di Alberto Prunetti
Non guardo quasi mai la televisione e ci ho messo almeno un giorno per vedere il finto duello, con colpi telefonati, tra Porro e Farinetti, con l’irruzione – questa vera e tagliente – di Marta Fana, ricercatrice di economia a Scienze politiche a Parigi, che affonda accuse al padrone di Eataly. Accuse già comparse su libri, articoli e volantini sindacali, ma che nessuno aveva avuto il coraggio di scagliargli contro in diretta televisiva: sottomansionamenti, formazione pagata dai fondi europei e altre furbate a tutele decrescenti.
Com’è andata potete vederlo qui sotto. Porro ha dovuto ammettere che in realtà di fronte a una critica vera tocca prendere le parti di Farinetti mentre la conduttrice dava l’impressione di voler arginare un torrente che rifiutava di stare nelle briglie di contenimento.
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E poi il miracolo: mentre Marta parla, il sorriso di Farinetti si spenge. Il sorriso hungry and foolish si irrigidisce in una smorfia e gli occhi del padrone si fanno piccoli. Farinetti capisce che stavolta non c’è il solito tappeto rosso steso dalla Langa fino allo studio televisivo. E non trova altra via d’uscita che la minaccia, l’uso della querela per imbavagliare l’incauta ricercatrice che continua a snocciolare cifre e fatti. Cifre che parlano di diritti violati, di tutele ridotte, di operai sfruttati.
Il sorriso di Farinetti è d’ordinanza. È il sorriso del nuovo ricco, del padrone. È un po’ come il sorriso del self made man d’un tempo. Una dentatura che mi aveva già colpito, ingrandita quasi a sgranarsi, quando l’avevo vista sulla copertina de La danza delle mozzarelle, il saggio di Wolf Bukowski che passava sotto il rasoio della critica il progetto di Eataly: dietro allo storytelling renziano l’innovazione celava la valorizzazione di una merce per una nicchia di ricchi, a scapito dello sfruttamento di una classe di poveri. Poveri costretti a lavorare con tutele sempre più decrescenti nelle boutique del cibo, dove i denti del padrone manducano diritti. Diritti operai che si deterioravano con la stessa velocità di una crudité lasciata a languire sotto il sole spietato di ferragosto. In quel libro di Bukowski, le accuse di Marta Fana erano già state illustrate con dovizia di particolari. E nessuno degli avvocati di Farinetti si era mai fatto vivo per querelare.
Solo che i libri li legge poca gente. A togliere il sorriso di dosso al padrone, serviva qualcuno capace di fissarlo in televisione. Un bagno di realtà che a Farinetti non deve aver fatto piacere. Sempre più nervoso, si è rivolto a Marta Fana con modi paternalisti e autoritari (signorina, non ricordo il nome ecc.) mentre la ricercatrice replicava, candidamente, dicendo: «Io non ho niente.»
Qui Marta si sbaglia. Marta Fana e tutti quelli come lei, costretti ad andarsene da un paese che negli ultimi lustri ha distrutto lavori veri per sostituirli con lavoretti pagati col voucher dal tabaccaio, hanno ancora qualcosa da perdere. Hanno un sorriso sincero, che è la speranza di un mondo dove lavorare senza essere sfruttati o irrisi dal padrone di turno. Che al solito è un maschio che usa la propria autorità contro una giovane donna. «Una signorina», dice lui.
Ma il sorriso di Marta non è quello di Farinetti e del ceto imprenditoriale italiano da Briatore in avanti, non è lo strato artificiale di smalto che copre lo sfruttamento con lo storytelling abbagliante dell’innovazione. Non è il molare che macina le vite degli operai. Quel sorriso è bello come il movimento che abolisce lo stato di cose presenti. E nel video quel sorriso buca la cortina di minacce di querele di Farinetti.
A quel punto il programma si è risolto mettendo a nudo i veri rapporti di forza: dietro al paravento ideologico Porro e Farinetti vanno d’accordo come il gatto e la volpe. Porro usa la metafora dei soldi che non si trovano sugli alberi, già cara a Theresa May. Certo, i soldi non si trovano sugli alberi, si trovano nelle tasche dei ricchi, che li accumulano sottraendoli a ogni ora lavorata da dipendenti sottopagati e sfruttati. Mai vista tanta sincerità in tv.
Questa pagina della televisione italiana rimarrà, perché mette a nudo le contraddizioni dei nostri giorni che la fuffa dell’innovazione renziana aveva mascherato. E dietro il duello truccato e l’affabulazione dell’imprenditore simpatico e alla mano, ci fa vedere l’autoritarismo piccato del ceto padronale nell’epoca delle camicie bianche e dei collegamenti dalla Langa. Il capitale è sempre quello, non importa quale cipria usi. Marta Fana ha messo a nudo il re e gli ha tolto la maschera e il sorriso.
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Non saranno invece le querele a togliere il sorriso a Marta. Il suo sorriso è un contrabbasso che spara sulla faccia del potere la contraddizione sociale. E più Farinetti aggrediva Marta, facendo finta di non sapere il suo nome e dandole paternalisticamente della signorina, come forse fa con i “suoi” operai, più le persone, i lavoratori sfruttati, i precari si riflettevano nello sguardo e nel sorriso di Marta. Più Farinetti perdeva le staffe, evitando di entrare nel merito delle accuse e usando la minaccia della querela come una museruola, più quelle accuse passavano di bocca in bocca, in un pubblico inorridito dall’arroganza padronale.
Lo spettacolo è finito e lo storytelling pure. Il duello era truccato e il re ormai è nudo.
Adesso sappiamo cosa mangiamo. Chiediamo il pane e le rose, i diritti sul lavoro e il sorriso della lotta.
Perché delle due l’una: o sorride Marta o ride Farinetti.
Se sorride la classe lavoratrice, si spenge il riso sulla bocca del padrone.
Alla fine la lotta di classe è tutta qui. E per farla ripartire, a volte basta un sorriso.