…nei giorni del gentiluomo prodiano signor Tanzi e dei tanti Cirio e Parmalat del mondo
da Angelo Ruggeri
“Uno scassinatore si manda all’ergastolo, mentre un uomo che con una bancarotta fraudolenta rovina intere famiglie, se la cava con qualche mese…I giudici che condannano il ladro fanno buona guardia alla barriera tra ricco e povero… ma sanno che il bancarottiere causa al massimo uno spostamento della ricchezza” (Balzac, Illusioni perdute) A Balzac non solo sono familiari i concetti della lotta di classe ma conosce anche il metodo rivelatore del materialismo storico (1)
A Dashiell Hammett e, perché no? a sua moglie Lillian Hellman – la J. Fonda del film “Giulia” – che non ancora famosa e aspirante commediografa unì la sua esistenza a quella di Dash; al capoclasse del movimento letterario dell’hard-boiled-schoold; dalla sua grande letteratura ma anche dalla sua vita impararono qualcosa non solo i Chandler, ma gli Hemingway, i Dreiser, i Ring Lardener, i Carl Sandburg, i Sherwood Anderson….
Ad Hammett, che dopo il tentativo di corruzione e l’offerta di 5000 dollari, fattagli dalla Anaconda Copper Company affinché, come agente della Pinkerton, uccidesse il sindacalista Frank Little, non si riprese mai veramente, ossessionato dall’idea di avere dato ad un uomo il diritto di pensare che avrebbe potuto commettere un assassinio. Il cosiddetto massacro di Everet, in cui Frank Little e tre sindacalisti furono da altri effettivamente linciati, rappresentò per Hammett un insuperabile orrore (oggi, in Italia, i sindacalisti li promuovono a dirigenti d’impresa o di FFSS, e non è meno ma più corruzione).
Maturò in lui la convinzione di vivere in una società corrotta, come del resto gli si andava documentando nei suoi romanzi che, proprio perché descriventi la realtà americana, seppero “anticipare” il Watergate e i grandi scandali americani, l’intreccio tra capitale e politica, tra S.p.A e criminalità economica e comune come è proprio della “patria” dei trust e della corruzione che, invece – non troppo paradossalmente – in Italia venne e viene presa come “modello” per leggi anti-trust (che legittimano i trust) e – mistificandolo come lotta alla corruzione politica – per il bipolarismo e il maggioritario elettorale, i quali negli Usa, storia, letteratura e persino fumettistica documentano essere un sistema permeabile e legittimante il rapporto tra mafia, economia e politica (come già nell’Italia “Albertina” del notabilato prima e del fascismo poi).
Col tempo Hammett arrivò alla conclusione che solo una rivoluzione avrebbe potuto spazzare via la corruzione. Gliela fecero pagare, con la salute e con la vita, accusandolo e perseguitandolo, innocente, al tempo dei furfanti, della guerra fredda edel fascismo maccartista. Lui che appena dichiarata la guerra alla Germania nazista, a ormai 48 anni, corse ad arruolarsi volontario, riuscendo chissà come ad ingannare i medici militari sulle cicatrici polmonari della sua tubercolosi contrattata nella prima guerra mondiale. Lui che scelse di andare in galera, aggravando definitivamente le sue condizioni di salute, pur di rifiutare di dire ai tribunali maccartisti che non c’entrava nulla col pagamento delle cauzioni organizzato dalla lega per i diritti civili (in quella che si considera la “patria dei diritti civili”, ancora oggi difendere i diritti civili è un crimine “da comunisti” organizzarsi per difendere i diritti civili) a favore dei tanti – Charles Chaplin tra gli altri – che venivano ingiustamente perseguitati e messi alla berlina. “Perché non lo dici?”, sollecitavano moglie e amici di Hammett: perché “non permetterò mai a dei poliziotti di dirmi quale deve essere la concezione della democrazia”. In seguito, per la detenzione, la tubercolosi divenne cancro e morì.
