Una cornice per svolte autoritarie imminenti
di Carla Filosa
L’organamento dello stato… è il tentativo di fissare,
di difendere e di perpetuare le diseguaglianze, e,
per via delle nuove antitesi che vi reca dentro,
rende di continuo instabile l’ordinamento sociale.
A. Labriola, “Del materialismo storico”, 1899.
Democrazia svuotata
Ancora una volta – come già annotò A. Labriola più di cent’anni fa per i suoi tempi – la democrazia si è infranta sul fronte degli affari, che esigono un “mondo del lavoro cambiato”. Quest’ultima, infatti, è l’indeterminata motivazione alla “riforma del mercato del lavoro” data dall’attuale Presidente del Consiglio, che, per renderla più esotica e attraente, ha scelto una denominazione ispirata (o forse proprio copiata) al collega d’oltreoceano Obama. Il Giobàtt, come molti pronunciano, è stato varato legge, dopo l’approvazione al senato per pochi voti di appartenenza al partito, ma con riserva – da parte di 27 senatori – impegnatisi a vigilare sui decreti attuativi futuri, e altresì con dichiarazione di dissenso sul “doppio binario” di divisione tra lavoratori, ostinatamente perseguito dal governo. La biforcazione riguarda i lavoratori già occupati, per cui è rimasto solo una minima parte dell’art. 18, e i nuovi per cui entreranno in vigore le “tutele crescenti”, definite invece dai senatori “tutele ridotte”, per l’autostrada spianata ai licenziamenti per le sole cosiddette ragioni economiche, peraltro già esistenti nelle attuali normative. In realtà la formulazione “licenziamento disciplinare”, se riconosciuto ingiustificato, comporta la possibilità di reintegro lavorativo. Resta da capire quale azienda vorrà utilizzare questa forma autolesionista, mentre sarà più comodo e veloce il motivo esclusivamente economico al licenziamento previsto. La nuova legge prevede poi, al posto del reintegro effettivo, una monetizzazione da definire, computata probabilmente in base all’anzianità di servizio, come già detto nel nostro passato “ventennio”.
“XVII. Nelle imprese a lavoro continuo il lavoratore ha diritto, in caso di cessazione dei rapporti di lavoro per licenziamento senza sua colpa, ad una indennità proporzionata agli anni di servizio. Tale indennità è dovuta anche in caso di morte del lavoratore”. Il virgolettato riporta l’articolo XVII della Carta del Lavoro approvata dal Gran Consiglio del 21-22 aprile 1927. Oggi, non è fatta menzione del caso di morte dei “prenditori di lavoro”, su questo vantaggiosamente tutelati nel periodo fascista.
Al primo posto si è menzionato il problema dei licenziamenti, dato che i governi postberlusconiani, e molti media in loro appoggio, hanno mostrato essere questo il motivo principale della mancanza degli investimenti produttivi in Italia. Come da sempre ricordato, la crisi di capitale si rovescia in crisi di lavoro. Si attivano quindi leggi, che riducano i costi imprenditoriali e ne facilitino ogni operazione necessaria, sia alla propria sopravvivenza sia contemporaneamente alla supremazia concorrenziale. Il plauso di Confindustria al Giobàtt ne è la conferma conclusiva. Espugnato l’ultimo baluardo rimasto ad ostacolare l’arbitrio dei licenziamenti padronali, ovvero l’eventuale uso del ricatto lavorativo nei confronti del dissenso o lotta contro il comando aziendale, la riforma cosiddetta del lavoro offre tutto il suo vuoto contenutistico sulle ristrutturazioni o conversioni da effettuare dall’altra parte, quella capitalistica. Questa, infatti, si riserva di agire dietro il paravento di ddl governativi, qualunque governo d’ora in poi si affacci alla ribalta di un potere facilitato dalla eradicazione dei diritti del lavoro dipendente. Il “mercato”, cioè la forma ideologica in uso per non menzionare il capitale finanziario nella sua proteiforme dimensione transnazionale, questa ricorrente astrazione concettualmente inafferrabile è paga di aver “infranto” la parte consistente, sul versante lavorativo, del diritto democratico all’autodifesa giuridicamente riconosciuta giusta.
