di MOWA
«Abbiamo cercato di provvedere meglio ai bisogni dei poveri, e abbiamo invece accresciuto il numero dei poveri. Abbiamo cercato di rimuovere le barriere che impedivano l’emancipazione dalla povertà e, senza volerlo, abbiamo costruito una trappola.»
(Charles Murray, Losing Ground: American Social Policy 1950-1980. Basic Books 1984, pag. 9)
Sono passati decenni da quelle che furono scelte atroci, compiute da un potere antidemocratico che aveva fatto stragi, anche in Italia, non perdendo la forza ed il desiderio di instaurare un’autarchia che penalizzasse le ormai residuali energie di un mondo lavorativo ispirato ad un paradigma socialista; un mondo ideale solidaristico “evaporato” per colpa del lavorio sotterraneo di quelle intellettualità che hanno fatto, nel tempo, da “teste di ponte” (beachheands) di quei think tanks che propugnavano e propugnano una visione conservatrice.
Innumerevoli, infatti, sono le risorse spese in tale direzione volte a costruire questi think tanks agevolate, anche, da fondazioni come Olin, Volcker, Bradley, Heritage… , che hanno fruito di molti privilegi e formano il capitalismo USA (es. Philip Morris, Mobil Oil, Union Pacific, Chevron, Chase Manhattan Bank, Dow Chemical…) le quali hanno “agevolato” l’ascesa di presidenti molto conservatori come Donald Trump. Un eloquente slogan d’apertura sul sito della Fondazione Heritage, comparso il 3 luglio 2020, così recitava: “La Nazione sotto attacco – Cosa dobbiamo fare per fermare il programma socialista della sinistra.” [1]
Un “prodotto” di società desiderato da questi conservatori basato sui soprusi e/o l’abolizione di risorse pubbliche (Stato) verso gli ultimi che si traduce in eliminazione dei sovvenzionamenti a sanità, istruzione, walfare generale considerato uno spreco economico. Una sorta di fobia verso le cose positive promosse dallo Stato, una sorta di altra fede che vuole liberare dai “superflui” esseri umani per dar vita ad un neoliberismo divinizzato; forma economica, tra l’altro, abbracciata dal dittatore cileno Augusto Pinochet ed elogiata nella sua visita da Margaret Thatcher come riportato nell’intervista a El Mercurio, il 12 aprile 1981: «Personalmente, preferisco un dittatore liberale [qui inteso come “liberista”] a un governo democratico che manca di liberalismo». [2]
Un modello neoliberista conservatore che abbraccia dalle dittature fasciste, come quella di Pinochet, sino alle monarchie britanniche dando a ben capire quale sia l’effetto per il mondo del lavoro e le repubbliche democratiche. Un neoliberismo voluto e sostenuto dai massoni della P2 come Licio Gelli, che dichiarerà (minuti – 25.34) in una programma televisivo sulla strage alla Stazione ferroviaria di Bologna, del 2 agosto 1980: “Io sono stato e sono un fascista e, quindi, d’altra parte la democrazia non mi sta bene” dando ben ad intendere cosa e come vogliano esprimere il concetto di potere visto che avevano sostenitori comuni come la CIA statunitense.
Un paradigma di società che ha usato metodi violentissimi e crudeli verso chi svolgeva le indagini o voleva, semplicemente, testimoniare il modus operandi come avvenuto alla ex moglie di un terrorista tra i responsabili della strage al treno Italicus, Alessandra De Bellis.
Se negli anni ’70 in Italia cambiò molto l’assetto politico verso un maggior coinvolgimento della classe operaia con i Consigli di fabbrica è stato anche grazie al contributo di partiti come il P.C.I. (a direzione di Enrico Berlinguer), che sostennero la caduta dei paesi reazionari come il Portogallo, finanziatore e rifugio di fascisti che avevano infiammato le piazze con stragi ed omicidi selettivi. Oggi, ci troviamo ad una riproposizione in Europa di rigurgiti reazionari con una difficoltà in più: non esiste un soggetto politico della stessa entità. Infatti, si riscontra una certa analogia con allora, dimostrazione ne è l’aumento delle formazioni fasciste europee avvenuto dopo il colpo di stato in Ucraina con (guarda il caso), sempre, l’appoggio USA.
NOTE
[1] pag. 26 del libro di Marco D’Eramo – La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, ed. Feltrinelli
[2] ivi pag. 36
Foto di Bill Oxford