Autodisciplina, rispetto per la parola data (“perché credevate che non ci sarei riuscito? Gli avevo dato la mia parola”), orgoglio, rettitudine, in una parola: onestà; non solo a parole come tanti altri intellettuali americani, convinto com’era che, dissentendo dalla società in cui si vive, gli altri, nonostante tutti i discorsi ipocriti che fanno, non mancheranno di punirti appena ne avranno la possibilità. E tu che dissenti devi essere preparato a sopportare le conseguenze, devi essere preparato a reggere a qualsiasi punizione ti tocchi. E così fece anche quando la società da cui dissentiva decise di punirlo ulteriormente “torturandolo” anche economicamente.
Che lezione, per tutti quelli che oggi cianciano di “regime”, senza accorgersi di essere loro stessi “il regime”, di essere i primi ingredienti e la base del regime, coi loro silenzi, la loro ipocrisia, il loro conformismo, il loro obbedir tacendo e credere e seguire, senza nemmeno dialettizzarsi, un qualche capo pure mediocre; nel seguire sempre, senza protestare mai un qualche “vertice”, di partito o di sindacato, come fossero la squadra “di calcio” del cuore, “vertici” che gli dettano “quale deve essere la sua concezione della democrazia”.
E tutto ciò fanno persino oggi, quando non possono dare colpe per la loro subalternità alla presenza di uno Stalin o Mussolini o McCarthy, quando non rischiano affatto, come allora altri o come Hammett, ne la salute ne la vita propria o dei familiari.
Zerbinotti della democrazia; democrazia che ha questo come limite da cui occorre guardarsi e invece non ci si guarda: l’ipocrisia; il fariseismo; le paludate mistificazioni bipartisan del politically correct; e tutto l’armamentario retorico di una “jeremiade americana” (“se protestate è perché la libertà ve lo consente; quindi perché protestate?”).
Quelle che si considerano “qualità formali” derivate “da doti di cultura e da un progredito dominio di sé, sono invece il riflesso di due fattori negativi, la povertà congenita o acquisita del sentimento, e il conformismo del pensiero”, fa dire Guido Morselli a un suo personaggio femminile; per cui – aggiunge – “anche da un punto di vista puramente femminile, il divario fra le due classi, fra il proletario e il gentiluomo, si risolve in una superiorità del primo”
Uscire dal “folclore del senso comune”, altrimenti non si fa “teoria della conoscenza”, ne si colgono “i barlumi di verità che possono esservi nello stesso senso comune”, diceva Gramsci la cui lezione risulta sostanzialmente tradita. Più prosaicamente: a che serve la democrazia, se poi si tace e si acconsente come nelle dittature?
Di H. Bogart, Huston, Hammett, Peirce e il “pragmatismo”
L’investigatore di Hammet “si impegna a demolire, distruggere, demistificare la falsa realtà inventata dai personaggi con cui viene in contatto, Spesso tenta di sostituire alle loro invenzioni la propria personale rappresentazione ipotetica: anche questa rappresentazione può essere ‘vera’ o ‘falsa’ o tutte due le cose. Ad ogni modo i suoi sforzi maggiori sono tesi a rendere palese che le invenzioni degli altri sono appunto invenzioni, inganni, falsità, mistificazioni. Quando un’invenzione rivela la sua natura di invenzione, cessa di esistere, e , presumibilmente, lascia trasparire dietro di se la ‘vera’ realtà, che è sempre stata li, a portata di mano ma mascherata dalla finzione. E tuttavia in Hammet accade che la ‘realtà’ che emerge dalla finzione è un’altra finzione e che dietro quella ce n’è ancora un’altra” (Oreste Del Buono, Introduzione a “Piombo e sangue”, il primo romanzo di Hammet, “il più sincero e mistificato, ma anche il più poetico, dunque più vero”.
E’ attraverso l’Humphrey Bogart de “Il Falcone Maltese” di John Huston che, molti, conobbero quel Dashiell Hammett che continua a costituire un caso. Un caso non solo di vita e letterario di un Pinkerton diventato grande romanziere e anche poeta, ma per la molteplicità delle implicazioni, anche filosofiche, della sua opera.
