Il ritrovamento del fucile che sparò ad Antonino Scopelliti apre nuovi scenari sulle intese mafiose delineate nell’inchiesta ‘Ndrangheta stragista. Le intese tra calabresi e siciliani, la “necessità” di mettere pace tra i clan e il tentativo di prendere tempo nel maxi processo a Cosa nostra
REGGIO CALABRIA Sulla sua morte non si è mai smesso di indagare. In silenzio, tassello dopo tassello, la Dda di Reggio Calabria ha lavorato per ricostruire il quadro in cui si incastra l’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, ucciso il 9 agosto del 1991 a Piale, mentre tornava a casa dal mare solo e senza scorta. Più volte l’inchiesta è stata chiusa e poi riaperta, perché a Reggio Calabria da tempo ne sono consapevoli. Nella storia della ‘ndrangheta reggina, l’omicidio del giudice Scopelliti, freddato nei mesi in cui studiava i fascicoli per sostenere l’accusa nel maxi processo, che di lì a poco sarebbe iniziato in Cassazione, segna un prima e un dopo. Per questo, al sesto piano del Cedir non hanno mai smesso di cercato mandanti, esecutori, facilitatori di quell’omicidio. E la svolta è arrivata.
LA SVOLTA Qualche giorno fa, nel corso di una perquisizione di un fondo agricolo nel catanese, è stato ritrovato un fucile calibro 12 da cui si ritiene che siano partiti i colpi che hanno ucciso il giudice Scopelliti. L’annuncio è stato dato dal procuratore capo Giovanni Bombardieri, nel giorno dell’anniversario della morte del giudice. «Nelle indagini che la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria sta portando avanti sempre in relazione a quel fatto atroce, abbiamo raggiunto e aggiunto un tassello importante alle indagini – ha detto Bombardieri –. Una serie di elementi ci inducono a ritenere che l’arma rinvenuta e sequestrata, peraltro nel territorio del Catanese, sia quella utilizzata per l’omicidio».
ATTIVITÀ MIRATA Non si tratta di una scoperta casuale. In quel fondo del catanese, la Mobile e la Scientifica di Reggio Calabria sapevano esattamente cosa e dove cercare. E si tratta di un’attività mirata, disposta dal procuratore capo Giovanni Bombardieri e dall’aggiunto Giuseppe Lombardo proprio nel momento in cui – tanto a livello investigativo, come a livello processuale – il complesso mosaico criminale degli anni Novanta inizia a comporsi in maniera chiara.
STRATEGIA EVERSIVA In quel periodo – ha svelato l’inchiesta “’Ndrangheta stragista” e si conferma udienza dopo udienza in dibattimento – le mafie tutte, insieme a pezzi della massoneria piduista, dei servizi legati a Gladio e dell’eversione nera stavano lavorando ad un piano eversivo per individuare nuovi referenti politici, per sostituire i vecchi democristiani, rivelatisi inaffidabili. Una strategia complessa, da attuare in più fasi e con obiettivi intermedi da raggiungere, persino stravolta in corsa, quando il sogno di un’Italia spezzata per regalare uno stato ai clan è stato messo da parte per far convergere forze, soldi e voti su una nuova formazione politica, che più di un pentito ha identificato in Forza Italia.
OBIETTIVI A MEDIO TERMINE Nel frattempo – è emerso dall’inchiesta – bisognava preparare il terreno, con una strategia della tensione necessaria per creare una generica sensazione di instabilità nel Paese, utile per imporre un “governo forte”, strappare concessioni sul 41 bis e magari aggiustare anche qualche processo. Come “il maxi” che proprio in quel periodo arrivava in Cassazione e prometteva di seppellire sotto valanghe di ergastoli i massimi vertici di Cosa Nostra.
