di Marcello Faletra
Si discute ancora se si debba parlare di genocidio oppure no, nonostante l’evidenza allucinatoria del massacro di massa e della totale distruzione di Gaza. Ciò che si presenta davanti agli occhi del mondo come una condanna all’inferno per i palestinesi, è letto dalla maggior parte dei media filo-atlantici, come un fatto relativo, trascurabile, tra gli altri, ma necessario per la salvaguardia dei sionisti, e dunque per lo stile paranoide della politica estera americana nel medio-oriente. La congiura del silenzio messa in atto dall’informazione, raramente è stata così sfacciata, arrogante, ipocrita.
Tutta la cosiddetta informazione del regime imperialista yankee non fa che amplificare l’odio instillato dai sionisti contro i palestinesi equiparati a terroristi. Ma la sorte subita da quarantamila palestinesi assassinati deliberatamente dagli israeliani (non si contano le migliaia di dispersi sotto le macerie), di cui la maggior parte donne e bambini, come vendetta per il massacro del 7 ottobre di oltre mille israeliani, pone Netanyahu e la sua banda di criminali oltre il terrorismo stesso.
L’accusa di terrorismo che da decenni è addossata ai palestinesi nasconde il fatto più profondo che nell’integralismo sionista agisce un transfert terroristico camuffato dalla maschera di essere “eredi” (sic!) delle vittime della Shoah. A cui si aggiunge il “diritto” di “abitare la terra dei padri”. Su questa rappresentazione del diritto al possesso della terra degli avi, è utile per i sionisti ricordare Amos Oz – uno scrittore ebreo -, il quale afferma in un passaggio del suo Contro il fanatismo che “i palestinesi sono in Palestina perché la Palestina è la patria del popolo palestinese…”. Il fanatismo, che, come un virus, sta contaminando l’informazione sui fatti dello sterminio dei palestinesi…anzi genocidio, è un modo di procedere burocratico. E’ la regola che il nazista Eichmann mise in atto per giustificarsi dei suoi crimini, per ottemperare gli obblighi di servitore, e che é stato alla base dello sterminio degli ebrei.
Vi sono crimini contro l’umanità a cui però vanno aggiunti i crimini dell’obbedienza, cui gran parte della stampa a senso unico si piega. Vale la pena ricordare Hannah Arendt, la quale confutò la tesi secondo cui il nazista Eichmann era un mostro assetato di sangue. E metteva il dito sulla piaga politico-sociale del problema: Eichmann eseguiva gli ordini! Era un burocrate, come i nostri baldanzosi giornalisti mainstream (cioé obbedienti), che eseguono l’ordine di propagandare il ritornello dei buoni e dei cattivi, la cui sceneggiatura è scritta altrove. L’insegnamento fondamentale che si può trarre da questa distinzione tra “assetato di sangue” e “obbedienza”, è che persone considerate “normali”, “rispettatabili”, poiché non contrastano e ossequiaqno il potere di turno, e che hanno ruoli decisivi nella manipolazione delle informazioni, si rendono complici indiretti della giustificazione di crimini efferati di massa.
Che cos’è un genicidio? E’ stato osservato più volte il significato di questa parola. Ma pare che coloro che hanno un ruolo mediatico se ne stiano alla larga dall’applicarlo ai palestinesi. Come se fosse una parola straniera per loro. La parola genocidio, strumentalmente è diventata un a-priori esclusiva degli ebrei. La strumentalizzazione della Shoah, in questo scenario precipita in una deriva mediatica senza freni morali, storici, etici.
Ma occorre porre un freno alla deriva mediatica: gli ebrei sono stati sterminati con il silenzio di tutti coloro di cui oggi ne vantano l’eredità storica, cioé gli europei e gli yankee. Ed è grottesco che oggi, come in uno specchio distopico, questi rappresentanti delle “libertà democratiche” riproducono, mimeticamente, il genocidio nei confronti di altri: i palestensi, verso cui gli europei non sono portati ad immedesimarsi. Non è il nostro vicino di casa…ci dicono i media.