Di recente, senza poter parlare di tali implicazioni, ho avuto il piacere – almeno mio – di accennarvi in relazione al fatto che la figlia tra gli 8000 volumi della biblioteca di casa “ha scoperto” o “è stata scoperta” da Hammett, prima di vedere un film tratto dai suoi romanzi. Ed è forse per avere prima letto il libro e poi visto il film, e riletto il libro, che ho “capito”.
In “Il Mistero del falco” (2) J. Huston coglie bene e con integrità e intensità dialoghi e prosa di Hammett. E’ risaputo dell’impatto memorabile.
Ma nonostante la bravura delle scelte operate, Huston ha paradossalmente scartato il momento centrale del romanzo, tra i più significativi scritti da Hammett. Quello in cui la signora Flitcraft, all’agenzia di Sam Spade (uno dei tanti prototipi della letteratura inventati da Hammett), racconta di aver visto “un uomo a Spokane che sembrava suo marito”. E Spade indagando cosa scopre? Scopre che l’uomo effettivamente era Flitcarft e che aveva passato gli ultimi anni sotto il falso nome di Charles Pierce.
Charles Pierce. All’inizio nemmeno mi ero accorto dell’inversione delle due vocali. E ancora oggi, mi capita di scriverne il nome invertendo inconsapevolmente le due vocali o anche di scriverlo come si legge. Hammett da a un personaggio di un suo romanzo, Flitcraft, il nome di un filosofo, Charles Peirce, americano, iniziatore e ideatore del pragmatismo, che non è però quello a cui si fa oggi solitamente riferimento, distorcendo e volgarizzando anglosassonicamente l’ideologia e la filosofia del “pragmatismo” di Peirce nel “praticalismo” di William James, col quale si esclude il mondo dei propositi, cioè della teoria e della sperimentazione della teoria, che è invece il tratto della filosofia peirceana. E’ un po’ come se Kant avesse persino confuso pragmatisch e praktisch, senza intenderne la differenza.
Con l’aggravante che il pragmatismo nella versione James, diceva Peirce, è relativismo e irrazionalismo, ovvero indebolimento ideologico della verità, ovvero una “dottrina suicida”. Insomma: un praticismo che si pretende essere la forma pratica della razionalità nel mentre stesso non è altro che irrazionalismo e relativismo. Insomma: un’americanata.
Per questo Peirce ribatezzò la sua filosofia – che ha ispirato molte correnti della filosofia, soprattutto quella del linguaggio – “pragmaticismo”. Per distinguerlo dalle americanate alla James e alla Schiller (non il “grande” Friedrich, tedesco, ma Canning Scott, l’inglese-americano che prima fa voli metafisici e poi pretende di dire, “pragmaticamente”, che la filosofia non è teoria ma pratica); ai quali Peirce “regalò” il termine “pragmatismo” da lui coniato da giovane, rifondandolo in pragmaticismo. Per distinguerlo dall’americanata del praticismo tanto ripreso oggi anche a casa nostra e per significare che pragmaticisticamente non è e non significa “pragmaticamente”.
Non è un caso che il nuovo nome che Hammett da ad un personaggio dei suoi romanzi, corrisponda a quello di un filosofo, del più originale e del più grande filosofo americano che però – e forse proprio per questo – fu avversato per tutta la vita dall’ambiente accademico americano e continua ad avere scarsa fortuna nella filosofia americana.
Non è un caso, ovviamente, e chiunque anche solo pensi diversamente meriterebbe la pena islamica della fustigazione; o d’essere “condannato” a memorizzare l’intera opera di Hammett che, per altro, considerata nel suo insieme, rivela una straordinaria coerenza, nel porre alla base della sua opera oltre che un’autentica e vivida immaginazione, costanti riferimenti alla complessità, ambiguità, problematicità della vita e ai comportamenti contraddittori, privi di ragioni logiche o metafisiche dimostrabili, dove la contraddizione non solo etica ma metafisica viene vissuta e accetta con piacere.
