Domenico Marino
segretario Circolo Partito Comunista “Enrico Berlinguer” Pisa
Addio Fiat, dopo 115 anni, e dopo più del doppio del suo valore concesso generosamente dallo Stato italiano in sovvenzioni varie, cambia nome, si chiamerà FCA; avrà sede legale in Olanda, che notoriamente ha un regime agevolato per le multinazionali e pagherà le tasse in Inghilterra, che è un “paradiso fiscale”. In Italia resteranno lo sfruttamento e la cassa integrazione. Naturalmente giornali e Tg vari hanno cercato di giustificare in tutti i modi questa decisione, d’altronde si sa gli affari sono affari (purtroppo) e gli Agnelli e i suoi derivati, sono la “famiglia” per eccellenza nella deferente, piccola Italia; e questo è stato sempre un problema.
La nostra critica a questa “scelta di mercato” non parte da presupposti etici – siamo comunisti e sappiamo che il capitalismo non ha nulla di etico – ma sociali, economici e produttivi. Non l’hanno mai inventato d’altronde, e mai l’inventeranno, un capitalismo buono, poiché questo sistema fa della disparità, della predazione e dello sfruttamento la sua arma “vincente”; naturalmente per la grassa borghesia, che più ha e più vuole, non certo per la stragrande maggioranza della popolazione mondiale che è sempre più schiacciata dalla diffusa povertà. Premesso ciò, c’è da dire che non è il massimo dell’eleganza, per usare un eufemismo, andare in un altro paese a pagare le tasse dopo i tanti favori che lo Stato Italiano gli ha gentilmente concesso dal dopoguerra in poi, e considerando anche che il 30 per cento della forza lavoro è in Italia (24.400 dipendenti secondo l’Ansa, luglio 2012).
L’AZIENDA PIÙ ASSISTITA AL MONDO
A proposito di favori pubblici concessi dallo Stato al Gruppo, in particolare dal 1975 a oggi (quasi 110 Mld di Euro, secondo la Uilm di Potenza) vediamo che il conto è salatissimo, tanto da far risultare la FIAT l’azienda più assistita dallo Stato che esista al mondo, un contributo che, tuttavia, ha reso molto poco in termini di posti di lavoro.
In questi 110 miliardi di euro abbiamo diverse voci, dai contributi statali alle rottamazioni – che ogni governo (soprattutto quelli del cosiddetto centrosinistra prodiano) ha regalato – dalla cassa integrazione per i dipendenti ai prepensionamenti, e ancora dalla mobilità lunga agli stabilimenti costruiti con i soldi pubblici (come quello di Melfi) o, di fatto, regalati dallo Stato (l’Alfa Romeo di Arese).
A fronte di tali chiamiamoli “investimenti”, ci si aspetterebbe che la Fiat fosse diventata padrona del mercato automobilistico mondiale. La realtà invece è davvero impietosa. A cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta grazie alle acquisizioni di altri marchi importanti (Lancia, Ferrari, Alfa Romeo, Autobianchi, Innocenti, Maserati, Seat Etc. Etc), alcuni di essi presi in saldo dall’Iri – negli anni Ottanta per fare cassa ci fu un vero e proprio sacco dell’IRI, che svendette le aziende più prestigiose d’Italia; ad esempio l’Alfa Romeo, nel periodo statale, era più prestigiosa e vendeva più automobili in tutto il mondo. In USA era la macchina italiana sportiva per eccellenza – dell’allora Presidente Romano Prodi, era diventata il secondo gruppo mondiale dopo General Motors.
Nel 1975 la Fiat contava 250 mila dipendenti diretti (oltre a un indotto stimato sui 350 mila addetti), mentre oggi quel totale si è ridotto a poco più di 30 mila. Ad esempio: lo stabilimento Mirafiori di Torino, con i suoi 50 mila operai, era allora il più grande del mondo e sfornava auto che avrebbero riempito le strade della Penisola (una su tutte, la “127”). Insomma, nonostante la pioggia di aiuti finanziari di ogni genere – per non parlare delle “protezioni” del mercato dalla concorrenza straniera, o delle eccezionali agevolazioni fiscali, o ancora delle politiche di lungo corso sulla mobilità in Italia – la Fiat ha perso per strada circa 220 mila lavoratori. Facendo due rapidi conti: per ogni miliardo di vecchie lire di denaro pubblico intascato, la Fiat ha stracciato un contratto di lavoro.
UNA PIOGGIA DI DENARO PUBBLICO
Nel libro di Massimo Mucchetti – Licenziare i padroni? – si racconta, penso per difetto, cosa avvenne: «Nell’ultimo decennio – scrive Mucchetti – il sostegno pubblico alla Fiat è stato ingente. L’aiuto più cospicuo, pari a 6.059 miliardi di lire, deriva dai contributi in conto capitale e in conto interessi ricevuti a titolo di incentivo per gli investimenti nel Mezzogiorno d’Italia in base al contratto di programma stipulato con il governo nel 1998». Soldi a palate, dunque. Ma quello fu solo l’inizio.
Per inciso: «Le società beneficiate, (la Sata di Melfi, in Basilicata, e la Fma di Pratola Serra, in Campania) hanno poi goduto dell’esenzione decennale dalle imposte sul reddito per le società meridionali. Mentre la legge 488 per il Mezzogiorno, in soli quattro anni (dal 1996 al 2000) ha fatto affluire nelle casse del Gruppo altri 328 miliardi di lire in conto capitale».
«Quarta, sostanziosa fonte di sostegno – invidiata dalle altre imprese private – sono stati i vari “ammortizzatori sociali”: cassa integrazione, prepensionamenti e indennità di mobilità. Solo per la prima voce, in un decennio l’onere per le casse dello Stato risulta di 1.228 miliardi di lire. Altri 700 miliardi pubblici sono stati spesi per prepensionare 6.600 dipendenti nel 1994, e altri 300 miliardi per le indennità di 5.200 lavoratori messi in mobilità».
PRODI UOMO DEGLI AGNELLI?
Prodi come si è visto sopra aveva molto a cuore la Fiat e gli Agnelli… infatti nel 1997, all’epoca del suo primo governo, ha introdotto gli incentivi per le rottamazioni delle auto più vecchie. Allo Stato quella legge è costata 2.100 miliardi di lire; poiché la Fiat aveva il 40% del mercato nazionale, ha ottenuto un beneficio di almeno 800 miliardi.
EPILOGO
Solo negli anni Novanta dai vari governi succedutisi sono stati elargiti al Gruppo Fiat 10 mila miliardi di vecchie lire, ricavandone circa 6.500 di imposte. Quindi rifacendo i conti vediamo che i due terzi della liquidità “fresca” immessa nella Fiat negli ultimi vent’anni anni è di provenienza statale. Tenuto conto dei risultati poco brillanti che l’azienda ha portato in questo lungo lasso di tempo – passando dal secondo gruppo mondiale all’ottavo-nono – e tenuto conto di questo triste epilogo “finanziario”, la domanda nasce spontanea: ne è valsa la pena? Non era meglio, con tutti i soldi spesi, rilevare l’azienda e darla in mano ai lavoratori?