Racconti di esperienze e testimonianze dirette di un vissuto di vita collettiva.
IL P.C.I. TRA STORIA E PROSPETTIVA POLITICA
Testo della registrazione dell’intervento orale del Prof. Salvatore D’Albergo dell’Università di Pisa, Presidente dell’Istituto Giuridico “Santi Romano”
PRESENTAZIONE DEL LIBRO
Racconti e testimonianze di 64 comunisti
Del Gennaio 1989
Indice
Il centrismo: una fase difensiva
La fase del Centro-sinistra.
Inizio di una divisione nel P.C.I. e rilancio della battaglia negli anni 60-70
La duplice lettura della “solidarietà nazionale”
Il dissenso sul “governo delle astensioni”, e il ricambio dei gruppi dirigenti
nella Federazione Provinciale del PCI
La fase successiva al governo delle astensioni. Caratteristiche e cose riproposte da Occhetto ma già pensate dal fascismo. La messa in discussione della parità tra Camera e Senato che è la più importante conquista della Costituente.
L’indice, ci pare, evidenzia l’importanza della identificazione delle fasi, della loro distinzione in una “continuità” dei processi.
Elementi di storia del PCI a partire dalla testimonianze di storia vissuta e raccontata da 64 comunisti della Federazione del P.C.I di Varese
Intervento orale e ultimo della serata di presentazione del libro.
Salvatore d’Albergo
L’interesse mio per questo libro è ben diverso da quello che è stato definito “aneddotica”. Se io avessi sentito un’introduzione che si richiamava ad alcuni aneddoti, non l’avrei letto.
Invece il libro ha un carattere di originalità che come dice la presentazione, è quello di “racconti e testimonianze di un vissuto collettivo, non di un vissuto individuale. Quindi di un’esperienza anche individuale di un collettivo, donde tutti i significati di una storia, di forme di lotta, che a partire dagli anni ’40, l’insieme dei contributi descrivono addirittura fino a questa fase, ognuno, certo, centrando un periodo – perché così era stato definito il compito per articolare la storia nei decenni.
Sicché tutti hanno affrontato le forme concrete con cui si è manifestato l’avvio delle lotte sociali in questa zona. Anzi, una certa fatica di lettura per chi voglia leggere attentamente tutto, può derivare dal fatto che – non so per quale criterio di assemblaggio- , talvolta le testimonianze, anche quando ormai ci sono testimonianze di esperienze più ravvicinate alla fase di oggi, ritornano improvvisamente agli anni ’50. Ma questo anche per una difficoltà obiettiva di elaborare l’edizione del libro che si colloca dopo la storia di vari altri contributi e libri: è stato citato il libro sul contributo dei comunisti di Varese nella guerra di Liberazione, che era stato fatto con il libro a cura del compagno Chiesa, e poi nel ricordo della 121^ Brigata Garibaldi di Walter Marcobi, che ha un’altra caratteristica.
Qui lo sforzo è stato di mettere in evidenza il significato dell’essere funzionari di partito, intesi come soggetti a tempo pieno.
Mi ha colpito molto questa sottolineatura da parte di tutti quelli che hanno sottolineato questo nella loro testimonianza. Non tanto la funzione di “funzionario”, che d’altra parte tiene conto di quella di “rivoluzionario di professione”, ma la sottolineatura di questo “tempo pieno”.
Una formula che, badate, non è facile trovare in nessun campo d’attività reale. Io, per esempio, vivo in un mondo universitario dove formalmente si è a “tempo pieno”, ma dove questo garantisce al massimo solo che non si faccia anche una cosa “privata”. Ma se io non ci vado, nessuno – e gli studenti che protestano lo sanno bene – nessuno garantisce nemmeno il “tempo minimo”.
Quindi il fatto che ci fossero persone impegnate a “tempo pieno”, è la vera qualifica – e non per fare del formalismo – per individuare come il “partito nuovo”, potesse avviare un tipo di processo assolutamente inedito della storia italiana sociale e politica. Tenuto conto che si trattava di aprire una storia che non era riuscita ad affermarsi negli ‘19-’22 (a causa del fascismo): non dimentichiamo questo.
Ora, un libro come questo che cosa ha d’importante? Perché è un contributo importante dal punto di vista del metodo della storia?
Perché dà per scontati i “valori” nelle testimonianze, cioè il modo in cui questi si affermano con una lotta comune che naturalmente non è solo Varese e dintorni, ma è nazionale e ispirata ai principi dell’internazionalismo.
Nello stesso tempo, però, le testimonianze fanno capire come si sviluppa un’iniziativa e come il partito sta ed è con la democrazia. Con la democrazia “interna” e cosa rappresenti sul versante “esterno” il partito, rispetto a quegli obiettivi che con la democrazia che esso ha, riesce a prospettare; con quale etica, alla luce della forma di crescita della civiltà e del tipo di società italiana. E tutto questo, via via che si affronta il tema e il problema da parte d’ogni testimonianza.
Per cui la questione della funzione “scuola di partito”, qui è molto sottolineata da un duplice punto di vista: di come un soggetto appartenente alla storia del movimento operaio, ha bisogno di formarsi culturalmente per affrontare i problemi, indipendentemente dal grado d’istruzione e acculturazione che gli ha dato la scuola, quella dell’organizzazione dello stato. E molto si rileva questa funzione. Con i rischi di sentire una “superiorità”: viene è sottolineato anche questo.
Ecco che allora ci sono da “leggere” due aspetti in questo libro: del come si dirige dall’alto, perché qui emerge molto la direzione dall’alto, e del come si manifesti insofferenza per la direzione dall’alto. Si parla del “compagno che viene da Varese”, “il compagno che viene dal regionale”, il “compagno che viene dal centro nazionale”.
Non si dice neanche il nome, il chi è, tanto viene identificato con il ruolo. E’ talmente considerato “istituzione superiore” che non viene neanche fatto il nome, se non qualche volta. Talvolta con insofferenza, poi lo metterò in evidenza. Però questo ha una sua motivazione. Non c’è niente di quello che si chiama una “doppia faccia”, o “doppiezza”: io non sono per un’interpretazione unilaterale né schematica.
L’importante è cogliere il senso della tendenza; le cause di questa tendenza. Quindi che c’è, anzitutto, una necessità di una “formazione”; poi la decisione nell’andare a svolgere un ruolo perché così si è deciso e si va a svolgere l’attività
Questo però avviene in una scansione della storia sociale e politica italiana, e questo va colto e analizzato (collocato quello viene raccontato da ognuno, nel quadro generale e dando una prospettiva storica, N.d.R.).
E’ interessante, ad esempio, andare a vedere, andare a leggere, che non c’è mai la parola “Unione Sovietica”. Io l’ho letto attentamente questo libro, ma in tutte e in ognuna delle testimonianze, un riferimento all’URSS non c’è. Ci si sente comunisti per il problema della trasformazione della società di cui sono parte e “in cui vivo”. E c’è tutta una scansione nel libro, che tiene conto della fase del centrismo e del Centro-sinistra e della crisi del centro-sinistra.
Se non si fa questo non si capisce. Se non si coglie il quadro in cui si colloca ciò che si racconta, non si capisce il libro e il presente.
Se uno va con l’idea di leggere gli aneddoti, sbaglia. E’ aneddoto sapere che dei compagni che vanno alla scuola di partito e li viene fuori il giudizio che una compagna e un compagno si frequentano troppo? Allora, per questo, uno viene espulso e si apre la discussione sul fatto se è giusto espellere dalla scuola uno solo perché ha avuto questi rapporti. Quello è un problema. Si colloca nella storia civile italiana. Un problema che non è solo dei comunisti e che non è solo o tanto un aneddoto. E’ un problema. Certo se uno lo legge così, per forza che strappa un sorriso. E’ invece un problema acutissimo dell’attualità, innanzitutto, della militanza se deve essere così rigorosa. Il rigore della militanza. Io non sto giustificando, però dico che non è un aneddoto, ma uno spaccato di problemi reali. Perché io che ho frequentato le scuole di partito dal ’75 in poi e ho sentito questioni, lamentele sulla libertà effettiva dal punto di vista della soggettività, se non altro per la questione del “quanto tempo dura”, “quanto tempo sottrae alla famiglia”, ecc., so che è un problema.