Nel “Falcone” Sam Spade tenta di spiegare a Brigid il suo concetto del mondo e della vita. Raccontando un’esperienza che diventa una parabola, spiega cos’era accaduto a Flitcraft-Pierce che aveva discusso con lui la faccenda. Un giorno passando sotto un edificio in costruzione…una trave era piombata giù cadendo accanto a lui… che rimase li, fermo, bloccato dalla paura. Si sentiva come se qualcuno avesse tolto il coperchio dalla vita e gli avesse permesso di osservarne il meccanismo. Buon cittadino buon marito buon padre, fino allora aveva condotto vita ordinata, pulita, sana e responsabile, non per costrizione ma per l’educazione ricevuta. La trave gli aveva fatto capire che la vita è qualche cosa di diverso…scoprendo che, comportandosi con ordine e buon senso, non aveva affatto agito in armonia con la vita…Partì subito, si sistemò a Spokane e si risposò, senza rendersi conto di essere ripiombato nella medesima routine da cui era fuggito. Ma, e questa è la parte della storia che mi piace di più – dice Spade -, si era adattato alla caduta delle travi e le travi non erano più cadute, allora si era adattato al fatto che non cadessero più…”. Brigid invece, non ci capisce niente. Però quello che le ha raccontato c’entra con le forze, le convinzioni e le contingenze che determinano la sua condotta e chiariscono il suo comportamento apparentemente misterioso.
Il fatto che in tutte le più significative opere di Hammet ci siano passi così, che non ci si aspetterebbe di trovare in un racconto, tantomeno poliziesco, indica quale genere di trasformazione abbia operato Hammett in tale genere letterario, portandolo ai più alti gradi della letteratura. Viene in mente le parole di un critico quando uscì Il falcone maltese: ”ci sono scrittori di gialli. Poi c’è Dashiell Hammet”. O di Chandler: “con il falco Hammett ha restituito il delitto alla gente che lo commette per ragioni concrete, e non semplicemente per fornire un cadavere ai lettori”; a la sua splendida critica ai cultori della giallistica inglese, così falsa e ipocrita, e ai suoi autori “così macchinosi e poco consapevoli di quanto va accadendo nel mondo” (Chandler, “La semplice arte del delitto”). Soprattutto viene in mente la maestria del narratore, in cui il realismo sta soprattutto nella capacità di descrivere più dei delitti, l’inganno e il cinismo di una società.
Brani, tra il resto, sull’irrazionalità e incomprensibilità etica del mondo, di cui ci si rende conto all’improvviso, anche se poi si riprende a vivere come se tutto fosse ordinato, adattandosi, come Flitcraft-Pierce. “E questa – dice Spade – la parte che mi piace di più”. Perché più incomprensibile e misteriosa, come appunto sostiene Peirce, il filosofo non Flitcraft. Donde un “caso Hammet”, su diversi piani.
