Foto: La casa di Mohammed Abu Khdeir (Foto- Chiara Cruciati-Nena News)
di Max Blumenthal – Electronic Intifada
Roma, 13 luglio 2014, Nena News – Nonostante Qawasmeh ed Abu Eishe fossero ampiamente conosciuti come membri veterani dell’ala militare di Hamas, rappresentavano un elemento-canaglia che ha piuttosto agito contro la volontà della leadership di Hamas e senza che quest’ultima lo sapesse.
Secondo il giornalista israeliano Shlomi Eldar, i membri del clan Qawasmeh di Hebron si erano guadagnati una reputazione per aver attaccato obiettivi civili israeliani durante il cessate il fuoco tra Hamas e Israele.
Mentre una famiglia allargata di oltre 10 mila persone difficilmente può essere incolpata per le azioni di alcuni dei suoi membri, è da notare che gli attacchi condotti dai combattenti della famiglia sono stati privatamente criticati dai leader di Hamas, come spiega Eldar. La leadership di Hamas considerava le loro operazioni atti autodistruttivi di sabotaggio e ha spesso pagato per loro sotto forma di assassinii israeliani. In ogni caso, la violenza ha mandato in frantumi il cessate il fuoco e ispirato rinnovati attacchi e spargimenti di sangue.
“La stessa cosa si sta realizzando ora”, scrive Eldar. “Marwan Qawasmeh e Amer Abu Eishe hanno portato Hamas in un luogo dove la sua leadership non aveva mai avuto intenzione di andare”.
La leadership di Hamas deve ancora assumersi la responsabilità per il rapimento e probabilmente non era a conoscenza della sua pianificazione. Come osserva il corrispondente militare di Haaretz Amos Harel, “Finora, non ci sono prove che la leadership di Hamas, sia a Gaza o all’estero, sia coinvolta nel rapimento”. Harel aggiunge che il rapimento ha “effettivamente congelato la riconciliazione Fatah-Hamas”.
Perché la leadership di Hamas avrebbe autorizzato un’operazione che rischiava così chiaramente di mandare a monte i risultati politici del movimento, distruggendo la vantata unità e lasciando senza rivali Abbas in Cisgiordania?
Il blitz di propaganda del governo israeliano ha affogato domande che fanno riflettere come questa. A sua volta, l’ordine di censura ha ostruito il flusso di informazioni che avrebbero complicato la propaganda.
Determinato a riformulare la narrazione dei media internazionali attorno alla difficile situazione di Israele nelle mani del terrorismo palestinese, Netanyahu è andato all’attacco.
#BringBackOurBoys
Il 17 giugno, lo stesso giorno in cui l’esercito israeliano confiscava le telecamere a circuito chiuso di Beitunia che avevano registrato le immagini dei suoi soldati intenti a uccidere due ragazzi palestinesi disarmati durante la protesta del Nakba Day, l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite Ron Prosor saliva dietro un leggio presso la Missione delle Nazioni Unite a New York.
“Sono passati cinque giorni da quando i nostri ragazzi sono scomparsi – tuonava Prosor – e chiedo alla comunità internazionale: dove siete? Dove siete!? ”
Riferendosi al governo di unità nazionale Fatah-Hamas, Prosor aggiungeva: “Tutti quelli che nella comunità internazionale si erano precipitati a benedire questo matrimonio, dovrebbero guardare negli occhi i genitori straziati e avere il coraggio di assumersi la propria responsabilità condannando il rapimento. La comunità internazionale ha fatto un cattivo affare e Israele sta pagando per questo “.
Accanto Prosor c’era un grande cartello che mostra i volti sorridenti dei tre ragazzi scomparsi sotto un hashtag che recitava #BringBackOurBoys. Il blitz propagandistico di Israele si stava avvicinando al suo apice.
Per giorni, i leader della propaganda online addestrati da Israele – dal portavoce delle unità dell’esercito israeliano, all’Agenzia ebraica, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri – hanno inondato i social media con l’hashtag #BringBackOurBoys. Imitando la promozione di Michelle Obama dell’ hashtag #BringBackOurGirls che mirava a sensibilizzare sul rapimento di studentesse nigeriane da parte di militanti islamici, l’accigliata moglie del primo ministro israeliano, Sara, ha postato una sua foto su Facebook mentre mostrava un cartello che recitava: #BringBackOurBoys.
La campagna sui social media ha riecheggiato in tutte le comunità ebraiche degli Stati Uniti, con le sinagoghe di tutto il paese che esponevano nastri gialli in uno spettacolo di solidarietà con i ragazzi scomparsi attentamente coordinato. A New York, i politici locali apparivano ai raduni pro-Israele, mentre i diplomatici americani – dall’ambasciatore degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite Samantha Power all’ambasciatore Susan Rice – gareggiavano tra loro per il tributo più emozionante offerto ai ragazzi rapiti.
A Rachel Frenkel, la madre del rapito Naftali Frenkel, il governo israeliano ha pagato un viaggio al Comitato delle Nazioni Unite per i diritti umani a Ginevra, per invocare l’aiuto internazionale per salvare suo figlio.
L’intera campagna di propaganda è stata messa in moto immediatamente, nonostante Netanyahu e la sua cerchia interna sapessero che i ragazzi erano quasi certamente morti. Ed è stata attivata grazie all’ordine di censura dello Shin Bet, che persino i corrispondenti stranieri come il responsabile dell’ufficio del New York Times Jodi Rudoren hanno rispettato. Il governo israeliano ha rifiutato di consentire ai fatti da interferire con quella che sembrava un opportunità politica.
Dietro l’immagine pietosa che veniva mostrata al mondo, la società israeliana era assetata di sangue. Una pagina di Facebook creata spontaneamente chiedeva l’esecuzione di un prigioniero palestinese per ogni ora in cui i ragazzi fossero rimasti dispersi, mentre un’altra chiamata “Il popolo di Israele chiede vendetta” ha raccolto più di 35 mila likes, per lo più da giovani israeliani, in pochi giorni.
Manipolato da una campagna di alto livello di inganno e disinformazione per fargli credere che “suoi ragazzi” fossero ancora vivi, il pubblico israeliano stava per ricevere notizia scioccante. Nena News (continua)
Traduzione a cura della redazione di Nena News