Una questione che ha avuto cadenze diverse in rapporto con il processo storico di maturazione.
Il centrismo: una fase difensiva.
Quindi, tornando al tema: “centrismo”. Ci sono molti riferimenti a come in questa fase si difende il partito. Ricordiamoci che cosa era il “centrismo”. Anche questo fa parte di un contesto, di come era la situazione anche dei “blocchi” internazionali; questo è un dato che sappiamo…
Però è certo che la fase del “centrismo” è una fase in cui non si poteva uscire fuori a presentare un semplice volantino, perché c’erano tutta una serie di divieti e il divieto della Questura. Queste cose dobbiamo rievocarle, oltre che a noi anche a molti che non hanno vissuto quel tempo e neanche lo sanno. Io ho letto attentamente la cosa che Bianchi ha ricordato autocriticamente e che ha scritto con grande attenzione, a proposito del fatto che gli è accaduto e che lo ha portato fino al carcere di Peschiera per aver distribuito dei volantini. Caspita lui ha espresso la sua esasperazione, però, per capire come uno si esaspera, bisogna capire come lo hanno esasperato. E questo. Credo, abbia più valore se lo dico io che allora non ho avuto una posizione così impegnata come quelli che hanno dovuto subire questi processi per dei volantini. Caspita, però, il fatto è che non si poteva nemmeno uscire con un volantino. Quindi questa fatto e periodo colgono una situazione reale, fino al 1956. Tanto che c’è una testimonianza che dice: “ma finalmente poi uscì la prima sentenza della Corte Costituzionale” che diceva che era illegittimo tutto questo che proibiva la libera manifestazione e circolazione delle idee.
Per cui, quando Bianchi ha dichiarato “ma io voglio il tribunale del popolo”, certo che ha usato una formula strafottente, ma quegli altri l’hanno capito e lo sapevano che era una forzatura linguistica, che era la conseguenza di non poter trovare altro modo per sottolineare l’assoluta ingiustizia del fatto che non si poteva fare nemmeno un volantino; che non si poteva fare una manifestazione di libertà, la libertà della circolazione del pensiero, sancita dalla Costituzione all’art. 21. Non si poteva fare niente. E c’è voluta la forza di pressione del Partito Comunista per fare riconoscere e cambiare questo. Grazie proprio a Togliatti, che era contro l’immissione della Corte Costituzionale e dei referendum abrogativi (che sono una forma politica dello stato “liberale” e manipolabile dall’alto dai gruppi di potere, N.d.r.), ma poi, con quella lucidità e senso critico che hanno i comunisti, si è battuto perché ci fosse e si installasse la Corte Costituzionale. E la Corte Costituzionale è stata “rivoluzionaria”, parliamo addirittura del 1956, nonostante tutte le toghe d’ermellino. Ma non ci sono solo le toghe di ermellino nella Corte Costituzionale, perché viene eletta anche una componente di parte politica, nella quale allora Togliatti provò ma non riuscì a far entrare un comunista, che era Crisafulli. Quindi vedete fino a che punto. Ma intanto, la prima sentenza ha detto: qui non si deve più andare contro la legge costituzionale.
Allora, ecco, il “centrismo” è una fase. E tutte le testimonianze di quella fase che sono riportate qui nel libro, sono testimonianze di una lotta aspra, che è innanzitutto difensiva. Tanto difensiva che, se datiamo le cose, nel 1955 c’è la sconfitta alla Fiat.
Però, intanto, il centrismo è una fase nella quale i compagni registrano – per esempio il compagno Golo -, l’importanza del discorso di Churchill a Foulton nel 1946. Questo è l’avvio della discriminazione anticomunista organizzata.
Uno, senza saperlo, penserebbe che sono stati prima gli americani e invece no, sono stati gli inglesi (sono quasi sempre loro che dettano la linea agli americani). Ed è da questo che viene il 18 aprile del 1948. Il 18 aprile, la battaglia frontista e la difficoltà di fare comizi e persino volantini e la sconfitta del Fronte popolare dei partiti comunista e socialista.
Aneddotica per aneddotica, c’è il racconto del comizio di un compagno che va in un posto per fare un comizio e lo introduce uno dell’Azione Cattolica. Ma caspita, quelli erano degli eroi, che oggi non si troverebbero con quella stessa qualità e tensione ideale, non dico per fare la stessa cosa di cui fortunatamente non c’è più bisogno, ma andavano.
Così come io non dimentico, all’Università di Milano, di aver visto tre studenti tre, dominare su una canea vociante di 1500 studenti anticomunisti, tenerli con il dibattito, con la razionalità e la propria capacità di discussione. Imbrigliarli. Questi sono andati li, sono andati in quella situazione sapendo di avere ragione…
Ecco, sottolineiamo questo: l’importanza di sentire di avere ragione. Di poter affrontare una situazione, pur sapendo di avere contro tutti e riuscendo anche ad uscirne indenni, perché qui nel libro non c’è la descrizione di aver poi subito particolari violenze, se non quella gravissima della violenza politica che non ha sempre bisogno di essere anche fisica.
Quindi, c’è la questione di Churchill, c’è il 18 aprile, e poi c’è però l’attentato a Togliatti. C’è la descrizione dell’attentato a Togliatti, il clima in cui avviene e la battaglia che viene compiuta per vedere se era possibile liberare i partigiani ingiustamente prigionieri, nel momento stesso in cui c’era un atto violento contro il leader del Partito Comunista, Togliatti.
Questa è una storia concreta, testimoniata e messa in risalto dai compagni Morandi e Macchi. Poi la Legge truffa nel ’53: dentro la difficoltà dell’attacco di chi voleva cambiare il sistema proporzionale in maggioritario riuscire a fare presente e a realizzare una manifestazione di lotta e un protagonismo attivo. E’ tutto “difensivo”, in questa fase. Eppure è un “difensivo” che pur nella discriminazione che fa valere tutto il suo peso all’interno dei luoghi di lavoro, riesce bene a manifestare il suo peso più visibile – perché la politicità e la democrazia politica che tutti rivendicano giustamente come un valore, è però solo un aspetto, quello più visibile, appunto, del rapporto sociale; mentre invece i valori di democrazia e di libertà più profondi, sono quelli che si manifestano nei rapporti sociali e, quindi, anzitutto nei rapporti di produzione – sul piano dei rapporti politici e istituzionali.
In queste testimonianze, c’è anche chi ricorda la CED. Oggi, anche chi è abituato alle sigle, questa non se la può ricordare perché pensa: ora c’è la CEE; che cosa sarà mai questa CED. Allora la CED fu un fatto importantissimo. La Comunità Europea di Difesa era il tentativo di organizzare – prima ancora della CEE che è venuta dopo, sull’onda di un ritorno militarista – il collegamento tra stati capitalistici: non è facile cambiare posizione e riscrivere la storia come oggi capita spesso, se si leggono retroattivamente le cose. C’è addirittura chi ricorda l’omicidio dei coniugi Rosemberg, in America, solo perché comunisti, ed è il compagno Gatti. E il fatto del governo Tambroni che, nel ’60, rischia, gravemente, di fare interrompere il processo democratico, fatto che ancora una volta trovò nel PCI, nella classe operaia – specialmente i portuali di Genova che ogi si trattano così ingenerosamente – e in Togliatti, una barriera.