Dell’abduzione, del pragmaticismo e della teoria della conoscenza
“…democrazia del ‘nuovo mondo’, di quella ‘razza’ di colonizzatori che si sta espandendo sulla costa atlantica per recarvi la civiltà e che guarda all’Europa, della quale pur subisce il fascino, come luogo di morbose sottigliezze ‘logiche’ e ‘metafisiche’, dietro le quali – per James – c’è sempre il rischio di cadere preda del ‘Maligno’, astutamente mascherato da teologo. Verrebbe voglia di sorridere se non fosse che questa mentalità permane nel profondo della filosofia e della politica culturale o politica tout court americana dei nostri giorni” (Carlo Sini)
E’ chiaro, infatti, come da qui si aprono implicazioni di ogni genere, che danno possibilità di sviluppo infinito al discorso. Sia sul piano del rapporto tra la “realtà” che ogni persona coinvolta nel caso di un suo romanzo ritiene sia e su cui è disposta a giurare, e quella che Hammett scopre essere una costruzione e una mistificazione, una realtà romanzesca che il suo agente investigatore ha il compito di smascherare: per ricostruire una vera realtà romanzesca, per fare insomma un resoconto di quello che è “realmente” accaduto, cioè della realtà che nella realtà sfugge realmente. Con tutte le implicazioni anche filosofiche e artistiche sulla ricerca e conoscenza di verità e di realtà e sul significato dei significanti – “vedo un’azalea fiorita. Ma no! Io non vedo quello che ho detto ancorché quello che ho detto sia l’unico modo per descrivere ciò che vedo” (Peirce); “questa non è una pipa” (Magritte) -; con tutte le implicazioni con l’abduzione del pragmaticismo di Peirce, diverso e per molti versi opposto a quello di induzione-deduzione (a cui solo o prevalentemente si riferisce il praticismo o pragmatismo), in quanto “ne deduzione né induzione possono mai aggiungere neppure il minimo particolare ai dati della percezione. E i meri precetti non costituiscono conoscenza applicabile a un qualsiasi uso pratico o teorico. Tutto ciò che rende la conoscenza applicabile ci viene dall’abduzione” (Peirce) che è una sorta di connessione tra i diversi elementi di un’ipotesi, cioè di una teoria, che stanno nella nostra mente.
L’abduzione insomma, è “soltanto il passo preparatorio del ragionamento scientifico”, “un atto di veggenza intima” dove la “suggestione abduttiva” viene a noi “ come un lampo” che porta alla formazione di un’ipotesi e quindi di una teoria. Anche se Peirce si interroga sul fatto misterioso di “interrogarsi su quale sia il sostegno di tale ipotesi, dato che da un fatto attuale essa si limita a inferire un forse (forse si forse no)” – e qui c’è tutto l’enigma del comportamento del Sam Spade di Hammet e della vicenda che racconta a Brigid – anche per Peirce – non meno che per Spinoza o altri e diversamente dai pragmatici -, ogni nuova conoscenza dipende dalla formazione di un’ipotesi, “purché ciascuna congettura venga controllata e verificata mediante il confronto e l’osservazione”.
Il che è altro o l’opposto del ribaltamento di James, che sposta “dal significato di un enunciato filosofico espresso in termini di risposta, al suo valore di verità considerato alla luce delle conseguenze sensibili e pratiche che ne deriverebbero a colui che lo assumesse appunto come vero”(Carlo Sini). Per poi disinvoltamente ricavarne alla americana, appunto, che se il significato di una concezione si rende visibile nella condotta e nella pratica che ci ispira, allora badiamo solo alla pratica piuttosto che alla logica e, quindi, bando alle ciance e alla teoria e se ciò che ci conviene – a lume di naso, non certo dell’occhio di lince della teoria – è buttare un po’ di bombe su Bagdad e su millenni di storia e di civiltà, lo facciamo e questo sarà anche il “vero”.
Perché per James e il pragmatismo, di fronte ad ogni problema basta chiedersi quale è la condotta che più ci conviene, quella più fruttuosa e più consona ai nostri interessi e ai nostri bisogni; e una volta identificata e “pragmaticamente-praticamente” fatta, essa sarà anche “vera” (3) poiché per James e il pragmatismo, il “vero” è ciò che produce conseguenze pratiche sensibilmente apprezzabili (e cosa produce più conseguenze pratiche e apprezzabili di un atto “performativo” come la guerra?); in quanto si tratta di un “praticalismo” e, in Schiller, un “umanismo” che, come disse Peirce stesso, è una teoria del significato logico che si conclude nel relativismo e nella esaltazione dell’azione per se stessa. Ogni altra concezione della verità per i pragmaticisti-praticisti è o sarebbe solo intellettualistica, intellettualismo astratto: “la prova ultima di ciò che è vero è la condotta che ci detta o ci ispira” ciò che facciamo (James).