La parola genocidio fu coniata dal giurista polacco Raphael Lemkin nel 1944 e impiegata successivamente durante il processo di Norimberga nel 1946. Il vocabolario della lingua italiana – Enciclopedia italiana 1987- definisce genocidio un “grave crimine, di cui possono rendersi colpevoli singoli individui oppure organismi statali, consistente nella metodica distruzione di un gruppo etnico, razziale o religioso, compiuta attraverso lo sterminio degli individui, la dissociazione e dispersione dei gruppi familiari…”. Un crimine, dunque, votato alla cancellazione storico-culturale di un popolo. Il 9 dicembre del 1948 l’Assemblea delle Nazioni Unite vara la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, e all’articolo secondo si legge: “nella presente convenzione per genocidio si intende una delle seguenti azioni commesse con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso…”[1]. Sono passati 79 in anni (1945) da quando l’ultima infornata di sventurati ebrei entrò nelle camere a gas, di cui qualche zelante revisionista, oggi, pretende ridimensionarne l’esistenza. Da allora il Vietnam, la Cambogia, lo sterminio degli indios in sudamerica, con le dittature appoggiate dalla CIA.
E via di seguito, fino ad oggi con la Palestina e la sua interminabile scia di sangue. Tutti questi stermini non furono fiammate di violenza: ma esecuzioni, liquidazioni di gruppi umani, attentati alla vita di interi popoli, perpetrati da scienziati del crimine, con intenzioni deliberatamente sterminatrici. Quello a cui stiamo assistendo a Gaza è dello stesso tipo: l’applicazione di una teoria politica, che ha come esito finale lo sterminio e la deportazione di tutto il popolo palestinese. Dal punto di vista geografico questo progetto è quasi compiuto: oltre l’80 per cento di tutta la Palestina è controllata dagli israeliani. La garanzia di uno stato palestinese è stato costantemente ostacolato dagli israeliani, che dopo l’assassinio di Rabin, eseguito da un estremista sionista (1996), hanno preferito ricorrere alla colonizzazione forzata e violenta.
Tutto ciò porta a interrogarsi sul perché dei massacri. Il massacro è un modo di vedere l’altro. Le invenzioni inaudite messe al servizio della ferocia di interessi geopolitici, gli abissi della perversità più diabolica, le raffinatezze più inimmaginabili dell’odio, tutto ciò ci lascia stupefatti. Muti. Il massacro è la forma attraverso cui l’altro è percepito nella nuda e cruda animalità. Ogni massacro è preceduto da un processo di desoggettivizzazione, dove il linguaggio svolge un ruolo fondamentale.
Per massacrare un popolo occorre prima annientarlo nell’immagine mediatica globale, annientarlo nell’immaginario collettivo, cioé nella sua rappresentazione. C’è nell’aria una grossa resistenza nel vedere nel popolo palestinese degli esseri soggetti al massacro. Si sente dire che sono “pericolosi”, che sono “terroristi”, ecc. I nostri contemporanei a quanto pare non vogliono sentire altro. L’equazione inculcata in anni e anni di rappresentazione immaginaria del palestinese come terrorista ha fatto il suo effetto .
Questa mistificazione tende a confondere la posta in gioco nello scacchiere mediorientale. In effetti: gli attori del conflitto vedono una politica coloniale e un movimento di liberazione. Il sionismo che spesso viene confuso con l’ebraismo in generale, non è altro che un’ideologia politica, cioé colonialista. Questa ideologia è stata anche ampiamente rifiutata dalla maggior parte degli ebrei dell’esilio, poiché essa è dal punto di vista della tradizione ebraica, un’eresia (è la posizione di molti rabbini); mentre dal punto di vista politico è una teoria reazionaria (è la posizione sostenuta dai lavoratori ebrei dell’Europa centrale e orientale). Alla luce di ciò occorre distinguere antisionismo in quanto ideologia politica colonialista dall’antisemitismo – pregiudizio razziale.
L’equazione palestinese/terrorismo non è altro che l’espressione propagandistica di un movimento coloniale che ha tutti gli strumenti di potere a livello internazionale per far passare una mistificazione come verità. E questo nonostante che le immagini di bimbi squartati a Gaza siano entrati nelle case di tutti.