I nuovi eroi
Nella canzone di Caparezza “Sono un eroe” si delinea la condizione di necessaria resistenza da parte di chi si trova, con un cappio al collo, a vivere da precario, disoccupato, nullatenente, ecc., ma con un incontenibile impeto di riscatto vitale nell’autodefinirsi eroe di questi tempi, anche perché “sopravvivo al mestiere” . Nel Giobàtt renziano sembra potersi rintracciare – a meno di una smentita da parte dei ddl a venire – anche un attacco a quest’aspetto della possibilità di sopravvivenza. L’eroe di Caparezza dovrà imparare a sopravvivere non solo alla concretezza del suo mestiere, ma anche alla sua astrazione, quale generico dispendio di forza–lavoro umana (dispendio di cervello, muscoli, nervi, mani, ecc.). La revisione delle mansioni di cui sopra non deve essere intesa solo come un qualunque demansionamento possibile, di cui si promette il mantenimento salariale, oppure un generico spostamento in un altro lavoro utile all’azienda, per cui sarebbe magari necessaria l’acquisizione di un’altra competenza. Si potrebbe trattare invece di un invisibile uso accresciuto della “fecondità del lavoro e quindi [del]la massa dei valori d’uso da esso fornita” (K.Marx, C.I,1), data una variazione della forza produttiva (migliori terreni, materie prime, macchinari di ultima generazione, ecc.). In altri termini, l’aumento complessivo della massa di valore (tempo di lavoro necessario genericamente erogato in forma sociale) prodotto, viene ripartito, non in modo equo, ma a maggior vantaggio del datore di lavoro, che visibilmente manterrebbe lo stesso salario con lo stesso tempo di occupazione per il lavoratore spostato. La manovra, invisibile, non renderebbe conto cioè del maggior profitto reso all’azienda, legittimata da mutate esigenze produttive su cui neppure a livello sindacale si ha voce in capitolo.
Il “contratto a tempo indeterminato” – che nelle parole di Renzi dovrebbe equiparare i lavoratori – non solo contempla ogni flessibilità richiesta ai salariati quale potenziale divisivo interno, ma non fissa nessun minimo salariale – essendo forse scontato che per definizione il salario è sempre il minimo storico! –, oltre a illudere i nostri eroi di essere assunti per soddisfare i bisogni di tutta la società. Le assunzioni, se e quando si verificheranno, saranno funzionali solo ai bisogni di valorizzazione dei capitali investiti – di qualunque nazionalità di provenienza -, e ciò significa che dovrà aumentare il tasso di sfruttamento. ovvero di quantità lavorativa erogata non pagata, di cui l’azienda di turno si approprierà silenziosamente. Ciò che invece si vedrà con chiarezza sarà il numero diminuito degli occupati, relativamente, in quanto gli investimenti produttivi, che eventualmente riprenderanno, potranno assumere un numero proporzionalmente decrescente di forza-lavoro viva. Il prodotto cioè di una sovrappopolazione lavorativa superflua (rispetto alle esigenze di accumulazione dei capitali) è una legge costante, peculiare di questo sistema, in modo da poter disporre di un materiale umano sfruttabile, sempre pronto per i mutevoli bisogni della valorizzazione dei capitali. Il numero dei lavoratori occupati diminuisce in rapporto alla produzione in aumento, e diminuisce anche la quantità lavorativa destinata alla parte degli occupati. Ad una quota della popolazione occupata viene richiesto un lavoro intensificato anche con l’allungamento della giornata lavorativa, mentre a quella superflua tocca il ruolo di riserva a ozio forzoso. “I movimenti generali del salario sono regolati esclusivamente dall’ espansione e dalla contrazione dell’esercito industriale di riserva, le quali corrispondono all’ alternarsi dei periodi del ciclo industriale. Non sono dunque determinati dal movimento del numero assoluto della popolazione lavoratrice, ma dalla mutevole proporzione in cui la classe lavoratrice si scinde in esercito attivo e in esercito di riserva, dall’aumento e dalla diminuzione del volume relativo della sovrappopolazione, dal grado in cui questa viene ora assorbita ora di nuovo messa in libertà”. (Ib. C. I, 23).
Al nostro eroe, l’eroe di questi tempi di stagnazione va detto subito che nel Giobàtt non troverà nulla di tutto ciò e che dovrà restare in attesa messianica dei ddl, “entro sei mesi dalla entrata in vigore della presente legge”, entro cui si arrangerà a non morire di fame, e magari potrà anche essere informato del fatto per cui un aumento assoluto di capitale non necessariamente comporta un aumento della domanda generale di lavoro. Il capitale agisce su tutti e due i fronti dell’esercito lavorativo: su quello occupato e quello non occupato, ponendoli in concorrenza tra loro ed esercitando in tal modo il suo ruolo dispotico. L’offerta di lavoro diventa in un certo modo indipendente dall’offerta dei lavoratori, lasciando alla domanda di lavoro un’egemonia gestionale che gli economisti sacralizzano ed eternizzano come legge della domanda e dell’offerta di lavoro. “Ogni solidarietà fra i lavoratori occupati e quelli disoccupati turba infatti l’azione “pura” di quella legge” (Ib.)