Qui colgo il punto di collegamento con l’amico Fiori. Fiori, da cattolico, ha sottolineato molto il fatto che, però, con questi comunisti c’è “qualche cosa” che non si è spezzato mai anche da parte dei cattolici. E dobbiamo dare un nome a questo “qualche cosa”. E’ il rispetto della Costituzione. Aver fatto la Costituzione insieme, è servito a mantenere una coesione coi cattolici. Il Partito Comunista ha respinto la tesi della DC uguale a fascismo. Certo, la durezza della prevalenza della destra democristiana è tale, che anche oggi le tentazioni di analisi unilaterali e massimalistiche ci sono state e ci sono: DC uguale a fascismo. Il PCI ha sempre risposto a questo, approfondendo l’analisi – e particolarmente Pietro Ingrao ha dato un contributo nella lettura della DC – su che cosa è la Democrazia Cristiana, cosa è questo “fenomeno”, della DC di Fanfani, ecc., perché, va tenuto presente, Fanfani incomincia nel 1954.
Ecco, Tambroni è caduto perché c’è stato, oltre al sollevamento di masse del Partito Comunista e dei lavoratori, anche il contributo della DC di “sinistra” che ha detto no a Tambroni. Pur essendo entrata nel governo Tambroni, nelle difficoltà concrete con cui la cosa si presentò, poi la sinistra DC ha contribuito a farlo cadere.
Oggi io vedo assonanze, mutatis mutandis perché nulla si ripete della storia e del mondo in modo meccanico, oggi noi andiamo verso il rischio di una situazione tipo Tambroni, in condizioni completamente diverse. Con un Partito Comunista non mobilitato come nel ’59, perché SI SMOBILITA RISPETTO ALLE SUE RADICI; ed è solo agitazionismo verbale quello che fa Occhetto, perché non contiene la qualità delle forme di direzione del ’59. C’è, però, fortunatamente e per una parte – anche se non abbiamo notizie odierne per lo sciopero dei mezzi di comunicazione -, l’assunzione di decisioni da parte della sinistra democristiana (dimissioni dagli incarichi di partito, N.d.r.), che ci fa sperare che ci sia una iniziativa, nonostante che sia ancora al governo, non nelle condizioni del governo Tambroni ma con Craxi, che non è detto sia Tambroni, ma che incombe gravemente. Queste sono cose essenziali per capire quella fase rispetto alla quale le forme di testimonianza, nel libro, sono inevitabilmente, quantitativamente prevalenti quelle che si riferiscono ad allora, perché si è scelto uno scorcio di tempo che parte dal dopo Liberazione fino al 1976, ma che poi, invece, per l’attualità dell’analisi –poi lo sottolineerò – arriva sostanzialmente alla vigilia di oggi. E si sa che nella parte del libro dove si trova la “vigilia”, si trovano elementi molto importanti anche per l’oggi.
Quindi, riassumendo, la fase del centrismo è la fase “difensiva: si trattava di riaprire la battaglia e con il fatto di Tambroni – siccome la dialettica sociale a qualche cosa in comune con la dialettica della fisica -, dal tentativo di autoritarismo operato da destra, si è passati all’apertura di un fenomeno controverso, poi vedremo quanto, come quello del centro-sinistra.
La fase del “centro-sinistra”. Inizio di una divisione dentro il PCI e del rilancio della battaglia negli anni 60-70.
E’ da lì, badate, dalla fase del centro-sinistra, che è iniziata la divisione nel PCI, di cui vediamo oggi le propaggini concretamente visibili dopo la mozione di Occhetto, di cui bisogna andare a leggere attentamente i contenuti e il processo attraverso cui vi si è arrivati.Perché leggendo solo le forme più recenti di manifestazione di quelle divisioni, staccandole dai processi precedenti, si cade in confusione.
E cadono in confusione, infatti, quelli che un giorno sono per il “NO” e un giorno sono per il “SI”; quelli che ritengono fosse giusto 10 anni fa, apporsi all’appiattimento governativistico (congiunturale) del “governo delle astensioni” portato avanti dalla destra nazionale del PCI come da quella di Varese – come in questo libro risulta dalla testimonianza di Mombelli di cui parlerò poi -, e che poi oggi sono per il “SI” ad Occhetto che persegue l’appiattimento organico e permanente sulla governabilità che è quanto di più “governativista” possa esserci; e quelli (ancor peggio), che sono per il “SI’” critico, perché adesso abbiamo persino quelli.
Qui c’è il caso, e adesso troverò nel libro la testimonianza, di un “SI’” critico dato sul nome del segretario di Federazione. Il compagno Mele, eccolo qui, dove dice: “sì, ho dato un “SI’” critico.
Ma giuridicamente e non solo, non esistono o “SI’” critici e i “NO” critici o acritici. Esistono solo i “SI’”, i “NO” e le astensioni.
Ora, persino l’astensione ha un doppio significato, quindi figuriamoci se si può dire che c’è il “SI’” critico (come non esiste un voto a favore “tecnico” sulle Leggi, come per opportunismo si usa talvolta fare).
E’ solo quando l’opportunismo avanza che, allora, vengono fuori persino le forme non-giuridiche, come del resto l’altra espressione, nata negli ultimi 15 anni, che si chiama “l’informale”, che è una cosa diversa in verità, mentre però non è per niente “informale”, perché non esiste “l’informale”. Ma lasciamo perdere.
Quindi qui, nel libro, siamo adesso a questa fase: a quando si rilancia la battaglia negli anni ‘60 e fino ad una parte degli anni ‘70, da parte del movimento operaio e del PCI.
E allora c’è qui, importantissima, la testimonianza di un rilancio di battaglia, con una documentazione attenta su un punto, e con l’autocritica anche sulle forme della direzione politica di questa battaglia. E’ la testimonianza sulla questione dell’applicazione della Legge 167 del “’62”, sull’edilizia economica e il territorio all’epoca, e mi pare sia il compagno Zarini che lo racconta.
E’ importante badate, soprattutto qui, dove noi parliamo, perché siamo a Varese, a Tradate e in tutte queste zone. Ma contemporaneamente il problema era aperto dappertutto.
Io quando ho letto questo libro, ho detto: “ma se tutte le federazioni facessero il lavoro che avete fatto voi, noi avremmo – senza avere bisogno degli archivi utili tuttavia per ulteriori approfondimenti – la storia reale del partito, che ognuno di noi sino ad oggi si immagina soltanto”.
Ecco allora , a questo punto, vorrei mettere in evidenza un’osservazione che mi ha molto colpito, che ha carattere metodologico.
C’è un compagno, Tommaso Badari, che mi sono fotocopiato per leggerlo ed evitare di distorcerne il senso che dice così: “Se chiudo gli occhi sforzandomi di richiamare i ricordi, ciò che subito mi assale è la sensazione di una strana divaricazione, quasi una schizzofrenia, che si opera spontaneamente nel profondo della mia coscienza. La netta scissione tra due categorie distinte: quella degli accadimenti nella loro innegabile concretezza e quella delle parole, dei concetti, delle motivazioni ideali che presiedevano a quegli accadimenti stessi. Ebbene, mentre gli accadimenti ai quali ho partecipato più di quaranta anni fa, mi sembrano cose dell’altro ieri, le parole, i concetti, le motivazioni ideali mi appaiono lontane come l’infinito. Anzi, faccio addirittura fatica a credere che siano veramente stati”.
Ecco, io allora che vivo il mestiere di cercare di capire i fatti tramite i concetti, beh, allora sono molto preoccupato del fatto che, mentre descriviamo queste cose, nella realtà di oggi e nel PCI – per effetto di un modo di fare politica del suo gruppo dirigente -, prevalgono i concetti sui fatti, le parole sui fatti.
Questo libro mira all’opposto a farci ricostruire i concetti dai fatti.
