di: Andrea Cinquegrani
Clamorosa svolta nel giallo Conti. Ad un anno e mezzo da quel più che anomalo “suicidio” del generale dei carabinieri Guido Conti, il caso si rianima.
Grazie all’impegno della famiglia che non si è arresa a quella pista chiaramente fasulla, e del gip del tribunale di Sulmona, Marco Billi, che ha respinto la richiesta di archiviazione avanzata dal pm Aura Scarsella.
La prossima udienza è ora fissata per l’11 luglio.
Ma cerchiamo di ricostruire quella morte più che mai avvolta nel mistero.
LE TANTE ANOMALIE DEL “SUICIDIO”
Il 17 novembre 2017 viene ritrovato, nelle vicinanze di Sulmona, il cadavere del generale del corpo forestale dei carabinieri, una vita di grande impegno professionale, dedicata soprattutto alla scoperta di grossi reati ambientali, dai traffici milionari di rifiuti tossici alle maxi discariche, come quella che aveva scoperto a Bussi, nel pescarese, la più grande d’Europa.
Negli ultimi anni il generale indaga anche sulla tragedia di Rigopiano. Terminata la lunga carriera, Conti va in pensione. Ma non se la sente di incrociare le braccia e vuole ancora lavorare. Ed ecco che si prospetta una consulenza per la sicurezza ambientale alla Total Italia, impegnata nei contestati lavori a Tempa Rossa che provocarono addirittura le dimissioni del ministro dell’Industria nel governo Renzi, ossia Federica Guidi.
Conti lascia due lettere per la famiglia. In esse descrive tutto il dolore provato per le indagini di Rigopiano, una vicenda che gli pesa sul cuore come un macigno. Ecco cosa scrive: “Da quando è successa la tragedia di Rigopiano la mia vita è cambiata. Quelle vite mi pesano come un macigno. Perché fra i tanti atti ci sono anche prescrizioni a mia firma. Potevo fare di più?”.
I media puntano quindi dritti sulla pista “Rigopiano”. Tutto il resto passa in cavalleria.
Ma spunta subito un giallo nel giallo.
Alla redazione del maggior sito d’informazione in Abruzzo, Primadanoi, nella giornata in cui il generale scompare e non dà più notizie di sé, arriva una misteriosa telefonata, una voce metallica, imbarazzata che fa cenno all’incarico del generale alla Total. Incarico che – si scopre – aveva lasciato appena due giorni prima: durato neanche un mese. “Conti ha lasciato Total. Lo potete verificare – dice la voce – telefonando in azienda oppure chiamando il generale”.
Racconta il direttore di Primadanoi, Alessandro Biancardi, che aveva raccolto la telefonata: “Non si capisce perché quella telefonata poche ore prima del ‘suicidio’, proprio quando Conti aveva appena fatto perdere le sue tracce e iniziato a far preoccupare la famiglia”. E prosegue: “A dirla tutta, sembra strano che Conti nel suo scritto abbia parlato di Rigopiano e non accennato per niente alla Total e alla decisione di lasciarla così rapidamente”
Ancora: “Che la sua morte non sia dovuta alla sola vicenda di Rigopiano sembra esserne convinta anche la procura di Sulmona che, non a caso, ha indirizzato le sue ricerche soprattutto sull’ultima fase professionale di Conti: il suo addio alla divisa e la sua assunzione alla Total. I carabinieri dell’Aquila hanno già sentito diversi dirigenti della multinazionale, tra cui l’amministratore delegato Francois Rafin e hanno anche acquisito le conversazioni che Conti ebbe il 7 novembre e i giorni seguenti con il blogger ambientalista Giorgio Santoriello con cui ebbe un vivace confronto su Facebook proprio in relazione al passaggio in una multinazionale privata. Sui misteri di Tempa Rossa e gli effetti inquinanti”.
La pista sulla quale la procura di Sulmona lavora è quella di “istigazione al suicidio”.
SETTE COSE CHE NON TORNANO
E fanno subito capolino non poche anomalie ed elementi sospetti sui quali indagare a fondo: “una morte con troppi interrogativi senza risposta”, scrive oggi il Corriere della Sera. Che prosegue: “Come ad esempio la posizione della mano da cui è partito il colpo della calibro 9, anomala per chi si è appena sparato alla tempia. O come la presenza, sul luogo e nell’ora del decesso, di un Suv con a bordo uno sconosciuto. Perché era lì?”.
