di MOWA
“Non c’è tirannia peggiore di quella esercitata all’ombra della legge e sotto il calore della giustizia” (Montesquieu)
Da pochi giorni è uscito uno dei film del regista Aaron Sorkin dal titolo: Il processo ai Chicago 7, un film di quelli che, un tempo, potevano essere chiamati impegnati, quelli che vedevi solo nei circuiti d’essai, in quanto mette in risalto gli aspetti controversi di un processo giudiziario avvenuto nel 1968 intentato contro persone appartenenti a movimenti che contestavano la sanguinosa e inutile Guerra in Vietnam perpetrata dagli USA, che tutto aveva fuorchè essere uno stato democratico (ed è rimasto così) ma che rispecchiava e rispecchia un sistema di potere fortemente oppressivo rispetto ai propri abitanti.
Una dinamica cinematografica che analizza, in buona parte del girato, nei dettagli le storture e le arbitrarietà del sistema giudiziario statunitense e che mette lo spettatore tra l’agitazione del fatto che poteva e potrebbe succedere a chiunque e la rabbia che nessuno sollevi…, con la giusta quantità di indignazione, tanto da chiedere la rivisitazione delle regole processuali prima che si condannino degli innocenti (come avvenne, realmente e riprodotto nel film, ad Abbie Hoffman e Jerry Rubin dello Youth International Party – movimento Yippies -, all’attivista pacifista David Dellinger, all’attivista per i diritti civili e anti-guerra Tom Hayden, altri due attivisti contro la guerra Rennie Davis e John Froines e Lee Weiner).
Una giustizia statunitense che, pochi mesi orsono, veniva, giustamente, apostrofata in un programma televisivo dal magistrato Nicola Gratteri come paese pericoloso da viverci e “…quanta gente innocente muore sulla sedia elettrica negli Usa…”.
Un film, si diceva, che porta alla ribalta quanto sia pericoloso negli USA, nonostante la Costituzione, esercitare il diritto di parola perché i meccanismi coercitivi sono indifferenti alle regole scritte sul marmo dai padri costituenti.
Una pellicola cinematografica, però, che recupera, in parte (alla fine), quel sistema nel suo complesso perchè alcuni dei contestatori riescono ad avere “giustizia” in appello o prendono carriere politiche, dimostrando, così, la correttezza dell’impianto politico-giudiziario… Anche se questo avviene in seconda battuta ed evidenzia, anche, le strane morti dei protagonisti.
Cosa interessante da rilevare nel film è come la politica massocapitalistica abbia inciso su quel sistema e abbia brigato per portare, dalla sua parte (con sue regole!), un Paese intero attraverso l’impianto di subordinazione della magistratura ai politici di turno, invece, di averli come potere a sé stante, come terzietà a garanzia dei giudizi conclusivi.
Un sistema politico che si basa su regole e principi molto massonici da impedire (de facto) le libertà delle persone che, magari, vorrebbero più opportunità di contare sulle scelte politiche e che, invece…
Un Paese (gli USA) che, della deprivazione delle libertà, è il numero uno, nonostante, ipocritamente, critichi gli altri Stati e si erga a vessillo di integrità, mentre, invece, è tanto marcio, come dimostrato nel film, e quanto siano corrotte le sue forze di polizia, quale ruolo provocatorio avessero costoro per indurre a commettere reati.
Un sistema massocapitalistico che si è fatto su misura slogan di democraticità tanto “perfetti” da diffondere nel Mondo per rimbecillire e convincere gli ignoranti mentre, invece (e il film dimostra molto bene), quanto ne sia l’esatto opposto penalizzando la vita (sociale e personale) di chi voleva, semplicemente, far osservare che si mandavano al fronte a morire soldati dello stesso paese, in terre straniere, per gli interessi di una manciata di capitalisti e quanto, tutto ciò, fosse molto ingiusto e inopportuno.
Un sistema giudiziario iniquo come lo è, d’altronde, l’impianto politico complessivo che discrimina, ancor oggi, non solo per i diritti sociali e economici ma anche per il solo colore della pelle.