Io, adesso, con voi cerco di seguire cose che noi conosciamo tutti, che io posso forse conoscere in modo un po’ troppo accademico, per il mestiere che faccio, ma mi sono iscritto al partito proprio per riuscire a liberarmi un pochino, almeno attenuarlo, questo “accademismo”: e infatti adesso, quando gli do fastidio, dicono che sono “appassionato”, eh, quando dico delle cose chiare, non dicono più che sono “accademico”, ma dicono che sono “appassionato”, quindi in negativo, quindi in tal modo e in questo caso è il dissenso nel merito che non viene chiarito. Va beh…
Allora, che cosa è avvenuto con questa applicazione della “167” a partire dal ’64, di questo Piano? E’ avvenuta una battaglia per espropriare ed articolare diversamente la proprietà. Su questo si formò una sentimento e “relazione” di massa. Quindi, e questo lo diciamo qui, anche in queste zone, non dimentichiamoci dove siamo. Io quando leggo che in Provincia di Varese eravamo al 7%, e via via siamo passati al 31% e oltre, dico: caspita, ma vedi cosa vuol dire mettersi in testa cos’è il Nord e cos’è il Sud?
Perché, forse che qui non è come il Sud? Perché Varese, Bergamo, Brescia, Como, ecc. sono in Lombardia – al di là del “nordismo” di possibili concezioni presenti e che sono “lombarde” – dov’è la differenza con la situazione sociale, politica, ecc. con il Sud?
Quando uno sta al 7% in Lombardia, vuol dire che, si, certo, ha Milano che è la città che può dare o poteva dare l’immagine che uno è più forte anche quando è debole; ma qui proprio non esisteva niente.
Quindi: la debolezza. Teniamolo presente in quali condizioni avveniva questa lotta. Ciò nonostante, allora, questi compagni hanno fatto questo Piano, si sono visti assillare dalle forze borghesi, e allora hanno fatto questa autocritica: “forse questa cosa, che era giusta, l’abbiamo fatta come semplice atto di decisione formale – ritiene Zarini – ma abbiamo mancato di fare un ampio dibattito, di realizzare un raccordo con la società, per discutere e chiarire quali sono i nostri obbiettivi”.
E’ importantissimo questo, perché c’è la consapevolezza di avere ragione, nel volere uno strumento operante nel Paese come quello che si è deciso formalmente di mettere in atto, e di avere addosso la reazione sociale anche di forze (cpesie “ceti medi”, N.d.r.), che non è detto sia sempre possibile averne l’alleanza.
“Partito nuovo”, voleva dire partito che poi apre a delle alleanze, anche con i “ceti medi”; mentre fai questo, si tratta però anche di vedere come fai la democrazia. Quindi è nato un duplice problema, è stata messa in evidenza una duplice questione: quella della democrazia “interna” al partito e quella del rapporto “esterno”. Quindi il problema della superiorità gerarchica degli organi decisionali, è un problema che pesa ovunque ci si presenti. Un problema che ha una duplice manifestazione: rispetto a coloro i quali debbono “obbedire” perché sono parte di un’organizzazione, ma pesa anche rispetto agli obbiettivi da raggiungere, posto che non basta il carattere formalmente giusto di una decisione, che oltretutto era l’applicazione di una legge come la “167”, ma occorre considerare – e qui viene sottolineato nell’esperienza reale – il “come” si fa una battaglia sociale, di allargamento e di egemonia.
Qui, nel libro, nessuno ha voluto usare parole impegnative sul piano accademico, come “egemonia”, ma nella questione sollevata da Zarini c’era il problema dell’egemonia.
Il Togliatti più importante, il sindacato e il collegamento fabbrica-territorio-istituzioni nelle lotte dei lavoratori-cittadini.
C’era questo problema con il riconoscimento che questa battaglia aveva bisogno di un maggiore collegamento con il senso più complessivo della convivenza della e nella vita sociale. Ma ecco che quella è una fase nella quale è una fase nella quale c’è una novità tanto controversa come il centro-sinistra, e Togliatti dovette chiarire molto che cosa era il centro-sinistra (il Togliatti più vero e importante è proprio il Togliatti del centro-sinistra, 1600 pagine che oltre a d’Albergo pochissimi conoscono, anche perché viene obliterato assieme alla prima e unica raccolta organica di questi suoi scritti: “Togliatti – scritti sul centro-sinistra, 1958-1964, Istituto Gramsci Firenze-Cooperativa editrice universitaria, 1975 – N.d.Ruggeri).
Una questione quella del centro-sinistra, che nel partito non è stata mai chiaramente risolta e superata (di cui si vedono le conseguenze): altro che “il compromesso storico” ( a sua volta distorto dalla destra PCI – tanto da indurre Berlinguer a ripudiarlo – nel suo significato originale, che era di rilancio del Patto costituzionale per la democrazia, in “compromesso di governo” nella seconda metà degli anni ‘70 e poi addirittura in “compromesso di classe” dopo la morte di Berlinguer negli anni ’90. N.d.R).
Intanto qui nel libro, nelle testimonianze dirette, come non si parla mai dell’Unione Sovietica, non si parla mai nemmeno di “compromesso storico”. Questa espressione non c’è mai. PERCHE’ LA QUESTIONE PIU’ ACUTA CHE PESA NELLA STORIA DEL NOSTRO PAESE, NON E’ QUELLA DEL COMPROMESSO STORICO MA E’ QUELLA DEL CENTRO-SINISTRA.
E tanto è vero che questa cosa è decisiva, che il sindacato, con un ruolo diverso di espressione della presenza in Parlamento, lo risolse con una astensione a proposito di quello che era il “programma economico nazionale” espresso dal centro-sinistra. Mentre il Partito Comunista e quello socialista ebbero uno scontro acuto, netto.
Ma su questo c’è stata sempre un differenza dentro il PCI e il movimento operaio, perché c’era chi non leggeva il centro-sinistra nel senso di trasformismo del Partito socialista, ma vi leggeva anche una “svolta”, solo comunque per il fatto che i cattolici collaboravano con i socialisti, ritenevano che questo creasse le prime basi.
Il “pentapartito” è figlio di questo equivoco. COLORO I QUALI NON HANNO MAI ATTACCATO IL PARTITO SOCIALISTA E IL PENTAPARTITO COME SI DOVREBBE, SONO COLORO I QUALI – questo potrebbe essere visto in un altro tipo di dibattito – NON HANNO VISTO NEL CENTRO-SINISTRA UNA NEGATIVITA’, MA HANNO VISTO SOLO UNA POSITIVITA. Del resto basterebbe vedere le posizioni di Napolitano e Chiaromonte su questo, che non a caso si trovano oggi a fare l’ala destra dello schieramento di centro-destra del “SI’” alla mozione di Occhetto.
Ora però la battaglia è fatta su questo terreno. In questo, il compagno Coerezza – io ho visto la sua testimonianza – ha messo in evidenza soggettività importanti, sulla tematica dell’unificazione sindacale.
La tematica dell’unità sindacale e delle battaglie nuove che il sindacato aveva sviluppato a partire dalla fine degli anni ’50, per andare poi a un processo che via via era quello della unificazione, poi limitatasi alla Federazione Cgil-Cisl-Uil…, però sempre con una sottolineatura del carattere nuovo del modo di organizzarsi, nel passare dalla Commissione interna – che fino ad allora rappresentava il punto più avanzato – , a un modo in cui i lavoratori potessero esprimere direttamente la loro rappresentanza (con i Consigli di fabbrica). E questo poi si collegava con la novità – che per allora era l’avvio ad un processo di consapevolezza maggiore – su come si interviene su quelli che, oggi, vengono chiamati “diritti di cittadinanza” separati dal controllo democratico e sociale dell’economia…; sulla creazione della Mensa in fabbrica con l’uso di fondi d’impresa, addirittura pensando di darle in prestito agli Enti Locali, individuando così già allora, negli anni ‘60, le basi di uno sviluppo più ampia di collegamento tra sindacato e istituzioni politiche e del territorio. Collegamento che maturò solo agli inizi degli anni ‘70, quando nacque la Regione, sotto la spinta delle lotte nel territorio, cioè nel sociale.
