di MOWA
Dalla Corte Internazionale di Giustizia, recentemente, è stata emessa una sentenza che ha fatto e farà discutere molto, non tanto per la provenienza etnica ecc. dei deceduti di cui parla ma in quanto non da risposte al perché quelle persone siano state uccise.
Nella sentenza, infatti, si sostiene che né Serbia né Croazia “si resero direttamente colpevoli di genocidio durante le guerre balcaniche seguite nei primi anni ’90 al collasso dell’ex Jugoslavia. Lo ha sentenziato la Corte Internazionale di Giustizia. La motivazione sta nel fatto che la loro responsabilità è circoscritta al solo fatto di “non averlo impedito”, ma non può essere estesa al di là di questo. Nel corso di una pubblica udienza all’Aja il presidente della massima istanza Onu, il magistrato e diplomatico slovacco Peter Tomka, ha osservato che le rispettive forze commisero sicuramente atrocità nei territori da esse occupati, ma “solo in alcuni degli episodi esaminati sono stati riscontrati gli estremi del genocidio, non in tutti”. Inoltre, per poter formalizzare un’accusa di quel tipo a giudizio della Corte “è necessario il proposito deliberato di eliminare un determinato gruppo etnico, sul piano fisico ovvero psicologico”: nessuna delle due parti è tuttavia stata in grado di fornire “prove sufficiente” a sostegno delle proprie asserzioni incrociate.”
Nel caso in specie secondo “gli avvocati croati, fra il 1991 e il 1995 morirono 10mila cittadini croati, altri 7000 furono incarcerati in campi di concentramento. Nel 2010 la Serbia ha accusato i croati di avere assassinato 7mila suoi concittadini: durante un’operazione guidata dal generale Ante Gotovina ci furono 2mila desaparecidos serbi e circa 230mila persone dovettero fare i conti con l’avanzata croata.”
Non si vuole mettere in discussione la formulazione del termine genocidio coniato dal giurista polacco R. Lemkin nel 1944 e pubblicamente usato nel corso del processo di Norimberga (1946) ma quando ci sono di mezzo dei morti, migliaia di morti, è sempre meglio andare con i “piedi di piombo” e misurare bene le parole sapendo che non si riuscirà, comunque, a soddisfare le aspettative di tutti.
Siamo curiosi di sapere se usare il termine massacro di migliaia di persone (bambini, donne, anziani inclusi) abbia lo stesso valore intrinseco del dire genocidio perché c’è il rischio, a nostro parere, che i primi abbiano un disconoscimento di quanto subito e che i secondi, invece, siano stati, semplicemente, l’avvio (calcolato e pianificato “da menti raffinatissime”) di quelli che sono diventati i “nuovi” conflitti denominati “guerre di religione”.
La sperimentazione, da parte dei poteri forti imperialistici, di intervenire nei Balcani, attraverso i suoi militari (NATO in primis), ha ridisegnato più volte la geografia dei luoghi. Infatti, l’intervento nei Balcani era partito illudendo e finanziando nazionalisti, irredentisti, separatisti, fanatici psicopatici compulsivi di ogni sorta, ecc. pur di piantare la bandierina di conquista di nuovi territori di cui fare “buon uso pro domo proprio” (imperialista) come si dimostrò in quelle aree.
L’Italia, nel dimostrarsi “codino” dell’imperialismo, nel frattempo (e disattendendo ogni articolo della Costituzione riguardo la guerra), era pronta, non solo a prestare sostegno con le basi militari straniere NATO ad ulteriori interventi in quell’area ma, addirittura, a riconoscere per voce dell’allora Presidente della Repubblica Cossiga i croati Tudjma e Kucan… E così facendo produsse ulteriori attriti tra il potere statuale e quello federale dell’ex Jugoslavia.