In tale guisa, “performativa” – il termine di Searle cade a proposito – di una prevalente cultura americana cosiddetta pragmatica, diventa possibile a tanti come a Searle (insisto su questo aspetto di Searle da verificare) non considerare gli sviluppi storici del pensiero e di vantarsi di non leggere e di non aver letto nulla della filosofia e del pensiero europeo e mondiale e solo questa estate qualche cosa di Rousseau (4). Non è un caso che James sposta e ribalta Peirce non già per dare un tono popolare o volgare – che è il suo modo di filosofare – al “pragmatismo” di Peirce, ma per un interesse largamente religioso che è il motivo ispiratore del lavoro di James nella filosofia come nella psicologia.
“Religioso e “politico” con cui “nell’illustrare il suo modo di intendere il pragmatismo ne sottolinea la sostanziale matrice empiristica, di ascendenza anglosassone (alla quale riduce, molto arbitrariamente e superficialmente, lo stesso Peirce). Vede insomma nel pragmatismo l’ultima espressione di un empirismo anglosassone in lotta contro il mondo intero e contro le correnti che ancora malauguratamente affascinano i giovani studenti americani…nella sua difesa di una filosofia e di una politica “democratiche”: democrazia del ‘nuovo mondo’, di quella ‘razza’ di colonizzatori che si sta espandendo sulla costa atlantica per recarvi la civiltà e che guarda all’Europa, della quale pur subisce il fascino, come luogo di morbose sottigliezze ‘logiche’ e ‘metafisiche’, dietro le quali – per James – c’è sempre il rischio di cadere preda del ‘Maligno’, astutamente mascherato da teologo. Verrebbe voglia di sorridere se non fosse che questa mentalità permane nel profondo della filosofia e della politica culturale o politica tout court americana dei nostri giorni (Carlo Sini). Qui davvero non posso non richiamare il mio pur breve e sintetico titolato “Geremiadi americane” (5) per le assonanze e convergenze con quanto dice Sini.
Il “pragmatismo” non è solo un ribaltamento di ciò che Peirce aveva coniato e che ha avuto ben donde di rifondere in pragmaticismo, ma è ribaltamento di tutta una teoria della conoscenza. In breve: di quella che dice che non bisogna confondere la realtà con il suo concreto. Per cui la conoscenza non è né produzione di realtà né rispecchiamento di essa, ma è produzione di un concreto pensiero, a partire dalla trasformazione di un materiale immaginario, dato come già da sempre strutturato. Teoria che Peirce non rinnega ma si incarica di ipotizzare come con abduzione venga a strutturarsi: “i diversi elementi di un’ipotesi stanno già nella nostra mente, prima che noi acquisiamo coscienza di nutrire l’ipotesi stessa, ma è l’idea di mettere insieme quanto non ci si è mai sognati prima di mettere insieme che fa lampeggiare la nuova suggestione dinanzi al nostro sguardo interiore” (Peirce)
L’abduzione non rinnega una teoria della conoscenza, che almeno da Spinoza in poi (il quale per altro ripetendo anticipatamente le argomentazioni della famosa “Introduzione del 1857” di Marx alla “Critica dell’economia politica”) rompe con una lettura religiosa e, dunque, anche con la variante filosofica di tale lettura: l’ideologia empirico-idealistica (che rimane in James), perché la conoscenza non va dal concreto all’astratto (come nell’empirismo) ma dall’astratto al concreto (contro l’empirismo), anche se l’oggetto reale che da luogo al processo della conoscenza e di ricerca della “verità” non è immediatamente conoscibile col pensiero astratto (come nell’idealismo), ma rimane al di fuori della conoscenza (contro l’idealismo).
Con ciò sono stati detronizzati gli antichi deidel Soggetto, dell’Oggetto e della Verità, per pensare la conoscenza comeun processo senza soggetto e senza garanzia, come lotta,ad un tempo, aleatoria ma necessaria nello spazio della teoria, partendo da una tesi solo apparentemente arbitraria ma che invece esprime lo spazio di libertà e della lotta teorica per una ricerca dialettica della verità.