Ma già in quella fase degli anni 60, c’è la consapevolezza di vedere i “diritti” che sono dei lavoratori non solo in quanto sono dei “dipendenti” in fabbrica, ma perché “faccio parte” della società, e sono cittadino-lavoratore. Altro che far passare per invenzione di oggi la strategia dei “diritti” che, invece, oggi ha un altro significato, che è quello di consideraresolo i diritti individuali e non i diritti sociali-collettivi nei luoghi di produzione (cosa che è andata accentuandosi nel “ventennio” successivo alla data di questo intervento fatto nel Gennaio ’89 – N.d.R.).
Ecco, questa duplicità di ruolo di “cittadino-lavoratore”, indivisibile come dovrebbe essere giustamente anche oggi, portava a considerare. Giustameente, che se è indivisibile, allora deve dar luogo a strumenti distinti e perè collegati (tra luoghi di lavoro e nelle istituzioni).
E qui, ecco che allora tutte le battaglie combattute nelle fabbriche (nelle grandi fabbriche come la Ignis, che vengono qui raccontate; e ci sono poi anche i riferimenti alle battaglie alla SIAI Marchetti, c’è la testimonianza di Franchina, di Caprioli alla Candiani, ecc.), sono testimonianze di battaglie che precedevano la fase in cui la capacità d’intervento più elaborato sul terreno della programmazione economica, avrebbe poi potuto dare luogo a una vicenda di maggiore dilatazione di un potere democratico politico-sociale-economico.
La cosa importante non è solo questa: tocco due punti per stringere e chiudo. La cosa importante è come si giunge alla tormentata fase degli anni che precedono quelli dell’inizio della crisi della democrazia italiana – io la chiamo così. Cioè gli anni immediatamente precedenti il ‘75-76 che precedono direttamente quelli di oggi.
La duplice lettura della “solidarietà nazionale”
Ora, mi ha colpito molto, la testimonianza data dal compagno Donelli – che poi è stata confermata con una certa coincidenza di spirito dalla compagna Pellegatta -, su cosa vuol dire lavorare in Parlamento. Perché ha fornito una testimonianza duplice sui problemi e il significato della democrazia nel Partito (sempre presente, badate, perché non è nata ora la questione della democrazia nel Partito, quasi come se adesso finalmente, adesso che è scoppiata nei paesi dell’Est, la possiamo dire pure noi, profittando del fatto che si fa il congresso straordinario. La battaglia e i problemi della democrazia interna al partito “hai voglia da quanto tempo sono aperti”), e la fase nuova emersa nel collegamento tra “centralità della classe operaia”, “centralità delle istituzioni” e “”centralità del Parlamento”.
Allora, il Donelli, denunciò di non poter svolgere il ruolo di parlamentare. Dice: sono entrato nella Commissione parlamentare; in commissione c’eravamo in 13 e c’è né uno che fa tutto e io non posso fare niente. Doveva cercarsi qualche cosa da fare (io, questo tipo di testimonianza, l’ho avuta anche da altri. Ma qui è importante perché è scritta). “Sono andato a mettere in evidenza il problema, dice, uno di quelli di tipo ambientale – a proposito di questo ambientalismo di moda che ora è venuto fuori come se prima non ci fosse mai stato niente – su come un prodotto era fabbricato violando le regole; e lui di sua iniziativa, si informa.
Guardate quindi come si faceva ad allora: NON C’ERA LA PIGRIZIA CHE E’ VENUTA OGGI E CHE E’ DENUNCIATA DA MOLTI COMPAGNI NEI LORO INTERVENTI, perché NON C’ERA LO SNATURAMENTO DEL PARTITO, PER CUI OGGI IL FUNZIONARIO NON LAVORA PIU’ PROPRIO PERCHE’ GLI HANNO TOLTO LA RAGIONE; NON E’ SOLO PIGRIZIA DI QUELLO CHE VA E NON LAVORA, E’ CHE GLI HANNO TOLTO LA RAGIONE PER CUI NON LAVORA (specialmente, ci si riferisce, ai vertici dirigenti massimi o anche “Massimo”, n.d.r.).
Questo compagno addirittura ha fatto gli accertamenti per conto suo; ha saputo da altri compagni che questo prodotto costava troppo all’impresa se rispettava le regole, e allora è andato dal compagno responsabile del Partito – in questo caso della sanità -, alla direzione e questo gli dice: “ma lascia perdere, lo sai che tu in questo modo vai contro l’occupazione?”. Cioè usando argomenti che sono gli stesi che oggi troviamo a proposito delle questioni ambientali, per cui, non a caso, – proprio per queste debolezze ed errori – sono sorti come vizio, come grave vizio sociale e politico i “verdi”.
Non gli ambientalisti, dico, la i “verdi” in senso stretto, “verdi-arcobaleno” (a posteriori, gli stessi a cui si sono aggregati nelle ultime elezioni quelli che si dicono comunisti senza avere mai avuto nulla – come i Bertinotti, Vendola, ecc. – del comunista, nd.r.). Perché per essere ambientalisti e difendere veramente l’ambiente non dovrebbero esserci verdi-arcobaleno; e non ci sarebbero se ci fosse applicazione coerente, dal punto di vista teorico, del marxismo e dal punto di vista politico, di un essere comunisti che in quanto tali deve portare innanzitutto a controllare e sottomettere – con il controllo sociale e politico democratico in fabbrica e nelle istituzioni – le produzioni d’impresa (oggi finalizzate esclusivamente al guadagno, al profitto, alla produttività) all’interesse e ai fini sociali e collettivi che, oltretutto, è richiesto e indicato persino nella Carta costituzionale. Perché questo non è il prodotto di una insufficiente elaborazione di principi, ma di una insufficiente coerenza nell’applicazione dei principi stessi del nostro essere comunisti.
Ma questo compagno Donelli ha messo in evidenza contemporaneamente un’altra cosa, cioè: l’importanza della centralità del Parlamento nella fase in cui avviene una lettura duplice della solidarietà nazionale.
La “solidarietà nazionale” è una fase molto complessa. Io non sono mai stato di quelli che l’ha demonizzata né esaltata. E’ una fase complessa (non solo per il terrorismo), per una complessità che è alla base della Costituzione di certe forme di rapporto politico tra i partiti, ma soprattutto perché HA LA DUPLICITA’ – se no non veniva il terrorismo – di un luogo istituzionale dove poter decidere ma non governare….
Purtroppo nel linguaggio comune tra compagni, soprattutto a Roma, si dice “dobbiamo andare al governo”: e ai voglia di stare li ad aspettare e, speriamo, che si aspetti ancora. Perché se dobbiamo andare al governo con queste logiche, non significa “andare a cambiare”, solo perché arrivano i comunisti, capisci Fiori? E’ che se ci vanno così ci vanno per niente (notiamo, a posteriori, quanto ciò si sia dimostrato vero, n.d.r.). E allora se ti fanno andare al governo, è perché gli garantisci che non cambia più niente; serve solo a cambiargli cavallo. Io non sono per essere o per fare il cavallo di ricambio che gli sostiutisce Craxi. Craxi và battuto ma non facendogli da cavallo, né prestandosi a fare il cavallo che sostituisce lui, senza obbiettivi che non siano altro che quelli di sostituire, Craxi, o di fare noi meglio di lui quello che lui vorrebbe fare (n.d.r. come sopra: quasi facilmente profetico, nevvero?).
Va beh, Donelli sottolineava questo: per la prima volta nella storia sua di parlamentare gli capitò di essere, in quanto comunista, relatore su una legge proposta dal governo. Quindi non più discriminato dal punto di vista della posizione istituzionale, ma in grado di sviluppare una iniziativa che poteva essere non solo di “presenza”, ma anche di funzione politica più generale.
