Una crisi pesantissima che covava da tempo a cui l’Europa sta reagendo in ritardo e seguendo vecchie ricette che non aiuteranno né la ripresa economica né la classe lavoratrice.
di Alessandro Bartoloni
Per capire la crisi economica che sta dietro la crisi sanitaria abbiamo intervistato Domenico Moro, economista e ricercatore presso l’Istituto Nazionale di Statistica.
Domanda. Ciao Domenico, innanzitutto grazie per questa intervista. Allora, come alcuni hanno sottolineato la pandemia da Coronavirus ha messo in luce le fragilità del sistema economico capitalistico e fatto scoppiare una crisi già pronta a esplodere. Per quanto sia difficile fare previsioni, come giudichi i mesi che verranno: siamo di fronte ad uno scenario a V, con una forte crisi e una rapida risalita, oppure dovremo fare i conti con una crisi lunga e difficile?
Risposta. Credo che sia da escludere una evoluzione economica a V, con una rapida discesa seguita immediatamente da una altrettanto rapida ripresa. È molto più probabile che ci troveremo davanti a una crisi lunga e soprattutto profonda. A livello mondiale, dopo la Seconda guerra mondiale, solo nel 2009 si registrò un decremento del PIL, pari al -1,28%, oggi si prevede un decremento per il 2020, secondo alcune banche internazionali tra il -2,3 e il -2,6%. In Italia sono ferme almeno il 60% delle attività produttive, il che significa perdere 10-15 miliardi di Pil a settimana. Il centro studi della Confindustria prevede un calo del Pil in Italia, sempre nel 2020, del -6%, ma solo a patto che la fase acuta dell’emergenza termini a maggio con la riapertura del 90% delle attività.
La crisi che si prospetta è molto grave, perché non riguarda solo la domanda ma anche l’offerta. Molte imprese staranno ferme, senza produrre, per mesi. Ciò vuol dire rimanere senza liquidità. Sarà, quindi, molto difficile per molte di queste imprese riprendere l’attività, saldando i debiti pregressi, e trovando gli investimenti per ripartire. Pensiamo solo al turismo, che riguarda il 13% del Pil e conta quasi un milione di addetti, e che è molto difficile possa riprendere a girare a pieno ritmo in pochi mesi. In particolare, pensiamo a settori come quello dei vettori aerei, tra i quali molti erano già in difficoltà prima della crisi (ad esempio l’Alitalia), e al settore crocieristico. Senza contare l’impatto sui produttori di aerei e navi.
Insomma la crisi interesserà, per un tempo che probabilmente sarà abbastanza lungo, intere filiere economiche. Inoltre, non va dimenticato che l’economia mondiale era già in decelerazione. In particolare, l’industria tedesca era rallentata significativamente già nel 2019. L’Italia, dal suo canto, ancora sconta gli effetti dell’ultima crisi, non essendo ancora ritornata ai livelli di Pil reale del 2007. Il commercio mondiale, inoltre, ha ridotto negli ultimi anni la sua crescita, passando dal 3,7% del 2018 all’1% del 2019, e risentendo anche di un forte aumento delle pratiche protezionistiche, come ho personalmente documentato nell’ultimo rapporto sulla Competitività dei settori dell’Istat [1]. Ora, con la crisi da Covid-19 è inevitabile una ulteriore contrazione degli scambi mondiali soprattutto di beni ma anche di servizi (specialmente i trasporti e il turismo), che peserà soprattutto su economie come quella italiana, che negli ultimi anni si era basata soprattutto sulle esportazioni di beni manifatturieri, raggiungendo surplus commerciali considerevoli, e sul turismo. Si prevede anche per quest’anno un surplus commerciale in Italia, ma soltanto perché le importazioni e i prezzi del petrolio sono crollati.
La pandemia, quindi, contribuisce a realizzare una sorta di “tempesta perfetta”, che rischia di trascinare l’economia mondiale in una recessione simile a quella del ’29, anche perché oggi, a differenza del 2009, la Cina, colpita per prima nella sue attività economiche dal nuovo Coronavirus, non può svolgere lo stesso ruolo di traino rispetto alle economie avanzate che svolse allora.
D. – Uno scenario pericolosissimo. Ma se l’azione del governo italiano è stata tardiva e contraddittoria per rispondere alla crisi sanitaria come giudichi i provvedimenti economici messi in campo?