Contro Descartes quindi, che presenta nella forma di garanzia divina una teoria della garanzia di ogni verità, dunque di ogni conoscenza; e contro anche Kant che produce una teoria giuridica della conoscenza sottomessa al ”io penso” del Soggetto trascendentale e al “a priori” di ogni esperienza possibile.
Il primo genere di conoscenza per Spinoza è “dire il fatto” “spogliato da ogni addizione esterna” (Engels). Ma per dire il fatto, si deve giustamente spogliarlo da ogni addizione esterna al fatto, ovvero dall’immaginazione, che però non si presenta come addizione esterna ma come la verità immediata del senso del mondo come noi immediatamente lo percepiamo e lo viviamo sotto la dominazione dell’immaginazione, a tal punto penetrata nella realtà da essere indissociabile e inseparabile da essa.
Il problema è di liberare la mente dalle illusioni di ciò che Spinoza chiamava immaginazione. Che non è molto distante o almeno non antitetico alla necessità di eliminare ogni altro fattore e far restare solo il fattore esatto del processo di abduzione di un investigatore o di un personaggio come Sam Spade (ma Hammett preferisce l’investigatore senza nome, un Op) che Peirce descrive così: “feci chiamare e mettere in fila tutti i camerieri sul ponte della nave” (gli avevano rubato orologio e soprabito), sperando di individuare il colpevole. “Niente, non mi si accese una scintilla di luce”. Il problema era liberare la mente dai condizionamenti, potremmo dire dalle illusioni che Spinoza chiamava immaginazione, per permettere una connessione, una sorta di comunicazione subliminale tra i diversi elementi che stanno già nella nostra mente, i diversi elementi di un’ipotesi per acquisire coscienza dell’ipotesi stessa. “Tu devi soltanto puntare il dito sul tuo uomo” – formulare un’ipotesi – “non importa se non ne hai nessuna buona ragione, devi dire chi pensi sia il ladro”, liberare la mente dalle influenze dell’immaginazione che costituiscono parte integrante della realtà che noi percepiamo, e formulare una tesi e portarla avanti, con una ricerca dialettica della verità e della realtà, cercando poi di verificarla e sperimentarla (come è proprio anche della ricerca teorica) come fa Peirce andando a cercare gli oggetti rubati a casa di chi ha teorizzato fosse il ladro.
Per altro quando Peirce dice che il pragmatismo o pragmaticismo è una “propepositivismo” da leggere “nel senso che anche Husserl difendeva la sua fenomenologia: noi siamo i veri positivisti” (Sini), come anche Husserl non intende certo fare un complimento ai positivisti, “ma rimarcare che lui, non loro, facevano davvero dell’esperienza il bando di prova della filosofia”.
Insomma, per Peirce il pragmatismo era inteso come metodo sperimentale per dissolvere i problemi più che per risolverli. Il che evita l’equivoco di pensare che Peirce riduca la filosofia alla scienza, anzi Peirce rifiuta il facile e superficiale “realismo” degli scienziati e “come Husserl non condivide il loro ‘empirismo’ che si crede concreto ed è per lo più solo una fantasia astratta e una superstizione naturalistica”.
E ciò vale per tutti, soprattutto per coloro che “performativamente” (Searle) rivestono da filosofia la scienza o la loro teoria scientista, con l’intento di fatto o voluto di cancellare ogni valore del sapere. Soprattutto il sapere degli ultimi 300 anni che, infatti, non si prendono nemmeno la briga di leggere e tantomeno di considerare, non a caso figli di una patria d’oltre Atlantico che vanta ideologicamente la vetustà dei principi fondatori della sua forma statuale e costituzionale liberale e settecentesca, non ancora e affatto democratica perché rimasta impermeabile all’evoluzione della storia e del pensiero degli ultimi trecento anni. Non senza guasti e conseguenze negative interne, come ci documenta anche Dash Hammett.
