di Giorgio Bongiovanni – Video
L’Aula Spinelli del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” totalmente gremita; centinaia di studenti presenti e attenti, colti dal desiderio di conoscere e comprendere i risvolti rispetto ad uno dei processi più importanti della storia della nostra Repubblica. E’ qui che si è svolto il dibattito, diretto e senza peli sulla lingua, tra il sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo, pm di punta del pool (costituito insieme ai colleghi Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia), che ha indagato e rappresentato l’accusa al processo sulla trattativa Stato-mafia, ed i “giuristi parrucconi” amanti del “cavillo” giuridico. In cinquanta minuti di intervento Di Matteo, così come aveva già fatto in altre occasioni ed anche nell’ultimo capitolo della pubblicazione “Il Patto Sporco” (scritto con Saverio Lodato ed edito da Chiarelettere), ha tracciato tutti i segmenti dell’inchiesta (leggi la trascrizione integrale del suo intervento, ndr) e di un processo durato cinque anni e che si è concluso lo scorso aprile con pesantissime condanne per i boss capimafia ed i rappresentanti della politica e delle istituzioni.
Un processo che ha dimostrato nel merito non solo che la trattativa c’è stata ma anche le responsabilità penali di quei protagonisti che erano accusati dello specifico reato di attentato a Corpo politico dello Stato.
Del resto che quell’interlocuzione tra i carabinieri del Ros e Vito Ciancimino, l’ex sindaco mafioso di Palermo, rientrasse in quel dialogo perverso era già emerso in altri processi come quello di Firenze sulle stragi del 1993. Proprio la sentenza di quel processo riportava le dichiarazioni degli ufficiali con quel termine specifico. “Ma signor Ciancimino – raccontava Mori davanti a giudici fiorentini – , ma cos’è questa storia qua? Ormai c’è muro, contro muro. Da una parte c’è Cosa Nostra, dall’altra parte c’è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente? La buttai lì convinto che lui dicesse: ‘cosa vuole da me colonnello?’ Invece dice: ‘ma, sì, si potrebbe, io sono in condizione di farlo’. E allora restammo… dissi: ‘allora provi’. E finì così il secondo incontro, per sintesi ovviamente”. (…) “Lui capì a modo suo, fece finta di capire e comunque andò avanti. E restammo d’accordo che volevamo sviluppare questa trattativa”. “Si rividero, sempre a casa di Ciancimino, il 18-12-92. In questa occasione Ciancimino gli disse: ‘Guardi, quelli accettano la trattativa, le precondizioni sono che l’intermediario sono io – Ciancimino – e che la trattativa si svolga all’estero. Voi che offrite in cambio?’”. Parole scritte nero su bianco in una sentenza divenuta definitiva, per anni dimenticata, che il processo di Palermo ha ulteriormente avvalorato.
Lo stesso Salvatore Riina, interloquendo con alcuni agenti del Gom (Gruppo operativo mobile, reparto mobile della polizia penitenziaria), aveva dichiarato: “Io non ho cercato nessuno, erano loro che cercavano me, per trattare”.
Di Matteo ha ricordato anche questi aspetti durante la sua appassionata e impetuosa relazione in maniera chiara, nel merito tecnico, come si è consumato “l’attentato al Corpo politico dello Stato”. Fatti che hanno mostrato una condotta nefasta anche sul piano etico da parte dei suoi protagonisti. Come scritto nelle motivazioni della sentenza “senza l’improvvida iniziativa dei Carabinieri e cioè senza l’apertura al dialogo sollecitata ai vertici mafiosi che ha dato luogo alla minaccia al Governo sotto forma di condizioni per cessare la contrapposizione frontale con lo Stato, la spinta stragista meramente e chiaramente di carattere vendicativo riconducibile alla volontà prevaricatrice di Riina, si sarebbe inevitabilmente esaurita con l’arresto di quest’ultimo nel gennaio 1993”.
Dunque viene riconosciuta una responsabilità netta, anche se non come mandanti, di quelle stragi avvenute a Firenze, Roma e Milano ed anche la strage di via d’Amelio ha una sua causa in quel “dialogo diabolico”. Nero su bianco i giudici della Corte d’assise ravvisano come l’esser venuto a conoscenza dell’esistenza della trattativa sia l’elemento scatenante che portò poi a “l’improvvisa accelerazione” e “all’esecuzione del dottor Borsellino”. Leggendo proprio i passi della sentenza Di Matteo ha parlato di tutti questi elementi da cui si deve ripartir. Ma il pm Di Matteo ha anche parlato del silenzio di Stato, delle delegittimazioni subite, dei contrasti, di quei tentativi di impedire l’accertamento della verità su quegli anni che vanno tra il 1992 ed il 1994.
In questi anni abbiamo assistito al silenzio tombale della politica, delle istituzioni ed anche di certa stampa rispetto a certi fatti che hanno condizionato pesantemente la nostra democrazia. Un silenzio colpevole, se non addirittura complice, che si è rafforzato anche grazie al contributo dei cosiddetti “giuristi parrucconi” che nei cavilli della giurisprudenza individuano l’elemento unico a sostegno dello Stato di diritto.
In uno Stato democratico è legittimo contestare e criticare una sentenza ma appare evidente che certe critiche, mai sopite, contro il processo e le inchieste riguardanti la trattativa Stato-mafia vengono fatte in maniera strumentale con l’intento chiaro di demolire la sentenza di primo grado.
Uno schema che si ripete anche nel passato quando certi giudici si adoperavano, sempre seguendo i termini di legge, alla ricerca di quei cavilli che poi portavano all’annullamento nei confronti di killer mafiosi. Basti pensare che solo nel 1992, con il maxi processo, si arrivò ad una sentenza definitiva che riconosceva l’esistenza di Cosa nostra come una struttura criminale unitaria e verticistica. Fino ad allora mai c’erano state condanne in questo senso. E sempre in quegli anni è stata lunga la sequela di annullamenti di sentenze di condanna che potevano essere anche corretti sul piano tecnico del diritto ma che con evidenza erano contrari alla realtà dei fatti.
E ancora oggi, seppur con una forma distinta, si commette l’errore, spesso fatale, di affidarsi ai cavilli tecnici per ricercare la verità. I giuristi dovrebbero avere il coraggio di andare oltre a tutto questo senza lasciarsi condizionare da quelle idee politiche super garantiste e giustificazioniste delle azioni di Governo. Dovrebbero anche mettersi d’accordo rispetto ai contrasti interni dove da una parte c’è chi giustifica la scelta di non trattare con i terroristi per la vicenda Moro e dall’altra chi sostiene come fu legittima la scelta di sedersi al tavolo con i mafiosi per evitare che vi fossero altre vittime, dimenticando che dopo che fu avviato il dialogo con Cosa nostra, accanto a magistrati e agenti di scorta morirono anche inermi cittadini. E a salvarsi la vita furono solo i politici. Come detto, però, questi fatti non interessano ai giuristi parrucconi. E a ben sentirli, quando dibattono sul concorso esterno in associazione mafiosa e affini, potrebbero anche negare che vi sia un rapporto mafia-politica.
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18 Ottobre 2018