di Gianni Barbacetto
Ora che, dopo Salvatore Ligresti, se n’è andato anche Bruno Binasco, Tangentopoli comincia ad apparire come un fatto storico lontano, un capitolo della vicenda italiana a cui guardare con il distacco con cui si studiano le saghe del Medio Evo o la scomparsa dei dinosauri. Si è tolto la vita a 73 anni, nella sua casa di Tortona, adesso che nessuno gli chiedeva più conto del suo passato. Era forse il più grosso dei dinosauri di Tangentopoli, quello con la latitanza più prolungata, con la permanenza in cella più lunga, con un infinito numero di inchieste e di arresti: sei, record assoluto di Mani pulite. Trasversale, giocava con disinvoltura su due tavoli, aveva rapporti con i politici di centrodestra, ma il meglio di sé lo dava con quelli di centrosinistra. Sul tavolo della roulette di Tangentopoli, puntava con la stessa disinvoltura sul rosso e sul nero.
Era il braccio destro di Marcellino Gavio, il signore di Tortona, il re del cemento e dell’asfalto, il padrone delle autostrade, il principe delle Grandi opere e dell’Alta velocità. Il grande pubblico impara a conoscerlo nel 1992, quando il pool di Antonio Di Pietro lo accusa di corruzione per un’interminabile serie di tangenti. Il 18 agosto i carabinieri cercano di arrestare Gavio, il suo capo. Non lo trovano. Un anno e due mesi dopo, il 15 settembre 1993, quando ormai è chiaro che è impossibile resistere all’effetto valanga di Mani pulite, davanti ad Antonio Di Pietro si presenta Binasco: ammette le accuse, fa scudo al suo capo e racconta di mazzette per miliardi. Pagate al socialista Bettino Craxi, al democristiano Gianstefano Frigerio, al comunista Primo Greganti. Quattro giorni dopo, quando anche Gavio plana nell’ufficio di Di Pietro, gli basta confermare le dichiarazioni del suo braccio destro per ottenere la scarcerazione.
Se c’è uomo che dimostra la trasversalità del sistema Tangentopoli, questi è Binasco. È lui a inguaiare il compagno G, raccontando a Di Pietro di aver dato a Greganti 1 miliardo di lire per il Pci-Pds. Poi sono arrivati i processi, conclusi con esiti a volte paradossali. Per il finanziamento a Greganti, per esempio, Binasco è stato condannato insieme al compagno G. Per le tangenti pagate a Craxi e confessate da Binasco, invece, è stata condannata con rito abbreviato a più di 2 anni Enza Tomaselli, la mitica segretaria di Bettino: per aver aperto la porta e ritirato le buste di cartone marroncino con dentro 250 milioni di lire alla volta che arrivavano da Marcellino Gavio. Chi portava quelle buste, Binasco, ha tirato in lungo il processo, ha pagato qualche risarcimento, ha ricevuto le attenuanti generiche e infine la prescrizione.
Ma non è mai andato davvero in pensione, Binasco. Ha mantenuto rapporti fortissimi con uomini potenti prima e dopo Mani pulite: Fabrizio Palenzona, Vito Bonsignore, Luigi Grillo e, a sinistra, Pierluigi Bersani. Era di casa negli uffici dell’Anas, al ministero dei Lavori pubblici, a quello dei Trasporti. Ha collezionato appalti, ha vinto gare, ha ricevuto incarichi a trattativa privata per centinaia di miliardi, per progetti speciali come le Colombiadi, per lavori d’emergenza come in Valtellina. E poi strade e autostrade, viadotti e gallerie. Fino ai ricchi banchetti dell’Alta velocità e delle Grandi opere. Negli anni 2000, ha conquistato per conto di Gavio l’autostrada Serravalle, prima sotto l’influenza politica di Ombretta Colli (centrodestra), poi di Filippo Penati (centrosinistra), dopo aver sconfitto gli unici che tentavano di opporsi alla sua resistibile ascesa, il sindaco di Milano Gabriele Albertini e il supermanager Bruno Rota.
Non lo hanno fermato i magistrati, i processi, il carcere. Sapeva che la politica cambia, gli affari restano. Aveva incassato una buonuscita milionaria da Gavio e ora poteva godersi la vita. Invece si è fermato da solo, sconfitto nient’altro che da se stesso.