Questo allora ci porta fino alla fase odierna, alla vicenda che da ricchezza a questo libro, che diventa un libro-documento.
Per me soprattutto, che vengo da fuori, questa ricchezza è stato il fatto di vedere nelle ultime cento pagine, l’analisi e le esperienze della situazione successiva alla fine della “solidarietà nazionale”
L’ALTRA GRANDE DIVISIONE NEL PARTITO, CHE ARRIVA FINO ALLE SUE PROPAGINI DI OGGI, E’ QUELLA CHE ACCOMPAGNA IL GIUDIZIO SUL GOVERNO DELLE ASTENSIONI, CHE QUI E’ DOCUMENTATA CON QUEL “RIFLESSO” DI UNA SITUAZIONE CHE POERTO’ AD UNA LOTTA ANCHE NEL PARTITO DI VARESE.
Il dissenso sul “governo delle astensioni” e il ricambio dei gruppi dirigenti della federazione
La fase successiva al periodo dell’unità nazionale è descritta come se uno fosse in Federazione. E’ vista ciò dalla Federazione provinciale, col dissenso e la battaglia politica interna.
La vicenda dei passaggi di gruppi dirigenti. L’individuazione del carattere di questo gruppo dirigente e di come la battaglia politica avveniva. Anche qui con una prevalenza di interventi non democratici dall’alto. Perché il meccanismo del “vado a Roma io”, “va a Roma un altro”, a parlare con qualcuno al centro, è l’indice di una consapevolezza che non ci sono garanzie democratiche e che tutto dipende da cosa dicono le isittuzioni superiori. “Vado a Milano perché c’è il Regionale”; “viene Borghini che è del Regionale”, ecc. A proposito di questi passaggi, ciò che si evidenzia è l’aspetto della democrazia, oggi che noi esaltiamo quello che avviene nei Paesi che fanno cadere le forme organizzate di “socialismo reale”, e che dovrebbero almeno servirci per rivitalizzarci nell’autonomia che i comunisti dovrebbero sempre manifestare nella propria organizzazione interna.
E qui è importante il fatto che c’è una lettura… Io ad esempio conoscevo Ruggeri, ma non mi aveva mai raccontato quello che era successo qui. L’ho trovato ora nel libro, ma non è raccontato da Ruggeri, è raccontato da Mombelli e altri.
Anzitutto c’è la testimonianza di Gatti che è stato segretario, che ci fa capire la ragione. Io ho detto che la duplicità di linee nel partito comunista risale all’interpretazione del centro-sinistra. Ma ora lasciamo pure stare questo.
In ogni caso da questi documenti-libro, risulta che il dissenso nel partito si è avuto, non con la solidarietà nazionale, ma per il governo delle astensioni.
Il voto sul governo delle astensioni vide qui a Varese un dibattito in un attivo, racconta il compagno Gatti, in cui hanno parlato soprattutto quelli contro. Perché quelli a favore, poi, sono solo intervenuti per dire che bisogna avere il senso di responsabilità. Ma quelli che erano contro dicevano: ma perché deve dirigere e decidere la direzione nazionale? Perché la posizione era stata assunta, come documenta Gatti, dalla Direzione più che dal partito (direzione che si era divisa anche al suo interno).
Insomma, il portato della crescita del partito, che soprattutto in zone come queste è misurabile fino ad oltre il 30%, dal 7% da cui si era partiti, attraverso via via processi di crescita che sono riportati con grande attenzione di dati, e che, nel momento stesso in cui questo avveniva, avveniva attacchi terroristici a Varese. Io questo non lo ricordavo affatto, e addirittura anche alla sede della DC, oltre che in Piazza Maspero e alla Federazione del PCI. Dc che qui aveva avuto manifestazioni di solidarietà politica con il Partito Comunista negli anni precedenti (ho preso nota, Bonomi, esponente della Provincia)… Quindi il terrorismo si è fatto vivo a Varese. Noi ricordiamo il terrorismo più eclatante, questo invece è interessante, qui è documentato in questo senso…
Ebbene, mentre questo avveniva a luglio, nell’Agosto vi è il documento di Gelli “Piano di rinascita democratica”. Oh, noi diciamo Gelli, Gelli, in realtà come una cosa che torna così, tanto per dire. NO!!! Gelli SI E’ MOSSO PER I RISULTATI ELETTORALI CHE NEL ’75 HANNO PORTATO AD ESEMPIO IN QUESTA ZONA, A SCOPRIRE CHE UN TERZO E OLTRE DEI COMUNI SONO PASSATI AI COMUNISTA E ALLA SINISTRA.
E ALLORA DOBBIAMO METTERE IN EVIDENZA QUESTI PASSAGGI.
Quindi il dissenso nasce a proposito di come interpretare il governo delle astensioni: proprio perché si ha una forza maggiore, si deve continuare una battaglia, come sostengono quelli che dissentono, o la si deve ormai sospendere per una nuova responsabilità di governo come sostengono gli altri?
E proprio Aloardi a un certo punto, parla di questa “auto-responsabilità”, non come riferimento a questo specifico, ma come un’esigenza.
Ecco, dobbiamo cogliere questo punto, e capire il processo qui testimoniato da Mombelli con meticolosità.
Io l’ho letto e mi ha molto colpito la meticolosità con cui si parla di questo fatto: che ci sono giovani che esprimono una capacità notevole. Gli aggettivi con cui viene sottolineata la capacità del compagno Ruggeri, sono, a leggerli, di grande enfasi e valore, e non solo da parte del compagno Mombelli (che lo avversava)… Comincia a 15 anni, comincia in fabbrica e in fabbrica egli denuncia di come, per il fatto di essere autonomo, si tenta di umiliare la personalità, camiandogli la mansione di meccanico e mandandolo al “grassaggio”, alla Mazzucchelli, una fabbrica di 3000 operai dove a 15 anni era stato eletto nella Commissione interna… E invece, proprio per questo, nella descrizione che fa Ruggeri, emerge soprattutto una descrizione critica del rapporto tra democrazia politica-economica-sociale; quindi dice, noi dobbiamo lottare per trasformare i rapporti di produzione, e la fabbrica è il luogo in cui il Partito comunista più trova modo di essere riconosciuto, partito che tra l’altro non aveva la presenza organizzata che c’era ad Abbiate ma non c’era a Tradate e ; non c’era nemmeno la FGCI ( dei giovani comunisti), bisogna fondarle, e Ruggeri fa tutto questo…
Insomma ne viene fuori un processo di sviluppo di questa persona che addirittura racconta che, pregato di andare al Congresso Provinciale del partito, se ne esce con una crisi fisica, un congestione dovuta alla tensione per l’impegno che questo rappresenta…, altri lo descrivono come instancabile promotore di iniziative e di insegnamento politico…. Un altro, Soldati, aggiunge che Ruggeri: “tirava il gruppo dei Cordì, Lucchina, Montagna, Palmina Magni, Mozzini, ecc., con un vissuto che faceva fede” del suo essere scevro da ogni interesse “personale”; Soldati che dice anche che al Liceo, si è trovato a prendersi del fascista (dai “gruppetti”), dopo lo scelta non facile di militare nella FGCI e nel PCI, scelta che aveva fatto “per la sensazione che nel PCI si era nella continuità della storia… in cui aveva più logica una protesta che precisava lo scontro di classe che era in atto e la fisionomia della classe operaia, non metaforicamente ma attraverso donne e uomini veri, che nel PCI – con tutti i limiti e ritardi che si vollero, vogliono e vorranno trovare – mostravano la loro reale capacità dirigente…non era solo storia studiata (mai abbastanza!” che ci collegava “fisicamente ai “vecchi iscritti del 21 (Gramsci); a chi aveva fatto la Resistenza…a chi era stato pestato e arrestato dalla polizia di Scelba e di Tambroni”.