R. – I provvedimenti messi in campo sono insufficienti. I primi stanziamenti italiani sono stati di appena 25 miliardi. Invece, la Germania ha varato una prima tranche di interventi per 156 miliardi di nuovo debito pubblico pari al 4,5% del Pil e garanzie pubbliche per 800 miliardi in aggiunta ai 400 già disponibili attraverso la KfW (Kreditanstalt für Wiederaufbau), il corrispettivo della Cassa depositi e prestiti italiana. Successivamente, negli ultimi giorni, il governo italiano si è impegnato per una spesa a favore delle imprese di 400 miliardi. Non si tratta però di un vero stanziamento di risorse, bensì della stima limite di prestiti che Il sistema bancario può attivare con la garanzia statale. Lo Stato italiano, comunque, dipende dalle decisioni delle istituzioni europee, all’interno della quali, però, non si sono ancora raggiunti accordi tali che permettano all’Italia di sostenere una entità di spesa così elevata come servirebbe.
Il punto è sempre il solito: manca un prestatore di ultima istanza, che garantisca acquisti senza limiti dei titoli di stato italiani, contenendo l’aumento dei tassi interesse. L’Italia ha un debito al 135% del Pil e paga interessi più alti rispetto a quelli tedeschi e olandesi che hanno un debito tra il 50 e 60% del Pil. Quindi, per fare più spesa pubblica bisogna emettere titoli di debito, aumentando il debito in percentuale del Pil. Si prevede a tal proposito che il debito italiano possa salire al 150% del Pil. In questo modo, in mancanza di un prestatore di ultima istanza, c’è il rischio concreto che lo spread tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi aumenti e con esso la spesa per interessi, che rischia di creare problemi di sostenibilità del debito.
D. – La dimensione della crisi e l’inettitudine del governo hanno reso indispensabili aiuti provenienti da Cina, Cuba, Vietnam, Russia e Albania. Stati Uniti ed Unione Europea si sono mossi in ritardo e non sembrano molto solidali, né dal punto di vista sanitario né dal punto di vista economico. Quali sono le risposte europee alla crisi e come le giudichi? Che ne pensi della proposta di Mario Draghi e come si inserisce all’interno dello scontro inter-imperialistico tra le maggiori potenze continentali?
R. – Le risposte economiche europee alla crisi sono al momento ancora deboli. L’iniziativa più importante al momento è il programma, per la verità limitato, di acquisti di titoli di Stato da parte della Bce, il Peep (Pandemic Emergency Purchase Programme). Il bilancio dell’Unione votato recentemente dall’Eurogruppo è appena pari all’1% del Pil dell’intera Unione. La prima riunione del Consiglio europeo si è risolta con un nulla di fatto. Anzi, si è prodotta una netta spaccatura tra Paesi come l’Italia, la Spagna e la Francia che vogliono l’emissione di corona-bonds, cioè di titoli garantiti, a livello europeo, dalla Bce con acquisti illimitati per far fronte alla crisi, e chi, come l’Olanda e la Germania, rifiuta l’emissione di titoli di debito comuni e fa invece affidamento al Mes, il Meccanismo Europeo di Stabilità, che non ha risorse sufficienti e pone pesanti condizionalità al paese che vi dovesse ricorrere per avere prestiti. Il punto è che una parte dell’Europa rimane ferma al paradigma neoliberista, basato su politiche di austerity e di contenimento del debito. Si tratta di un paradigma che è ormai superato dagli avvenimenti.