Oggi, il paradigma di questo laboratorio di disumanizzazione è stato messo a punto dopo oltre decenni (ieri Bush e la sua banda con il carcere di Guantanamo), oggi da Netanyahu, che rappresenta il modello distillato del processo di desoggettivizzazione dell’altro – i palestinesi – concepito nel cuore della cosiddetta “democrazia” neoliberale americana. Ma Netanyahu ha fatto di più: ha materialmente devastato l’ultimo rifugio dei palestinesi….Gaza.
Un campo di sterminio dove i sopravvissuti sono sottoposti al rapido abbandono all’ominità in quanto tale. Una regressione ontologica giustificata dal progressivo instaurarsi della “difesa contro un nemico ”…Costruito in anni di convivenza tra informazione pilotata e bramosia di potere ..contro un popolo senza armi.
Questo popolo – i palestinesi – è sull’orlo dell’estinzione, come si direbbe delle specie animali. Ma per i media ufficiali ciò è irrilevante.
Ma da dove inizia un massacro? In effetti i bombardamenti indiscriminati su Gaza sono il momento finale di un lungo processo di invenzione del nemico. Le masse occidentali lo hanno scoperto nel recente passato, con la guerra in Iraq. L’immagine di un Saddam che possedeva armi di distruzione di massa, e che il mondo intero correva un forte pericolo, è stata fatta circolare per due anni prima dell’attacco. Tony Blair, avamposto del neoliberismo, dopo la Thatcher – avamposti, quindi, delle “libertà e dei valori democratici dell’Occidente”, ha confessato in una intervista, che in realtà sapeva bene che Saddam non aveva le armi di distruziobne di massa..e che si trattava di un bluff. Insomma, una truffa mediatica, per giustificare l’aggressione al popolo dell’Iraq per il suo petrolio.
Ora, su un altro versante del presente, occorre capire l’odio dei sionisti contro il popolo arabo e palestinese. Mi limito ad alcune testimonianze fatte dal giornalista Michel Warschawski.
In questa importante testimonianza che risale al 2002, è testimoniato che chiunque attraversa le strade delle città israeliane può individuare scritte, manifesti, graffiti che inneggiano alla distruzione degli arabi. Ecco alcuni segni:
“La Giordania è lo stato palestinese – Trasferimento subito” (centinaia di manifesti sull’autostrada).
“Espellere il nemico arabo” (manifesto)
“Annientare gli arabi” (manifesti)
O noi o loro” (manifesti)
“Morte agli arabi”(graffiti)
“No ai media ostili” (autoadesivo)
“Compro solo dagli ebrei” (manifesti)
“La pace è una catastrofe, vogliamo la guerra” (autoadesivo)
“No alla Palestina” (graffiti)
“Niente gente di sinistra niente attentati” (graffiti)
“Shoah per gli arabi” (scritta sull’autostrada per Gerusalemme)[2].
In questa breve carrellata di immagini è evidente quanto i segni svolgono un ruolo fondamentale nel colonizzare lo spazio pubblico in funzione di ideologie razziste e xenofobe. In questo caso dei sionisti contro gli arabi e in particolar modo dei palestinesi.
Ratificando la rappresentazione dell’altro come nemico da eliminare. Immagini che istigano l’immaginario collettivo contro i palestinesi, costituendo una scenografia “naturale” dell’odio. L’affermazione: “La pace non è all’ordine del giorno per i prossimi cent’anni” di Sharon, è diventata uno slogan presso gli ambienti della destra israeliana, e appartiene allo stesso ordine di espressioni che circolavano presso i cristianissimi Hutu in Ruanda, quando dicevano “andiamo a lavorare”, che voleva dire “andiamo ad ammazzare i Tutsi”.