Sempre legato alla possibile revisione del mansionario, poi, in attesa dei sei mesi di decretazione imponderabile, i nostri tanti eroi dovranno considerare che gli eventuali spostamenti saranno funzionali anche ad accrescere una forza-lavoro combinata. La cooperazione di più forze-lavoro disposte in modo tale per cui il diverso contributo di ognuna porta a compimento un processo produttivo unitario, aggiunge ulteriore valore al processo stesso. Non più il singolo lavoratore, ma l’insieme operativo di molteplici lavoratori funzionali ad uno stesso processo, determina sia la qualità sia la quantità produttiva di un certo settore, come pure il suo successo competitivo. La mansione da affidare in forma stabile o mobile diventa perciò cruciale nei settori in cui la combinazione delle forze è soggetta a mutamenti frequenti o improvvisi, per l’ottimizzazione dell’uso di una forza-lavoro come una pedina sullo scacchiere della valorizzazione. Connesso a tutto ciò sembra essere il controllo dei lavoratori. Ormai la tecnologia permette un controllo soft, espresso in termini di “controllo sugli strumenti”. Il ruolo storico del sorvegliante esterno, in carne e ossa, è ormai un reperto da museo. Il controllo avviene ora per definizione a distanza, o nelle forme inscritte nell’autosfruttamento del cottimo, o mediante i computer, anche con il blocco di determinate operazioni (accessi all’esterno, impossibilità di raggiungere certi siti, ecc.), con l’open space, con le telecamere, i cartellini di ingresso e uscita, ecc. “La tutela della dignità e riservatezza del lavoratore” è solo la forma ideologica, detta con altre parole, che fa eco all’ipocrita parità di chi compra e chi vende capacità lavorativa. Giuridicamente e apparentemente liberi e uguali, chi compra è invece sostanzialmente, realmente egemone su chi vende, perché a quest’atto quest’ultimo soggiace quale sua unica possibilità di vivere.
Sintesi sinis-destrorsa liberale
Se quanto ora analizzato o criticato è tutto ciò che non si trova nel Jobs Act, procediamo a quanto per definizione non vi si trova perché connesso alla cosiddetta legge di Stabilità. Prima di ulteriori modifiche, probabilmente ancora in corso, sembrerebbe che ai lavoratori a più basso reddito e a quelli più in difficoltà economiche non toccherà la liquidazione e la previdenza integrativa, al momento dell’uscita lavorativa. La norma governativa aumenta infatti la tassazione dall’11% al 20% per coloro che decidono di indirizzare il Tfr a fondo pensione; aumenta altresì la tassazione dall’11% al 17% sulla rivalutazione della liquidazione a fine lavoro. Lo sprone all’anticipo del Tfr in busta paga è costituito dalla non tassazione al momento per i lavoratori con bassa aliquota sullo stipendio, ma non si sa in futuro. Per tutti gli altri sembra che la tassazione dell’anticipo in busta paga sia più alta di quella a fine rapporto.
Per tutto il percorso lavorativo, in altri termini, chi è costretto a lavorare per vivere viene oberato di costi sociali volti a erodere il proprio reddito senza possibilità di difenderlo. Tali tassazioni dovrebbero infatti facilitare le aziende ad assumere personale a tempo indeterminato senza oneri contributivi per tre anni. Nessuno garantirà il non licenziamento allo scadere dei tre anni, per rinnovare poi lo sgravio contributivo per altre assunzioni “indeterminate”. Se si considerano poi i tagli effettuati da questa legge a Regioni (4 miliardi), Comuni (1,2 miliardi) e Province (1 miliardo), a detta anche di Bankitalia e Corte dei Conti, aumenteranno le tasse locali. Dal prossimo anno le Regioni innalzeranno di 1 punto l’addizionale Irpef. Il taglio anche delle Asl, annunciato anch’esso da Renzi, non sarà senza ripercussione sui servizi sanitari nonostante le facili rassicurazioni verbali. L’erosione salariale risulterà così costantemente indiretta, ma funzionale a un reale attacco al reddito da lavoro.
