Non abbiamo mai sentito la voce del leader Dc sequestrato perché Prospero Gallinari ha detto di aver distrutto a Moiano nel dicembre 1978 i nastri degli interrogatori. La ricostruzione 40 anni dopo
di Enzo Beretta
Una verità delle Brigate rosse vuole che tra il novembre e il dicembre del 1978 Prospero Gallinari abbia bruciato i manoscritti di Aldo Moro durante una riunione nella base di Moiano a pochi chilometri da Perugia. Tutto distrutto: le lettere mai recapitate, il ‘memoriale’ scritto dall’onorevole della Democrazia cristiana durante il sequestro, le bobine degli interrogatori. Gallinari minimizzò: le ragioni sarebbero state legate alla volontà di distruggere i rumori e le voci in qualche modo ricollegabili alle persone e ai luoghi incriminati.
Un mistero lungo 40 anni La tesi della distruzione di quegli originali, però, esternata durante un’intervista con L’Espresso soltanto nel 1990 (poco dopo il ritrovamento delle carte in via Monte Nevoso) da uno dei principali responsabili della gestione della prigionia di Moro non ha mai convinto fino in fondo. Sono trascorsi quarant’anni e non si sa nulla su che fine abbiano fatto gli originali delle carte di Moro.
Il casolare tra Città della Pieve e Castiglione del lago Le parole di Gallinari, la cui storia politica è strettamente legata alla vicenda del sequestro Moro, sono state smentite a più riprese da coloro che si trovavano a quella riunione. In uno dei processi Adriana Faranda ha dichiarato di non ricordare che in quell’occasione nel casolare tra Città della Pieve e Castiglione del lago nel quale si svolgevano le riunioni della direzione di colonna il compagno Gallinari avesse bruciato carte.
Il notiziario Ansa dell’epoca Valerio Morucci, invece, esclude la distruzione di «manoscritti, videotape, nastri di registrazione o altri documenti in originale» parlando del rogo di documenti di secondaria importanza come ad esempio la patente del leader democristiano. «Secondo Prospero Gallinari – scriveva l’Ansa nel notiziario del 27 ottobre 1990 – quelle carte vennero bruciate a Moiano (Perugia), versione che però il dissociato Valerio Morucci avrebbe contestato o comunque messo in dubbio durante una recente deposizione resa ai magistrati romani». Un altro brigatista, Antonio Savasta, aveva già parlato della riunione di Moiano alla quale parteciparono anche Gallinari, Morucci, Faranda, Seghetti, Balzarani e Piccioni: «In quell’occasione – scriveva l’Ansa il 4 maggio 1982 – Gallinari bruciò un fascio di documenti riguardanti il caso Moro. Savasta non sa dire quale fosse il contenuto di quelle carte. Sa solo che c’era tra l’altro la patente dell’onorevole Moro».
La relazione dei servizi segreti La versione del rogo di Moiano registra un’ulteriore punto di contestazione in una relazione del Sisde datata novembre 1979. Il servizio segreto interno, oggi Aisi, riportava una lunga quanto disturbata intercettazione di due brigatisti (non identificati ma, almeno uno, di «alto livello terroristico») che nel corso di un’animata discussione sulle condizioni di prigionia di Moro, affermavano che l’onorevole scriveva «un casino» e che in un secondo momento «altri compagni» erano intervenuti per condurre l’interrogatorio impossessandosi di «tutti gli originali dei nastri».
Tre ragioni per smentire Gallinari Stando alla ricostruzione dei fatti di Miguel Gotor, Lettere dalla prigionia, sono almeno tre le ragioni per smentire Gallinari a proposito della distruzione degli originali: 1) Antonio Savasta, testimone oculare dell’episodio, interrogato nel maggio dell’82, precisò di aver visto bruciare la patente di Moro con una «trentina di fogli separati dattiloscritti» escludendo carte «con la calligrafia di Moro»; 2) sul piano politio le date renderebbero inomprensibile il gesto; 3) i presunti depistaggi delle Br a proposito della sorte degli originali.
La voce di Moro forse spenta nel rogo di Moiano «Al di là della questione storica – spiega Roberto Contu, Dottore di Ricerca in Italianistica e Letterature comparate all’Università degli Studi di Perugia – restano il portato simbolico e la riflessione sull’impatto che avrebbe potuto avere nell’immaginario collettivo, nella vicenda storica e in quella giudiziaria, la testimonianza fisica e pubblica della voce di Moro prigioniero. Già Umberto Eco nel 1978, nel silenzio generale imbarazzato degli intellettuali – prosegue il professore perugino – propose analisi poco capite allora, che partivano dalla lettura del linguaggio dei comunicati e del portato simbolico delle foto dalla prigione del popolo. Perché il sequestro Moro, evento spartiacque della storia italiana, è evento anzitutto simbolico specie dal lato della ricezione collettiva, vissuto di simboli e risonante di simboli nella loro potenziale o avvenuta propagazione pubblica. Quella voce – conclude Contu – forse definitamente spenta nel rogo di Moiano, o forse ancora presente e nascosta da qualche parte, resta parte determinante di un quadro ancora oggi colpevolmente mutilo».
24 DICEMBRE 2018