L’articolo di Draghi sul Financial Times dimostra che, da parte di settori importanti del capitale internazionale, c’è la consapevolezza che il sistema capitalistico è sull’orlo di una crisi gravissima e che occorre modificare il paradigma neoliberista, permettendo agli Stati di aumentare il proprio debito. Tuttavia, la spaccatura in due fronti dell’area euro sembra perdurare anche negli ultimi giorni. Infatti, la decisione finale sulla proposta di mediazione tra oppositori e fautori dei coronabonds avanzata da Parigi, il Recovery fund finanziato con non meglio precisati “strumenti finanziari innovativi” in linea con i Trattati, è rimandata al prossimo Consiglio europeo, l’incontro dei capi di governo della Ue. Ma soprattutto lo strumento in questione appare limitato: nel progetto di Parigi può contare su soli 500 miliardi e soprattutto sarebbe temporaneo, mirato e proporzionale esclusivamente ai costi straordinari della pandemia. In sintesi possiamo dire che l’Europa dimostra ancora una volta di essere molto lontana dall’essere un’entità di Stati che cooperano, mostrando invece di essere una unità concorrenziale di capitali e di Stati. È, infatti, evidente il manifestarsi di uno scontro tra le frazioni nazionali del capitale europeo e quindi tra gli Stati imperialisti che le sostengono. La proposta di Draghi si inserisce in questo scontro, perché senza il sostegno indiretto proveniente dalla posizione presa da Draghi sarebbe stato poco probabile che Conte e Sanchez avessero lasciato la prima riunione del Consiglio d’Europa senza firmare il documento finale e continuino a tenere il punto sul Mes. Tuttavia, il problema di Draghi non è tanto quello di sostenere l’Italia quanto la volontà di salvare la costruzione europea e l’euro in particolare.
D. – Nel repertorio della borghesia troviamo tre tipologie di interventi per salvare il capitalismo da se stesso: il ricorso alla politica monetaria, dall’abbassamento dei tassi di interesse fino al quantitative easing, il ricorso alla politica fiscale, vale a dire il finanziamento degli investimenti ricorrendo al debito pubblico, ed il ricorso alle riforme strutturali per socializzare le perdite nazionalizzando le aziende in crisi e bonificarle coi soldi dei contribuenti a danno dei lavoratori. Anche la proposta di Draghi di azzerare il debito privato ricorrendo all’indebitamento pubblico tenderebbe, nel quadro delle regole europee, a rendere insostenibile quest’ultimo. Pensi che sia questo repertorio sufficiente per affrontare questa crisi o servirebbe altro?
Come ho detto sopra, senza risolvere la questione del prestatore di ultima istanza è molto difficile che il capitale europeo, soprattutto quello di Paesi come l’Italia, possa affrontare la crisi con efficacia. Detto questo, le misure elencate aiuterebbero il capitale e più probabilmente aiuterebbero una parte del capitale, quello più grande e internazionalizzato, magari a portare avanti un processo di centralizzazioni proprietarie, attraverso acquisizioni delle imprese più deboli. Ben difficilmente potranno aiutare la massa di lavoratori che si ritroverà disoccupata e con una capacità negoziale indebolita. Più in generale ci sarebbe bisogno che lo Stato non si limitasse a fornire liquidità e a fare qualche nazionalizzazione, magari solo temporanea, o a investire in programmi infrastrutturali. Oggi, il problema non è rappresentato solamente dalla carenza della domanda ma dalla impossibilità di garantire una adeguata produzione.
Quindi, in primo luogo, lo stato dovrebbe entrare direttamente nella produzione di beni e servizi, anche in settori dove ci sono i privati. Ma soprattutto, per risolvere la crisi strutturale che si prospetta, ci sarebbe bisogno di una pianificazione dell’economia e, più precisamente, di una produzione sociale. È, però, del tutto evidente che questo è impossibile in una economia basata su rapporti di produzione privati capitalistici e richiede, quindi, ben più che il cambiamento del paradigma neoliberista. Richiede il ribaltamento del paradigma capitalista in sé stesso. Malgrado la pianificazione e una economia sociale non siano certamente all’ordine del giorno, in termini di rapporti di forza esistenti tra lavoro salariato e capitale, esse sono esattamente il tema posto, sul piano storico, dalla situazione attuale, che dimostra l’inadeguatezza del modo di produzione capitalistico a soddisfare i bisogni sociali, anche quelli più elementari, come la sicurezza sanitaria. Non basta, quindi, Keynes, ci vuole Marx.
D. – Un’ultima domanda. Il nostro collettivo è impegnato nell’elaborazione di un programma minimo di fase che risponda alla domanda su cosa è necessario e possibile fare in questo momento per evitare che a pagare il prezzo della crisi siano i lavoratori. Che cosa ne pensi?
R. – Mi sembra un insieme articolato di proposte interessanti, che possono essere usate come base di discussione per un programma di fase condiviso dalle variegate forze che stanno cercando di ricostruire una presenza antagonista al capitale nel nostro Paese.
Note
[1] Rapporto sulla competitività dei settori produttivi 2020 pp.31-33.
11/04/2020