Senza contare che sul territorio della ex-Jugoslavia “l’intervento della NATO non svolse un effetto deterrente nei confronti delle azioni di pulizia etnica delle forze militari e paramilitari serbe; al contrario, incoraggiò una repressione sistematica e centinaia di migliaia di abitanti del K. furono spinti in Albania e Macedonia, provocando una destabilizzazione anche in questi paesi. All’inizio di giugno Belgrado accettò il piano di pace proposto dai paesi del G8, cui seguì l’elaborazione della Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che segnò la fine dei bombardamenti della NATO sulla Iugoslavia e stabilì la sovranità e l’integrità territoriale del paese, all’interno del quale si prevedeva l’autonomia del Kosovo. Il 10 giugno la Iugoslavia avviò il ritiro delle proprie truppe. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ratificò la proposta di pace negoziata e negli stessi giorni le truppe internazionali, sotto comando NATO, cominciarono a entrare in Kosovo. Gli scontri fra militari serbi e militari della NATO, e fra militanti dell’UÇK e forze serbe, comunque, non cessarono. La comunità internazionale intanto proseguiva gli sforzi per tentare di risolvere la situazione nei Balcani, e oltre 40 capi di Stato e di governo si incontrarono, alla fine di luglio, a Sarajevo, per discutere il Patto di stabilità dei Balcani. In questa occasione furono stanziati circa 2,2 miliardi di dollari per la ricostruzione in Bosnia ed Erzegovina e in K., risorse destinate anche a Bulgaria, Romania e Macedonia, per aiutarle a superare l’impatto della crisi del K. sulla loro economia. Intanto l’amministrazione ONU in K. era alle prese con la smilitarizzazione dell’UÇK e la sua trasformazione – ostacolata dai membri dell’UÇK, che volevano comparisse nella definizione il termine esercito – in un Kosovo Protection Corps: un corpo civile del K. per missioni umanitarie come le operazioni antincendio e le operazioni di salvataggio, da creare entro il mese di settembre. Fra la fine di settembre e l’inizio di ottobre le dichiarazioni di alcuni membri degli alti apparati USA sembravano presagire un cambiamento nella linea politica statunitense tendente a sostenere l’indipendenza del Kosovo. Una simile soluzione, non contemplata nella Risoluzione 1244, trovava contrari gli Europei, preoccupati che l’indipendenza del K. potesse scatenare un effetto domino, aprendo le porte a una Grande Albania, a una guerra separatista in Macedonia, alla frammentazione della Bosnia ed Erzegovina, alla formazione della Grande Croazia e della Grande Serbia” sostiene sull’enciclopedia Treccani, Lucia Betti.
La “scelta” belligerante contro la ex-Jugoslavia ha rovinato la secolare cultura interreligiosa (sin dal 1400) e di accoglienza che avevano contraddistinto le popolazioni dei Balcani.
Gli accordi di Dayton (novembre-dicembre 1995) facevano cessare sì tre anni e mezzo di guerra in Bosnia ma crearono una struttura statale che non trova corrispondenti in nessun altro sistema nel mondo. La Bosnia Erzegovina, che non può attribuirsi il titolo di Repubblica, e’ costituita da due entità: la Federazione BH (croato musulmana), 51% del territorio, e la ‘Republika Srpska’ (RS,serba), 49% del territorio.
Gli interessi dell’imperialismo “costrinsero” molti politici locali (o meno) a sottomettersi all’ombrello “protettivo” del loro apparato militare (NATO) e furono altrettanti coloro i quali non si fecero scrupolo a fare gli gnorri rispetto all’articolo 11 della nostra Costituzione la quale bandisce la guerra “…come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali…”.
Coincidenza (?) vuole che taluni politici furono gli stessi protagonisti della distruzione dell’ex PCI.
Quello stesso PCI che, finché in vita, denunciò all’opinione pubblica le sbandate militarizzanti e/o guerrafondaie o, peggio ancora, i progetti di instabilità statuali e oligarchici.
Bisogna essere capaci di riproporre un progetto comune che ridia fiato a politiche distensive di cooperazione, che contrastino l’escalation bellicista e che ci indirizzino verso un’autentica pace basata sul concetto di unione e solidarietà degli oppressi contro la vera artefice delle guerre: la borghesia, l’unica vera responsabile e protagonista delle morti di tanti innocenti nel mondo anche tra gli stessi militari.