Con tutto ciò e nello stesso tempo creando le condizioni di una giudizio e di promozione continua di questa persona, di Ruggeri…. Il quale poi ferma la sua testimonianza all’esperienza e al periodo di formazione in fabbrica.
La verità che poi emerge è questa: di come le vicende che determinano una tensione politica nel partito siano collegate al fatto che nel PCI, anche di Varese, si pensi a un certo punto che occorre evitare una “radicalizzazione” della politica del partito. Mombelli sottolinea questo, oltre che precisare il suo tipo di formazione familiare, di origine operaia, per cui lamenta che gli abbaino detto che lui proviene da una famiglia borghese, ma che avviato agli studi si qualifica, diventa assistente universitario, poi anche con la possibilità di fare il primario in Ospedale, ma sempre con grande visione politica: però il problema che lui si pone è questo: bisogna evitare la radicalizzazione.
Così viene detto. Nel riconoscimento da parte dello stesso Mombelli che il compagno Ruggeri aveva tutte le qualità per svolgere il ruolo di direzione come segretario della Federazione, anche perché sperimentato in sede regionale e nazionale dalla FCGI e poi successivamente nella Segreteria regionale del PCI.
Ecco allora che tutta la vicenda che viene qui raccontata, non riguarda le qualità, che nessuno mette in discussione, di Ruggeri, ma riguarda il fatto se debba prevalere questa linea di radicalizzazione (come la definisce Mombelli); quindi, se come mediazione debba essere Cordì ad essere appoggiato da coloro i quali erano per Ruggeri, e invece, poi, viene fuori una decisione, per espresso intervento dall’alto di Gouthier (della segreteria nazionale), per altro blando, ma decisivo…
Viene fuori però questa cosa: che il contrasto verteva sull’interpretazione da dare circa il fato se questo è un partito che deve andare al governo – ormai che ha raggiunto una certa base sociale riconosciuta fino al 34% – e quindi evitare quello che certi e Mombelli ritengono essere dei “massimalismi” (per cui osteggiano Ruggeri); evitare di tirare – c’è scritto addirittura così -, “evitare di tirare troppo la corda”.
Io allora sottopongo questa questione: se l’impegno di un Partito come quello Comunista Italiano, che è riuscito a legittimarsi non solo nella Costituzione che altri gli volevano negare, ma è riuscito a legittimarsi nella società, rompendo il cerchio che era stato organizzato, non aveva per ciò ancora le ragioni di governare, da doversi ancora legittimare rendendosi subalterno al moderatismo.
Rimane, storicamente, oggi e per il futuro in ogni parte del mondo, questo problema: se un partito che ha una visione di modifica del sistema – qui è scritto due volte che Cordì l’ha sottolineato parecchio che deve essere il partito che modifica il sistema – non può essere legittimato a governare per il solo fatto della novità della posizione che ha assunto e cerca giustamente anche nel governo di perseguire uno scopo di trasformazione.
Perché l’obiezione facile, che ormai è diventata pedestre, è quella che dice: “ma allora non volete andare al governo; vi piace l’opposizione? No, è falso: uno va al governo con quei fini, ma non è detto che perché si matura la posizione di governo allora cambia l’obbiettivo.
E dire che e’ radicale quello che quell’obbiettivo lo vuole realizzare, che “rompe la corda”, è un assurdo che d’altra parte ci accompagna da molto e che, questo si, ci ha portato a perdere consensi. Consensi che invece, quando si “tirava” e si “tira di più la corda”, come nella lotta sulla scala mobile e le mobilitazioni sociali di massa, ci porta a guadagnarne.
Guardate che oltretutto, questa è la condizione più avanzata anche istituzionalmente. Perché l’essere rappresentati nelle Assemblee elettive, nella rete delle Assemblee elettive, a partire dall’Ente locale e poi in Parlamento, significa avere ormai conquistato una tale rete di forza e legittimazione, che è capzioso dire che insistere è motivo di rottura. Perché la legittimazione raggiunta è data proprio dalla forza istituzionale. Quindi è una assurdità che si critichi la radicalità, di una lotta – che di colpo diventa lotta nel partito –… C’è il compagno Mele che addirittura denuncia alla fine, dopo essere andato da Chiaromonte, di aver fatto l’errore più grave della sua vita… “Lo credeva di sinistra” (dice Aloardi dalla sala)… Riprende D’Albergo: ma come si fa a credere di sinistra Chiaromonte?
Allora vedete che bisogna leggere quello che è avvenuto. Perciò io dico, ripartiamo dall’analisi degli anni ’60. Di cosa è stato il centro-sinistra e le posizioni di Napolitano e Chiaromonte, ecc., che meno male nel congresso XII di Bologna sono rimaste minoritarie rispetto a quelle di Longo e Berlinguer.
Ma non è che Mele lo ha ritenuto di sinistra, è che Chiaromonte ha la “calliditas”, lo dico in latino… (voce di Bianchi: “Il fatto è che era andato per trovare Berlinguer, di cui si riteneva amico, e invece ha trovato Chiaromonte”) riprende d’Albergo: ma guardate che che allora più la raccontiamo così, più il tessuto di una organizzazione democratica rivela una sua inconsistenza.
Allora però, la contraddizione grave di questo partito, quale è stata? Non è stata quella che naturalmente la DC e altri partiti hanno avuto buon gioco a usare come strumento, per dire che il PCI ha la “doppia faccia” (che è un falso) e Togliatti “l’ambiguità”. NO, non è questione di ambiguità. E’ la questione di una differenza fra la capacità critica verso il sistema – per cui la democrazia è andata avanti per la concezione di Togliatti della democrazia, anche di quella politica perché le Regioni sono venute per la critica al sistema – e la grande incoerenza interna, che oggi soprattutto e paradossalmente – mi permetto di insistere, oggi soprattutto – nella misura in cui vi è la crescita della cultura di massa e della società civile, si ha più ragione di ripudiarla di quanto non si facesse all’epoca in cui i compagni pure e già se ne lamentavano.
C’è una compagna che qui l’ha messo in evidenza, la compagna Calderoni. Non so quanti di voi ricordano la compagna Calderoni, io la conosco soltanto per quello che ha scritto qui, beh, lei è di quelli che hanno denunciato sistematicamente il fatto che i compagni non facevano che piegarsi alle esigenze delle dirigenze. (…)
…era necessario quando discutevamo per quale unità democratica, poi siamo stati allontanati dal governo fortunatamente… ma poi l’adeguamento del regime di democrazia interna era possibile ma oggi è quanto mai necessario e indispensabile.
Quando Fiori dice: “ma questo modo di lanciarla, la proposta da parte di Occhetto, ci sembra assurdo”, ha ragione ed è assurdo per noi del PCI prima di tutto.
Però, la cosa che volevo sottolineare è che i documenti di questa realtà, di questa soggettività, di contraddizioni tra battaglia per la democrazia all’esterni e limiti della democrazia interna, che è la vera contraddizione che vive il nostro partito, nasce dal fatto che c’è chi ritiene che il governare (e il dirigere) è una funzione di per sé, per cui ormai, raggiunto un certo livello elettorale si ritiene che la funzione è quella tecnico-politica, non politico-tecnica, di governare.
E c’è invece l’altra posizione etichettata come “radicale”, che invece dice che bisogna radicare nelle masse una capacità di proposta, altrimenti il governare diventa “risucchio” della nostra autonomia nello stato di cose esistenti. E’ qui documentato concretamente, nelle testimonianze.
Ciò che sarebbe interessante, è che anche in altri luoghi potessero darci una capacità di discrimanzione come quella che i compagni Aloardi e Bianchi ci hanno dato coordinando la composizione di questo libro che hanno avuto l’intelligenza di organizzare.
Io infatti sottolineerò ad altri, fuori da questa Provincia, questo libro come testimonianza niente affatto individuale, che qui difatti è detto che è di vita collettiva.
