di MOWA
Nel Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx e Friedric Engels c’è un passo che recita così:
“Una parte della borghesia desidera di portar rimedio agli inconvenienti sociali, per garantire l’esistenza della società borghese.
Rientrano in questa categoria economisti, filantropi, umanitari, miglioratori della situazione delle classi lavoratrici, organizzatori di beneficenze, protettori degli animali, fondatori di società di temperanza e tutta una variopinta genìa di oscuri riformatori” […] ed ancora: “I borghesi socialisti vogliono le condizioni di vita della società moderna senza le lotte e i pericoli che necessariamente ne derivano. Vogliono la società attuale sottrazion fatta degli elementi che la rivoluzionano e la dissolvono. Vogliono la borghesia senza proletariato… [il proletariato] dovrebbe rinunciare alle odiose idee che di essa s’è fatto.”
Le prime ed ultime due righe sono l’esatta descrizione della contraddizione borghese sul fenomeno dirompente del non profit in una società basata sullo stretto concetto capitalistico.
Infatti, è inconcepibile avere una società come la nostra che teorizza (e formalizza con l’art. 36 della Costituzione [1] ed il Codice Civile) il riconoscimento della prestazione d’opera e relativo emolumento (retribuzione) e poi genera quei meccanismi che impediscono lo sviluppo della società nel suo complesso.
Per comprendere meglio.
Se al Titolo III della Costituzione (ove è inserito l’art. 36 co. 1° “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.”) “Rapporti economici” si parla di finalità atte allo sviluppo delle attività lavorative, dall’altra, le leggi, oggi, autorizzano la creazione di alcune associazioni non profit che fanno concorrenza ai sevizi sociali che dovrebbero essere di sola gestione pubblica.
In un paese capitalista l’associazionismo non profit è il massimo dello sfruttamento dell’individuo perché soppianta la retribuzione della prestazione d’opera con prestazione in forma gratuita riducendo, nel contempo, la creazione di altri posti di lavoro retribuiti.
Se, da una parte, la società borghese sente il “fardello” del costo della macchina statale e taglia i servizi, dall’altra, escogita e favorisce lo sviluppo del non profit per compensarne le lacune creando una spirale di deficienze occupazionali.
Quindi avremo intere generazioni che saranno costrette a rincorrere le cause della disoccupazione e/o educate (sic!) a fare false attestazioni ed inventarsi associazioni, che mantengono le stesse prerogative di una tradizionale società imprenditoriale, pur di racimolare denaro per vivere. [2]
Il tragico è che molte di queste associazioni non profit sono talmente inserite nella logica capitalistica che producono “danni alla società”: organizzano corsi di formazione e/o stage (spesso a pagamento per i partecipanti che devono essere tesserati) per i giovani, tirocinio obbligatorio con la promessa illusoria di una retribuzione e, dulcis in fundo, senza versare contributi sotto forma di tasse.
Insomma, l’invenzione dell’associazionismo non profit è stato l’espediente geniale del capitalismo per includere sfruttamento nello sfruttamento.
Il non profit è la genesi di approfittatori e per dirla con le parole del sociologo Giovanni Moro:“chi si spende per l’interesse generale è trattato esattamente allo stesso modo di chi si mette insieme per coltivare passioni e interessi perfettamente legittimi ma privati e di chi fa della condizione di essere non profit niente altro che un buon affare”. Ovverosia “ergersi a rappresentanti di un universo enorme e ricco reclamando spazio, risorse e cariche politiche e amministrative; o liberarsi dalla responsabilità della gestione dei servizi pubblici abbandonandoli a se stessi o sottopagandoli; o migliorare la propria reputazione cavandosela con qualche donazione; o infine drenare risorse per definire e analizzare sempre meglio un tutto che è omogeneo quanto una stanza in cui si trovano un microscopio, un cannone, un cesto di frutta, un cavallo a dondolo e un ippopotamo”.
L’aver voluto, da parte dei nostri politici, “scimmiottare” per anni il modello del walfare degli Stati Uniti, senza capire che il nostro sistema era completamente diverso (in quanto le estensioni e coperture di garanzia statuale erano decisamente più ampie) ci ha portato a ridurre servizi di vitale importanza. Nelle complessive 301.191 unità non profit (dati ISTAT, del 16 aprile 2014, sul 2011) 4,7 milioni sono i volontari, 680 mila gli addetti, 270 mila lavoratori esterni e 5 mila i lavoratori temporanei. I soli servizi alla sanità sono stati del 14.5 % per gli addetti e del 30,8 % i volontari.
Il 66,7% (= 201.004) è composto da associazioni non riconosciute contro il 22.7% di quelle riconosciute (= 68.349), il 2,1% le fondazioni, il 3,7% le cooperative sociali e il 4,8% altre forme giuridiche. [3]
Chi siano i componenti di questo 66,7% lo si può leggere sulle cronache quotidiane. [4] [5] [6] [7] [8] [9]
Con questi dati quale riscatto e futuro si può dare ai giovani (e non solo) nel campo lavorativo?