Nella memoria presentata dal legale della famiglia Conti, Alessandro Margiotta, in procura, vengono sottolineati sette punti da chiarire. Tra cui appunto la posizione del corpo “trovato prono e con la mano destra che impugna la pistola e l’avanbraccio ripiegato verso il petto che non collima con l’ipotesi di suicidio per un colpo sparato alla testa”.
Poi c’è la presenza di una Cayenne bianca ultimo modello, “con luci posteriori a forma rettangolare e non bombate”, come riferisce un testimone che avrebbe visto l’auto dove è stato poi trovato il cadavere.
Si parla ancora di alcune telefonate non poco turbolente che Conti ha avuto nei giorni precedenti (tra cui quelle con l’ambientalista Santorelli); e di quella anonima ricevuta da Primadanoi, che poi risulterà effettuata da un dipendente Total che si è dichiarato particolarmente colpito dalle fresche (due giorni prima) dimissioni del generale.
C’è quindi il giallo dei documenti distrutti, quando due giorni prima di scomparire il generale – scuro in volto e taciturno – si reca in una computisteria per distruggere tutte i file dei documenti che conservava nella memoria del suo computer. Perché?
Insomma una serie di quesiti e interrogativi non da poco, degni di rigorosi approfondimenti e di ricerche a tutto spiano.
E invece cosa fa il pm Aura Scarsella? Chiede nientemeno che l’archiviazione. Respinta dal gip Marco Billi che chiede, naturalmente, di proseguire nelle indagini. Un po’ come sta succedendo da alcuni anni a Roma, per il caso Alpi, tra le richieste del pm Elisabetta Ceniccola di archiviare il caso e i gip che vogliono ancora andare avanti alla ricerca della verità.
SCARSELLA CHI ?
Ma chi è Aura Scarsella?
Un pm da anni in servizio alla procura di Sulmona, e per questo considerata “il pm anziano”.
Il suo nome ha fatto capolino nelle cronache giudiziarie una quindicina di anni fa, proprio in occasione di un altro suicidio eccellente, quello dell’allora sindaco di Roccaraso Camillo Valentini.
Eccoci quindi ad un altro giallo mai chiarito. Il 16 agosto 2004, nel carcere di Sulmona, l’ingegnere e sindaco, una persona stimata da tutti i suoi concittadini e in tutta la regione, viene ritrovato cadavere nella sua cella, la testa infilata in una busta di plastica legata con i lacci delle scarpe (le modalità ricordano quelle per la morte in galera del vertice Eni Gabriele Cagliari ai tempi di Mani pulite).
Era stato sbattuto in carcere, Valentini, dopo le dichiarazioni di un costruttore locale, Federico Tironesi, dalle cui denunce erano partite le accuse di concussione, puntualmente recepite dalla procura di Sulmona, che subito dispose gli arresti, compreso quello di Valentini. Nel 2008 Tironesi sarà condannato per calunnia nei confronti del primo cittadino: ma ormai è troppo tardi.
Sulla vicenda scrive un’interrogazione di fuoco all’allora guardasigilli leghista Roberto Castelli il parlamentare socialista Enrico Buemi, tra l’altro membro della commissione giustizia e presidente del Comitato carceri.
Punta l’indice Buemi: “Successivamente al tragico evento sono emerse una serie di circostanze, a giudizio dell’interrogante, sospette, che riguardano gli organi inquirenti, nonché alcuni elementi della magistratura”.
“Il primo riferimento è ad una lettera anonima pervenuta allo studio dell’avvocato Carlo Rienzi, il battagliero presidente del Codacons che per primo è sceso in campo per far luce sulla vicenda. Nella missiva, trasmessa al Csm, si faceva il nome della “dottoressa Scarsella, magistrato con maggiore anzianità di servizio presso la medesima procura” (quella di Sulmona, ndr), la quale “si troverebbe in una situazione di incompatibilità poiché il proprio marito, dottor Giorgio Leone, è titolare di una farmacia a Roccaraso”. Il pm Scarsella, inoltre, non avrebbe “sempre ottemperato a tale obbligo di astenersi nei procedimenti che riguardano anche il Comune di Roccaraso, con l’evidente concretarsi di un’ipotesi di mancanza di imparzialità”.