31 dicembre 2003
: per dire solo di chi in CGIL dovrebbero più di altri; non parliamo di tanti altri antimarxisti compresi girotondini e cosiddetti comunisti rifondaroli o di Pcdi e Manifesto, visto che in un fondo persino la Rossanda sembra intendere di più una lotta contro il solo Berlusconi: credono che se non lo si dice la lotta di classe non c’è.
Note:
[1] Ciò, ovviamente, va ad onore del reazionario e codino Balzac, ben più avanzato e progressista dei cosiddetti “progressisti” di oggi che, come Epifani – segretario CGIL !!! – anche dopo i casi Barzani e della Cirio di Cragnotti (una “fattucchiera” lo definì Cuccia) e solo pochi giorni prima della deflagrazione Parmalat (con “scoperta” di un sistema di potere d’impresa capace di scavare buchi di bilancio che arrivano al centro della Terra senza che “nessuno” se ne accorga), aveva dichiarato non esserci “la lotta di classe”.
Nonostante che Epifani non si dimetterà per manifesta incapacità, ciò non è per dire dell’immoralità e inintelligenza di una “sinistra” che – abbiamo già ricordato lo si diceva della “sinistra storica” di Depretris – “non è altro che una destra peggiorata”; ma è per dare ulteriore conferma a quanto rilevato anche da Carla Ravaioli nella sua risposta di condivisone a quanto avevamo scritto a proposito di un incontrollato uso del risparmio di tutti a favore dell’accumulazione d’impresa e speculazione finanziaria (vedi e-mail “la linea”).
Pochi a “sinistra” si interessano del sistema d’accumulazione diceva Carla Ravaioli, anche nel suo “Un mondo diverso è necessario” E.R. La riprova è nel fatto che a proposito dei mancati controlli (l’ipocrisia vieta di parlare di convivenza “tecnicamente” efficiente) su Cirio e Parmalat ancor oggi non c’è uno che anche solo “parli” di riportare la Banca d’Italia e il sistema bancario sotto un controllo delle istituzioni elettive.
Solo Cossiga ha ipotizzato di riportare il sistema di controllo sotto l’esecutivo di governo com’era prima che venisse data autonomia a Banca d’Italia e a sistema bancario: chiave di volta per garantire che in queste crisi si salvaguardino gli istituti bancari anziché i risparmiatori inconsapevolmente usati per finanziare le imprese. Nessuno che “da sinistra” si ricordi di una “riforma democratica dello stato” con cui a suo tempo si proponeva il controllo della Banca d’Italia non da parte del governo ma delle Assemblee elettive, in primis Parlamento. Già perché l’UOVO DI COLOMBO DI UN CONTROLLO DEMOCRATICO E SOCIALE DELL’ECONOMIA (l’opposto della c.d. “democrazia economica” poi sposata da Cgil e “sinistra”) ERA GIA’ STATO SCOPERTO quando si proponevano: riforma del sistema bancario e della Banca d’Italia (con i suoi dipendenti che scioperavano per questo), riforma del sistema d’informazione (Istat) con decentramento in capo alle amministrazioni locali; riforma delle Partecipazioni Statali – non la loro privatizzazione come è stato fatto – col passaggio di poteri a Regioni e Autonomie locali intesi però come soggetti della programmazione economica nazionale, costituzionalmente previsto.
[2] E’ il titolo che J. Huston diede al film tratto dal Falcone maltese di Hammet
[3] Questo mi sembra richiami anche il significato del “performativo” di Searle che abbiamo di recente esaminato nelle riunioni di Fenomenologia società in occasione delle riunioni preparatorie della Comunità di ricerca, sul nesso tra legalità e legittimità: ma chiedo verifica o conferma e conforto a padre Pirola, D’Albergo e a tutti gli altri della rivista.
[4] Searle ha quindi usato la nozione di “contratto sociale” senza averlo letto, evidentemente solo per una assonanza fonetica che gli richiamava chissà cosa.
[5] La Prealpina, 16/12/03.