di Gianni Barbacetto
C’è un nordista, nella storia che sembra tutta del Sud raccontata in prima persona da Alfredo Galasso. La mafia che ho conosciuto (edito da Chiarelettere) è un libro che si legge come un romanzo di Emmanuel Carrère, ma certamente vero, fatto dopo fatto, pagina dopo pagina. È la cronaca di una vita, quella di Galasso, avvocato, docente universitario, uomo politico, membro del Consiglio superiore della magistratura.
È, nello stesso tempo, la storia collettiva di anni esaltanti e terribili, che cominciano con un 1982 raccontato attraverso gli incontri e le discussioni che l’autore ha avuto con uomini che si chiamano Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino. È una storia d’Italia cadenzata di passioni civili e di morti ammazzati, come in una serie americana inventata dal più scintillante e splatter degli sceneggiatori, ma reale, insopportabile, con il sangue vero di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Pio La Torre, di Rocco Chinnici e via via di tanti altri. Troppi.
Il nordista all’inizio di questa storia è Giuliano Turone. Giudice istruttore a Milano, aveva scoperto le liste della P2 e aveva indagato (insieme a Gherardo Colombo) Michele Sindona, incriminandolo come mandante dell’omicidio mafioso di Giorgio Ambrosoli, l’eroe borghese. Galasso, dopo un incontro con Chinnici al Palazzo di giustizia di Palermo, prende l’impegno di organizzare presso il Csm un seminario di studi sulla mafia, in anni in cui di mafia non si parlava, neanche al Csm. A Falcone viene chiesto di partecipare con un intervento sulle tecniche d’indagine.
Il magistrato siciliano suggerisce di coinvolgere anche Turone, quel giudice che a Milano nel 1974 aveva arrestato Luciano Liggio e stava indagando su Sindona. Falcone e Turone firmano insieme una relazione che resta un pezzo di storia della letteratura giudiziaria sulla mafia. Prospetta “un percorso graduale d’indagini”, scrive Galasso, “che muovendo dal primo livello (costituito dai reati per così dire di base della criminalità e dei ‘picciotti’ di mafia: le estorsioni oppure i danneggiamenti intimidatori) consente di giungere” ai reati di secondo livello, quelli che riguardano la vita interna delle cosche e le loro lotte per la supremazia.
Fino ad arrivare ai reati del terzo livello, quelli che incrociano mafia e politica, quelli che – scrivono Falcone e Turone – “mirano a salvaguardare il perpetuarsi del sistema mafioso in genere. Si pensi per esempio all’omicidio di un uomo politico”. Era appena stato ucciso Pio La Torre. Nelle pagine del romanzo nero dell’Italia – dove il Sud si intreccia con il Nord realizzando una tremenda unità nazionale criminale – si susseguono la puntata (il capitolo) sul maxi-processo di Palermo, in cui Galasso patrocinava Nando dalla Chiesa, che termina con la sentenza storica che decreta l’esistenza di Cosa Nostra e ne condanna boss e gregari.
La puntata sul “giudice ragazzino”, Rosario Livatino, magistrato e santo. E poi “il tempo della discordia”, le lettere velenose del Corvo, le “menti raffinatissime” dell’attentato all’Addaura, la strage di Capaci, la strage di via D’Amelio. E l’eterna, vergognosa trattativa tra la mafia e uno Stato che in nome dei rapporti di potere scende a patti con il crimine. Galasso racconta anche il suo assistito forse più famoso, quell’Angelo Siino che era detto il “ministro dei Lavori pubblici di Cosa nostra”.
Racconta il processo Pecorelli, con imputato (infine assolto) Giulio Andreotti. L’ultima puntata della serie mozzafiato è dedicata al processo di Mafia Capitale, in cui l’avvocato Galasso ha rappresentato la parte civile Confindustria e l’Associazione antimafia Antonino Caponnetto. Da Palermo a Roma, la linea della palma è salita. Ma, come aveva capito Turone, era salita già fino a Milano. La mafia che Galasso ha conosciuto, e che ci racconta facendoci trattenere il respiro, è il filo nero della storia nazionale.
15 ottobre 2020