Se volessimo fermarci sulla parte aneddotica, a cui si sono appassionati alcuni, persino un personagio come Bera qui ne uscirebbe con una singolare lettura. Nonostante che si riconosca che Bera è un uomo “duro”, come si dice, ma si potrebbe dire “pignolo”, attaccato alle ragioni e ai valori di una lotta. Io l’ho conosciuto assieme anche a Ruggeri con cui siamo andati a trovarlo a Cremona, e quindi capisco meglio di come potrebbe essere letto non conoscendolo.
L’impressione che avesse una sua concezione dell’ordine organizzativo, la famosa questione citata nel libro, se si usa o non si usa la Lambretta del partito a titolo privato, e che però fa parte di un momento in cui la tensione morale rispetto ai pochi strumenti che si avevano a disposizione, era forte…; guardate, questo ma ha colpito molto: per dormire bisognava andare a casa di qualcuno e lo stesso per mangiare…. C’è stato uno, di cui non ricordo il nome, che si è fatto a piedi da Luini a Varese.
Se noi leggiamo la storia con gli aneddoti, viene fuori che questi erano o sono pazzi. NO! Questa è gente che sapeva fare “apostolato” della sua funzione. Invece è grave che oggi si dice “io lo faccio se sono pagato”. Perché gli si suggerisce e gli viene detto “non farlo gratis”. Così è venuta una corruzione.
Io stesso resisto al fatto che quando vado al sindacato o al partito a fare o a tenere qualche incontro o dibattito dicono: no, guarda, d’Albergo, il lavoro va pagato. NO!!!, questo lo avete inventato voi – i socialisti – nella CGIL, e ho visto nascere questo processo ad Ariccia. E no, questi, primo, ti vogliono corrompere; secondo, vogliono pagare i non comunisti, che gratis non ci vengono e perché così sono garantiti che non c’è più una militanza e viene e può venire di tutto.
Ecco, chiudo su questo. Tutti questi elementi, denotano che se è vero che cambiano le forme concrete, non può cambiare il significato dei valori. La militanza è un termine decisivo, altro che superato dalla questione degli “esterni” che poi sono sempre della parte sociale avversa. Per cui, poi, se ne assumono le logiche fondando i “Centri di iniziativa di iniziativa politica” proposti all’interno del partito. Fortune che non se ne parla più e spero ch questo Congresso prossimo, travolga tante cose e questa cosa dei “Centri di iniziativa politica” nonostante questi giochi di ammiccamento che stanno avvenendo.
– LE MOLTE CARATTERISTICHE E COSE DEL PARTITO FASCISTA PRIMA DI ESSERE TOTALITARISMO, RIPROPOSTE DA OCCHETTO. DEMOCRAZIA INTERNA ED ESTERNA AL PARTITO.
– La parità tra Camera e Senato è la più importante conquista della Costituente.
Ma Tali Centri, intanto corrispondono ai GIP, che già ci ha pensato a fare la Democrazia Cristiana. Ma noi abbiamo fatto una battaglia contro i GIP… Secondo: l’aveva già pensato il fascismo, che l’organizzazione del Partito deve essere un’organizzazione che incapsula forze, settori o gruppi sociali e le corporativizza.
I Centri di iniziativa politica sono corporativismo politico-sociale che è molto più grave del corporativismo in cui possa cadere un sindacato. Perché almeno, il sindacato ha la ragione vitale di partire dal dato reale di un gruppo sociale che non è detto che abbia necessariamente una coscienza di classe; per cui Gramsci ha detto che si parte dal corporativismo economico per far crescere una coscienza, ecc… Ma quando un partito, dietro la falsa immagine del Centro di iniziativa politica, organizza le corporazioni, ingegneri, avvocati, medici, giuristi, ecc., chi e che cosa sono?
Il partito fascista, badate, prima di essere totalitarismo, aveva molte delle caratteristiche che Occhetto sta proponendo oggi. Dato che per lui è più facile ancora perché nega che ci sia la classe operaia, quindi si sente di farlo e di fare per necessità quello che Mussolini faceva come scelta, per un motivo di lotta di classe contro la classe operaia.
Occhetto ritiene che ormai la lotta delle classi – che è una costante perenne della storia – non ci sia più e quindi dice, ormai, organizziamoci tutti in luoghi istituzionali che il partito fascista aveva a sua volta già identificati: imprese, pubblico impiego….
Se uno va a leggere lo Statuto del partito fascista, scopre, tornando indietro di settanta anni, le cose di chi abbandonando il marxismo, arriva a ipotizzare le stesse proposte, senza neanche saperlo.
Probabilmente Occhetto non le ha neanche lette queste cose. Quindi crede di trovare strade diverse, che sono diverse, ma che certo non sono affatto nuove. La divisione tra politica e amministrazione è una divisione proposta da Mussolini, e se ne può trovare testimonianza scritta in un suo articolo (sul Popolo d’Italia dell’aprile 1921, n.d.r.), in cui dice “vogliamo uno stato regolatore e non gestore”; ed è fatta a tutela delle classi borghesi.
La costituzione di Centri come questi, che sono luoghi di accorpamento di forze sociali diverse dalla classe operaia, di ceti professionali appartenenti alla borghesia, sono forme organizzate fatte in funzione di un collegamento con una società da conservare e non da trasformare (così si è arrivati fino al PD, passando dalla riproposizione da parte di Occhetto, di caratteristiche e forme del partito fascista, n.d.r.).
Ecco di che cosa si tratta, invece di “attaccarsi” e rilanciare la Costituzione.
Mi ha colpito che sull’Unità la Gagliotti ha scritto: “Partito comunista, lascia pur stare il comunismo se vuoi – dice dal suo punto di vista -, però la Costituzione NO! Perché è troppo importante”
Noi invece stiamo facendo l’errore più grave che possa fare il partito che ha saputo costituire la democrazia politica-sconomica-sociale, che è quello di far saltare la Costituzione. Partendo dal Referendum sulle leggi elettorali che mira a far saltare la parità tra camera e senato, che è la cosa più importante che siamo riusciti ad avere in mancanza del monocameralismo (non trovando l’accordo per poterlo fare, genialmente Togliatti propose ed ottenne un monocameralismo imperfetto col bicameralismo eguale; oggi all’opposto, si mira a differenziare le Camere per fare del Senato una Camera dei notabili, come nell’800, n.d.r.).
E anche il progetto che sta facendo adesso Elia al Senato – accusato da Pasquino di fare una terza camera – indica che almeno Elia ha l’intelligenza politica di non fare saltare il bicameralismo. Un bicameralismo inedito, diverso dal bicameralismo nato per contrapporre le classi, per avere una camera della classe forte e dei notabili da contrapporre a quella di tutti e della classe debole. Mentre il Partito comunista e la DC e soprattutto il genio di Togliatti, riuscirono ad evitare questo che sarebbe stato una contraddizione grave della sovranità popolare (rispetto all’unità e unicità della sovranità popolare, n.d.r.).
Fino a quando non si riesce a garantire il monocameralismo, che è la soluzione perseguita dal PCI alla Costituente, occorre mantenere “questo bicameralismo” inedito, come “bicameralismo eguale” che contrasta con il significato originario del “bicameralismo”, nato, appunto, come “bicameralismo ineguale”.
Quindi noi oggi abbiamo bisogno di riprendere quel discorso avviato alla Costituente, però, ecco, a partire dalla rilettura dei processi reali come quelle che ci permette di fare questo libro, per la critica a certe posizioni che tali processi ci consentono…
Peccato che Mombelli non c’è, ma se ci fosse – e un giorno mi capiterà di farlo – con le pezze d’appoggio di questo libro, si potrebbe trovare il modo migliore per chiarire quali sono le difficoltà di fare democrazia “all’esterno”, se non si realizza la democrazia “all’interno” del partito.