E’ sul piano dell’immagine e del linguaggio che si costruisce uno degli aspetti più tragici del massacro dei palestinesi. Questa mobilitazione generale all’odio, alla deportazione e all’espulsione dei palestinesi, è stata costruita in oltre sessant’anni. C’è un altro aspetto da considerare. Ogni massacro si fa perché si è certi dell’impunità. I Turchi lo hanno fatto con gli armeni all’inizio del secolo scorso, e ci sono riusciti. I nazisti con gli ebrei, e ci sono riusciti. Gli americani impiegando bombe atomiche in Giappone e armi chimiche in Vietnam (napalm,) e non hanno avuto conseguenze. Questa certezza tira in ballo la responsabilità delle democrazie occidentali, che hanno permesso che Israele commettesse crimini efferati. La nostra angoscia non è l’angoscia di chi non sa se la propria vita o quella dei propri figli durerà ancora un giorno. Lo stesso linguaggio non può sostituirsi a ciò che si prova davanti ai propri figli spappolati dalle bombe. Il massacro decreta, in un certo senso, anche la fine del linguaggio.
Ma per concepire un massacro occorre pure che un territorio venga circoscritto, chiuso, trasformato in un campo di concentramento. Negli ultimi tent’anni i campi profughi della Palestina sono notevolmente aumentati di numero. Il senso della vita in un campo profughi è fortemente leucemico. L’assenza pressoché totale di infrastrutture ha reso questi luoghi degli inferni, dove è pure impossibile uscire dallo spazio chiuso perché controllato dalle milizie israeliane. In questi “campi profughi” la morte non è diretta, ma provocata a distanza. L’assenza di strutture sanitarie, la mancanza di acqua, l’estrema difficoltà nel reperire farmaci, preparano lentamente il lavoro di messa a morte. In sostanza la proliferazione dei “campi profughi” è direttamente proporzionale alla sottrazione delle terre ai palestinesi e il loro trasferimento in altri luoghi, spesso inospitali. Ciò che scrisse Hannah Arendt a proposito dei campi di concentramento nazisti è analogo a ciò che l’amministrazione israeliana sta effettuando in Palestina: “I campi di concentramento sono i laboratori in cui si sperimenta una dominazione totale sull’uomo…”(Le tecniche della scienza sociale e lo studio dei campi di concentramento, in L’immagine dell’inferno, Editori Riuniti, 2001). E’ esagerato? Perché mai? E’ sufficiente informarsi su come vengono trattati i minorenni nella prigione di Telmond, dove sono oggi rinchiusi circa oltre 5000 ragazzi tra i 13 e i 15 anni, detenuti perché aiutavano a combattere contro l’occupazione israeliana. Questi ragazzi non hanno diritto a studiare, ad ascoltare radio o ad avere contatti con gli avvocati. Viene ritenuto normale che essi non debbano vedere i genitori, ai quali non è concesso il permesso di vedere i propri figli. Di tutto ciò non sappiamo niente. L’ignoranza pianificata dai media istituzionali è il contributo più spettacolare all’oblio del massacro di un popolo. Essa costituisce una nuova tecnologia del massacro a distanza.
Occorre dirlo: la parola “tragedia” è solo una prerogativa dei paesi ricchi e militarmente arroganti. Evidentemente non tutti i popoli possono permettersi questa parola. Quando un popolo è sterminato, e questo popolo non è quello in cui ci identifichiamo, riesce difficile concedere gesti di solidarietà. Che un popolo che vanta radici sopravvissute alle persecuzioni come quello israeliano (cioè sionisti) sia potuto diventare questo popolo di bestie feroci, ecco un motivo inesauribile di perplessità e di stupore
Un celebre testo teatrale di Sartre – Morti senza tombe – in tal senso prolunga la sua ombra su di noi, sulla deliberata ferocia del massacro dei palestinesi: “Uno dei giovani combattenti consegnati alla tortura, dice: “ma si può ancora vivere… perché si deve ancora vivere in un mondo in cui picchiate uno fino a spezzargli le ossa?”. Nel nome di Gaza ciò che viene messo a tacere per sempre è la lotta di liberazione del popolo palestinese.
25 Luglio 2024
[1] Il testo completo dell’articolo recita testualmente: “Art. II: Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religiose, come tale:(a) uccisione di membri del gruppo; (b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; (c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; (d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; (e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro”.
[2] Traggo queste informazioni dal libro di Michel Warschawski: A tombeau ouvert. La crise de la società israélienne, la Fabrique Edition, 2003.