Oltre l’impegno, ipotizzato sulla carta, di incrementare le risorse per gli ammortizzatori sociali, non c’è nulla su cui contare o discutere. Nella legge di Stabilità si dovrebbe capire un passaggio da 2 a 3,4 miliardi, comprensivi dei 700 milioni circa per la cassa integrazione in deroga. Per ora l’unico reale ammortizzatore sociale è la famiglia o l’amicizia solidale: il popolo dei senza lavoro, del precariato, dei cassintegrati, degli esodati, della povertà assoluta continua a tirare avanti solo per il differimento dei redditi lavorativi che altri, in tempi di espansione capitalistica, hanno potuto mettere da parte. Il cosiddetto piccolo risparmio da sempre è servito per continuare a campare in previsione delle crisi cicliche in cui incorre il sistema, le cui leggi economiche per nulla sono interessate alla relativa esistenza o meno delle persone. In tal senso sembra di dover interpretare anche l’altro punto del Giobàtt riguardante l’“adeguato sostegno alle cure parentali attraverso misure volte a tutelare la maternità delle lavoratrici e favorire le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per la generalità dei lavoratori”, per cui si resta in attesa dei ddl governativi. L’inconcludenza programmatica continua di questa legge su questo punto risulta essere particolarmente grave. Tutti siamo a conoscenza delle discriminazioni più vili e maschiliste finora realizzate che, proprio perché riguarda un buco di produttività lavorativa, la legge del profitto ha sempre perpetuato. La vita sociale, la sua riproduzione umana non rientra nella produzione di valore. L’esclusione sociale femminile non è ancora storia del passato. Uno dei cardini su cui si è da sempre impiantata è proprio quello della maternità, di cui si è parlato solo in termini di tutela e non di necessità e onere sociale da ripartire su tutta la collettività. Proprio per questo sarebbe stato qualificante che una legge dello stato avesse programmato il coinvolgimento di sindacati e strutture pubbliche qualificate nell’articolazione di normative, demandate nella loro stesura al Parlamento, ma consultate e discusse per una omogeneità di applicazione in tutti i settori lavorativi. Il rinvio governativo risulta essere, come del resto per tutti gli altri, sintomo di incapacità di confronto democratico, soprattutto su una tematica che riguarda la vita di tutto il paese, finora inadeguato a impedire poi che il tempo di vita fosse continuamente fagocitato da quello lavorativo.
“Il fascismo che c’è”.
Sono le ultime parole del film “All’armi siam fascisti” curate da F. Fortini nel 1961, in cui si avverte di stare in guardia perché se il fascismo di Mussolini è storicamente tramontato, ne restano sempre le motivazioni che l’hanno prodotto. Ed è su queste motivazioni ancora presenti che si proverà a fare qualche riflessione. Si scartino subito le interpretazioni idealistiche di tipo crociano che lo considerarono una parentesi storica. Invece che crisi dei valori, della libertà, ecc. andiamo ad analizzare la natura della crisi economica all’origine della I guerra mondiale, e tutte le diseguaglianze sociali da essa derivate. Tutte le motivazioni di natura storica (unificazione nazionale tardiva, ecc.) sono interne al ruolo che il fascismo degli anni venti ebbe poi nel tessuto produttivo e sociale. La rozzezza, violenza e vistosità di quel fascismo erano forse necessarie per l’epoca, in cui la conflittualità sociale preludeva ad un possibile avanzamento di presenza politica delle masse, soprattutto dopo la presa del potere bolscevico nella rivoluzione del 1917. Le leggi di funzionamento del capitale erano state messe in crisi da tanti fattori legati all’esito della guerra, che aveva solo parzialmente risolto i problemi dell’egemonia mondiale. Per continuare nei processi di autovalorizzazione in un clima di alta competitività internazionale, al fascismo e poi al nazismo fu chiesto di anticipare un ruolo governativo di pieno controllo delle classi lavoratrici, cui poi si conformarono anche i paesi cosiddetti democratici. Qui ora non interessa la specificità o folklore politico (anche tragico), con cui i fascismi europei si caratterizzarono. Ciò che si intende mettere a fuoco, per ciò che interessa oggi, è il compito di guardiano delle conflittualità sociali come che sia, e di assicurazione del comando sul lavoro interno all’ideologizzazione dell’armonizzazione sociale, possibile come “ordine nuovo”. Il “fascismo che c’è” ancora si ispira a quei provvedimenti economici senza però quell’evidenza brutale, che nessuno potrebbe oggi accettare. I tempi sono diversi ma la crisi di capitale incombe di nuovo. Tutto il Jobs Act è intriso di ansia di “conciliazione”, i sorrisi accattivanti, un po’ sexy di Boschi e Madia, inseparabili immagini gradevoli accanto a quella del capo costituiscono una rassicurazione benevola e “rasserenante” verso tutti, a conferma delle promesse pacificanti ancorché volatili di lui. Facilitazioni fiscali e liberazione da impacci burocratici degli anni ’23-’25 vengono ripresi anche nelle “semplificazioni” odierne e, seppure non sia possibile svalutare l’euro – come allora si trattò per la lira a “quota 90” (contro 1 sterlina, invece delle 120-125, secondo i cambi del 1925) -, Renzi ha fatto di tutto per mostrare a industriali singoli e multinazionali di fornire tutte le garanzie per soddisfare le loro richieste e saper mediare benevolmente con i lavoratori. La clausola è il riconoscimento dell’autorità del proprio governo, di cui il rinvio costante nella cornice del Jobs Act ne è prova, come pure la riproposta di uno stato corporativo (conciliazione tra padroni e lavoratori) dove i sindacati, già per lo più istituzionalizzati non hanno voce in capitolo sulle scelte economiche e nelle tutele dei lavoratori di là da decidere. La “Carta del Lavoro” del ’27 – già menzionata nel merito di un articolo praticamente copiato – non riuscì a impedire la disgregazione di quell’ideologica collaborazione delle classi di fronte all’aumento della disoccupazione e delle lotte operaie. La risposta identica di scaricare sui redditi da lavoro dipendente l’impossibilità di accumulazione dei profitti è la sola risposta che il capitale sa dare indipendentemente dai tempi.