Il gup di Campobasso, Libera Maria Rosaria Rinaldi, il 12 gennaio 2012 assolve Carlo Rienzi dall’accusa di aver calunniato i magistrati che si erano occupati del caso Valentini. Durissime le parole del gup, che scrive di “una vicenda oscura e viziata”; di “assoluta inconsistenza delle indagini” e accusa i colleghi sulmonesi di essere entrati in totale confusione, avendo addirittura scambiato Italia Nostra per Cosa Nostra!
Camillo Valentini – ricostruisce il gup di Campobasso – è stato “ingiustamente perseguitato” e “dopo ora trascorse senza dormire, da solo, in un carcere di massima sicurezza, all’alba del 16 agosto 2004 infilava la testa in una busta di plastica chiudendola con i lacci della scarpe da ginnastica, lasciando dietro di sé il dolore dei figli, dei genitori, del fratello, degli amici e i dubbi ancora irrisolti sugli eventi che lo determinarono al compimento del gesto estremo”.
QUELLA VOCE DEVE MORIRE
Il nome di Aura Scarsella rimbalza anche tra le pagine del processo di Sulmona contro la Voce, in seguito alla citazione civile di Annita Zinni, storica amica di Antonio Di Pietro. Scarsella in questo caso è il teste chiave, l’asso nella manica sfoderato dai legali della Zinni per ottenere la condanna della Voce, costretta a chiudere la sua edizione cartacea dopo 30 anni di presenza nelle edicole.
Ecco per sommi capi i fatti. Zinni cita in giudizio la Voce e chiede 40 mila euro per i il profondo turbamento (“patema d’animo transeunte”) morale e corporale che avrebbe subito in seguito alla pubblicazione di un articolo firmato dal giornalista Rai Alberico Giostra e dedicato alla tribolata maturità di Cristiano Di Pietro, figlio dell’ex pm.
Come fondamento delle sue accuse, Zinni produce il parere di una psicologa e, soprattutto, indica Aura Scarsella come teste. A lei, subito, ha confidato quel profondo turbamento, a lei ha aperto il suo cuore lacerato. E il 26 ottobre del 2011 Scarsella andrà a testimoniare per l’amica del cuore.
E davanti a chi? Al giudice Massimo Marasca, altro suo collega, impegnato con la Scarsella in tante inchieste portate avanti alla procura, lui in veste di gip, o di giudice, lei di pm.
E portano avanti insieme altre battaglie, Scarsella e Marasca, ad esempio nel caso di un ricorso al Tar – insieme ad altre toghe – per via di alcune decurtazioni di stipendio avviate a livello nazionale.
A questo punto – senza alcun problema – la Voce viene condannata. Non a quanto chiede l’insegnante sulmonese Zinni, ma per il doppio: la bellezza di 90 mila euro e passa. Un vero e proprio record nei risarcimenti danni chiesti a giornali ed editori: basti pensare alle medie dell’Espresso (fresca la condanna per un articolo di Lirio Abbate a 40 mila euro) o di Mondadori (appena 20 mila per Gomorra di Saviano e uno scambio di persona).
Siamo costretti cinque anni fa a cessare le pubblicazioni, non avendo più la possibilità economica di stampare la Voce, con i conti correnti bloccati (anche quelli personali). Per inciso, anche Primadanoi è costretto, un anno fa, a chiudere, sempre per una assurda maxi condanna civile di risarcimento danni, la vera mannaia che sta decapitando tante testate storiche di piccola e media dimensione, ammazzando quel poco che resta della libertà d’informazione.
Nel frattempo il giudice Massimo Marasca ha trovato il tempo per denunciare la Voce, colpevole di aver descritto la Zinni story: chiede a sua volta 80 mila euro per la lesa maestà.
E si è trasferito, da qualche anno, al tribunale di Civitavecchia. Nel recente pedigree spicca una chicca: in occasione del processo per il caso Vannini che ha destato scalpore e stupore in tutta Italia, non ha accolto la richiesta della parte civile di citare in giudizio il ministero della Difesa, che dovrebbe di tutta evidenza occuparsi del risarcimento danni: una dimenticanza o cosa?
30 Maggio 2019