di Gianni Barbacetto
Una mega-tangente pagata dall’Eni per ottenere un grande giacimento petrolifero in Nigeria: questa è l’ipotesi d’accusa su cui da due anni indaga la Procura di Milano. Ma ora, a leggere l’avviso di conclusione delle indagini recapitato ieri agli undici indagati e alle due società (Eni e Shell), si scopre che i magistrati avrebbero chiuso il cerchio anche sul “rientro” in Italia di una parte della mega-tangente, che sarebbe tornata nelle tasche dei manager italiani che hanno concluso l’affare: 917 mila dollari arrivano a Vincenzo Armanna, vicepresidente delle attività subsahariane dell’Eni; 50 milioni di dollari in contanti a Roberto Casula, responsabile delle attività operative dell’Eni in Nigeria; e 21 milioni di franchi svizzeri al mediatore Gianluca Di Nardo.
Casula e Armanna, secondo la Procura, facevano riferimento diretto ai loro capi, cioè Paolo Scaroni, allora amministratore delegato di Eni e oggi vicepresidente di Banca Rothschild, e Claudio Descalzi, allora direttore generale della divisione Exploration & Production di Eni e dal 2014 amministratore delegato della società petrolifera. Di Nardo era invece in stretto contatto con Luigi Bisignani, faccendiere e lobbista, gran mediatore dell’affare nigeriano.
La vicenda sembra la sceneggiatura di un film hollywoodiano, ambientato tra Italia, Nigeria, Gran Bretagna, Svizzera e Olanda. Qui ha sede la Shell, che ha diviso con Eni il grande affare di Opl 245: questa sigla indica un immenso campo di esplorazione petrolifera in Nigeria di cui l’Eni aveva comprato nel 2011 la concessione, pagando 1 miliardo e 90 milioni di dollari. Allora Scaroni era amministratore delegato e Descalzi suo braccio destro. L’Eni paga il prezzo concordato su un conto del governo nigeriano, ma poi i soldi finiscono alla società nigeriana Malabu Oil & Gas Ldt, dietro cui c’è Dan Etete, ex ministro del petrolio del governo di Lagos che nel 1998 aveva venduto a Malabu, cioè a se stesso, la concessione di Opl 245, al prezzo stracciato di 20 milioni di dollari.
Etete nel 2007 era stato condannato in Francia per riciclaggio, ma negli anni seguenti sull’affare cominciano a indagare i pm milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, che valorizzano anche le scoperte fatte dai pm napoletani Henry John Woodcock e Francesco Curcio. Questi, indagando sulla cosiddetta P4 di Luigi Bisignani, avevano raccolto intercettazioni del 2010 da cui traspariva che Dan Etete, per vendere al meglio la concessione di cui si era appropriato, aveva coinvolto un suo contatto in Italia, Gianluca Di Nardo, il quale si era rivolto a Bisignani, che sapeva essere molto vicino a Scaroni. Parte così una prima trattativa per comprare la concessione Opl 245 direttamente da Malabu. Con l’intervento del mediatore nigeriano Obi Chukwemwka e del russo Ednan Agaev. Qualcosa però va storto e questa prima trattativa fallisce.
Dopo il novembre 2010 inizia una nuova partita, in cui Eni si rivolge direttamente al governo nigeriano, che s’impegna a risolvere in un secondo tempo i contenziosi locali, saldando Malabu. Così nell’aprile 2011 viene concluso l’affare: Eni paga il miliardo e 90 milioni di dollari, Shell ne aggiunge altri 115. Tutto trasparente, tutto regolare: peccato però che una causa civile a Londra nel 2013 faccia balenare ombre impreviste e riapra l’intrigo internazionale. Il nigeriano Obi si presenta davanti alla Southwark Crown Court chiedendo ai giudici britannici di riconoscergli quella che ritiene una dovuta e legittima commissione per il suo ruolo di mediatore nell’affare. De Pasquale e Spadaro s’intromettono e chiedono il sequestro di circa 200 milioni di dollari su conti anglo-svizzeri. Poi l’inchiesta prosegue, anche con il contributo di Armanna, protagonista di un vivace e teso confronto con Descalzi davanti ai pm.
Ora a Scaroni è contestato di aver dato “il placet all’intermediazione di Obi proposta da Bisignani” e di aver invitato “Descalzi ad adeguarsi”. Scarioni è stato “costantemente informato da Descalzi dell’evoluzione delle trattative” e ha incontrato “personalmente, insieme a Descalzi, il presidente della Nigeria Goodluck Jonathan sia in fase di perfezionamento degli accordi (13 agosto 2010) sia nella fase finale, durante un raduno elettorale in Nigeria, il 22 febbraio 2011”. A Descalzi i pm contestano di aver tenuto “personalmente i contatti con Obi e con gli operativi di Eni in Nigeria Casula e Armanna”, “essendo informato della richiesta di commissioni, ricevendo da Bisignani indicazioni circa comportamenti da tenere nella trattativa” e “concordando con il suo omologo della Shell, Malcom Brinded, il prezzo dell’affare, nella misura di 1,3 miliardi di dollari”.
Casula e Armanna si raccordano con Obi e partecipano alle riunioni con i nigeriani per concordare il prezzo. Casula “riporta tutto a Descalzi” e viene informato “dei movimenti di denaro successivi alla stipula dei resolution agreements”. Armanna riceve dal governo nigeriano 801,5 milioni di dollari, da cui estrae 520 milioni da destinare al presidente Jonathan e ad altri ministri e personalità nigeriane. In conclusione, del malloppone di 1,092 miliardi pagati a Malabu, 250 milioni se li tiene Dan Etete, il resto va al presidente nigeriano e ai suoi complici, ma, in parte, viene retrocesso agli uomini di Eni e Shell (indagata in Olanda).
Bisignani è colui che per primo presenta a Scaroni la possibilità di concludere l’affare, ne riceve il placet, incontra, a casa di Scaroni, Descalzi con cui poi discute “l’evoluzione delle trattative”, dà “indicazioni circa i comportamenti da tenere” e tiene i contatti con Armanna, Scaroni e Descalzi “nella fase della definizione dell’accordo”.
Alle undici persone fisiche indagate, si aggiungono le due società Eni e Shell, a cui i pm contestano la responsabilità amministrativa delle aziende. L’indagine piomba su Eni in un momento di grande tensione dovuta alle manovre per riconfermare Descalzi e i vertici dell’azienda. A primavera, con una possibile richiesta di rinvio a giudizio per corruzione internazionale, sarà dura per Descalzi ottenere la riconferma.
Il Fatto quotidiano, 23 dicembre 2016