di voler delegittimare, o addirittura “distruggere”, il Csm. Per le dure accuse che con il suo gruppo, Autonomia e indipendenza, rivolge alle degenerazioni correntizie del Consiglio superiore della magistratura, contro le “nomine a pacchetto” e le spartizioni tra correnti, “uno a te e uno a me”. E ora Piercamillo Davigo nel Csm ci entra come il più votato dei togati, 2.522 preferenze su 8.010 votanti. Segno che ha raccolto la voglia di rinnovamento che un tempo era catalizzata da Md e Movimento per la giustizia, oggi assemblati in Area, veri sconfitti di questa tornata elettorale.
Gli rimproverano di essere di destra: Davigo risponde sorridendo e ricordando l’epopea di Mani pulite. Entrò nel pool con il compito di dare una corretta veste giuridica, lui che era il “dottor sottile” del gruppo, alle accuse per i “reati di porcata” contestati dal collega Antonio Di Pietro. “Passammo subito per toghe rosse”, ricorda Davigo, “poi per toghe nere, poi dissero che eravamo pagati dalla Cia, poi che eravamo comunisti e avevamo risparmiato il Pci. In pratica avremmo salvato il Pci coi soldi della Cia”. A una battuta caustica non sa rinunciare. E questo lo fa amare anche dal grande pubblico, che apprezza il suo parlar chiaro. “Io non mi occupo di politica, solo di politici quando rubano”.
Del resto, “la classe dirigente, quando delinque, fa più danni dei criminali di strada”. E i politici “non hanno smesso di rubare, hanno smesso di vergognarsi: oggi rivendicano con sfrontatezza quello che ieri facevano di nascosto”. Matteo Renzi lo ha definito “khomeinista giudiziario” per aver detto che “un cittadino assolto non è detto che sia innocente”. Lui risponde con un esempio: “Se un’intercettazione che prova che Tizio è il mandante di un omicidio è inutilizzabile, Tizio sarà assolto. Ma resta un assassino, ben diverso da un innocente. Noi rispettiamo il principio giuridico della presunzione d’innocenza, ma nessuno la utilizza nella vita di tutti i giorni: se il vicino di casa è stato condannato per pedofilia, anche se la sentenza non è definitiva, difficilmente gli chiediamo di tenerci i bambini”.
Nato in Lomellina 67 anni fa, laureato in Giurisprudenza e in Scienze politiche, fa il militare come ufficiale (“Mi sento essenzialmente un uomo d’ordine”), va a lavorare all’Unione industriali di Torino (“Mi occupavo di relazioni sindacali per i ‘padroni’; come ha detto un mio amico: una vita al servizio della repressione”). Diventato magistrato, fa il giudice a Vigevano, poi il pm a Milano, dove si occupa di corruzione e tangenti ben prima di Mani pulite. La sua lunga esperienza gli fa dire che “gli organi preposti alla repressione svolgono la funzione che in natura è svolta dai predatori, selezionare la specie: prendiamo le zebre lente, rimangono quelle più veloci”.
Dal 2005 è giudice in Cassazione. Nel 2015, in aperta polemica con Cosimo Ferri, magistrato che entra nel governo, esce da Magistratura indipendente e fonda Autonomia e indipendenza. Viene eletto al vertice dell’Associazione nazionale magistrati, ma alla scadenza del suo anno di presidenza lascia la giunta dell’Anm contestando le spartizioni correntizie degli incarichi direttivi dei magistrati.
Gli avvocati non lo amano, perché li ha accusati di essere una delle cause della lunghezza dei processi: “In Italia ce ne sono troppi, aumentano la conflittualità: per ridurre i processi bisogna ridurre gli avvocati”. Però lo temono, almeno secondo il dialogo tra un cliente e il suo difensore rivelato da una intercettazione telefonica: nel prendere accordi per la parcella, il legale chiedeva all’assistito chi fosse il pm che lo aveva messo sotto indagine. “Davigo”, rispondeva il cliente. E l’avvocato: “Allora voglio il doppio”.
Il Fatto quotidiano, 12 luglio 2018