A tale intrapresa non è mancato l’appoggio del Vaticano allora, conclusasi con i “patti lateranensi” dell’11.2.1929, come oggi con il nuovo boy scout al potere. Accomunati anche dal credito internazionale che i due leader hanno saputo conquistarsi, sia in Europa sia negli Usa, secondo un supposto piano di modernizzazione, lo slogan vuoto del “cambiamento”, con la variante attuale della “rottamazione”, stanno a indicare il proposito di “società come unità integrata”, non più col Patto di Palazzo Vidoni (1925), ma col Patto del Nazareno (2014). Lo sradicamento sociale delle classi medie (fenomeno comune, anche se diverso nei due periodi storici), oggi aggravato dal fenomeno di un’immigrazione massiccia che non si coglie nella totalità del suo processo, il peso di una crisi economica percepita anche come crisi esistenziale, cioè letta con gli occhiali di un miope individualismo egocentrico, ed altri fattori ancora mostrano come una possibilità di riscatto sociale possa passare attraverso l’accettazione dell’uomo solo al comando.
L’induzione del consenso che caratterizzò il fascismo storico, oggi corre con passi più veloci e se all’inizio lo “stai sereno” renziano ha incontrato favore da parte di altrettanti scalpitanti aspiranti politicanti, che sembravano trainare interessi eterogenei, le astensioni delle ultime elezioni, gli scioperi, gli scandali romani, ecc. riducono ogni giorno più l’indice di gradimento popolare di un partito il cui Segretario/Presidente del Consiglio risulta visibilmente inconsistente. Operazioni economiche quali eventuale acquisizione dell’Ilva da parte dello Stato (definita “comunista” da qualche giornalista ignorante), non fa che riprendere timidamente il tentativo roosveltiano (1932) di proporre l’intervento regolatore dello stato nell’economia. L’acquisto e il ripristino dell’azienda da parte dello stato è infatti possibile con i soldi dei contribuenti; una volta risanata verrà venduta – questo il proposito – a prezzi irrisori a privati che ne trarranno tutti i vantaggi.
Concludendo, non c’è bisogno di vedere una camicia nera o altri segni di un passato ormai trascorso. C’è bisogno invece di coltivare una memoria storica – non semplificata – che sostanzi lo sforzo di capire i fatti del nostro tempo, che non danno mai conto di sé stessi se non analizzati con criteri interpretativi estratti dalla storia stessa. I facili diversivi messi in atto: il razzismo nascente, la xenofobia, la stessa cronaca del malaffare, ecc. sono tutti derivati dal dispotismo di un’oligarchia finanziaria che sta dettando ferree condizioni agli stati per porre sotto stretto controllo le masse da sfruttare. Il sistema di capitale versa in una crisi senza precedenti travolgendo le classi subalterne. Tracce di fascismo che avevano funzionato in altra epoca si riesumano con facilità. Non risultano però come elementi innovati di un piano organico di oppressione. In questa porosità strategica di un potere mondiale in stallo c’è lo spazio per continuare a lottare con qualunque mezzo a disposizione.
“Ma lo sai che è morto il Giobatta, il commerciante di merluzzo”
“Avrà avuto la sua convenienza”
[Gilberto Govi]
da http://www.contraddizione.it/