LE MANI LUNGHE DEI CALABRESI Un affare di cui probabilmente si sono occupati i calabresi, che – secondo più di un pentito ascoltato in aula nei mesi scorsi – avevano contatti e canali per volgere a proprio favore i tortuosi percorsi della giustizia. In quale ambito tali rapporti siano maturati lo ha svelato il processo Gotha, che per primo ha iniziato a dare un nome e un volto ai componenti della direzione strategica della ‘ndrangheta reggina tutta, individuando gli avvocati Giorgio De Stefano e Paolo Romeo come elementi apicali di quell’organismo.
DIREZIONE STRATEGICA Un’accusa già ritenuta fondata dalla sentenza con cui De Stefano è stato condannato a 20 anni in abbreviato, anche per quei «segreti» di cui parlava, intercettato, il reggente del clan Libri Filippo Chirico. «Qua a Reggio contano i Segreti. Giorgio De Stefano gliel’ha calata la questione. Sei, sette erano in totale. Il coso è di sette» si è fatto scappare mentre parlava con l’amante, ascoltato dagli investigatori. E il “coso” è quell’organismo apicale che da sempre – è emerso tanto nel corso del processo Gotha, come in ‘Ndrangheta stragista – ha gestito le relazioni e le operazioni più importanti e delicate. Con la grande impresa. Con la politica. Con le altre mafie. Con barbe finte e servizi. Con chi ha peso e lo sa «negli ambiti strategici di maggior interesse – con particolare riferimento a quelli politici, istituzionali, professionali, informativi, finanziari, imprenditoriali, bancari ed economici» evocati nel capo di imputazione per cui De Stefano è stato condannato.
I «REFERENTI» E sui rapporti della ‘ndrangheta con le altre mafie i pentiti sono stati estremamente chiari. Il collaboratore siciliano Francesco Onorato forse più di tutti. «Il referente per Cosa Nostra era Paolo De Stefano. Dopo la sua morte, il ruolo è passato ai Piromalli e ai Mancuso. In particolare furono Luigi Mancuso e Giuseppe Piromalli a prendere il posto del De Stefano. Erano loro i referenti. Quando dico referenti – ha specificato – intendo dire che facevano parte di Cosa Nostra, significava che ci si consultava, ci si scambiava favori, anche omicidi». Non si tratta dei regolari rapporti d’affari che molti dei clan hanno con i “cugini” siciliani.
LA DOPPIA AFFILIAZIONE De Stefano prima, selezionati uomini dei Piromalli e dei Mancuso poi avevano la doppia affiliazione. Erano considerati vertice tanto della ‘ndrangheta, come di Cosa nostra, o forse – come hanno lasciato intendere molti collaboratori – della Cosa unica, quella cupola delle mafie tutte, che nei momenti più delicati della storia del crimine organizzato in Italia, ha definito strategie comuni e operato in maniera congiunta. «Giuseppe Graviano aveva poi intrapreso rapporti diretti con queste famiglie» ha spiegato Onorato «queste relazioni rappresentavano la forza di Cosa nostra. Dopo il fallito attentato all’Addaura e dopo la morte di De Stefano, tali rapporti si erano consolidati, soprattutto a Milano».
LA CULLA MILANESE Proprio Graviano è oggi imputato a Reggio Calabria, insieme a Rocco Filippone, considerato mammasantissima in odor di Piromalli, per gli attentati ai carabinieri che secondo il procuratore aggiunto Lombardo sono stati il pegno della ‘ndrangheta alla strategia degli “attacchi continentali”. E già prima che quelle bombe iniziassero a scoppiare a Milano operava il “Consorzio” di tutte le mafie, l’organismo che riuniva uomini dei clan campani, siciliani e calabresi, che operavano insieme in tutto il Nord, sotto la guida – hanno detto fra gli altri pentiti come Salvatore Annacondia, Antonio Cuzzola, Antonio Schettini, Vittorio Foschini – del clan Papalia, «che rispondevano direttamente ai De Stefano».
L’OMICIDIO MORMILE E proprio i Papalia – è emerso nel dibattimento ‘Ndrangheta stragista – si sono occupati dell’omicidio dell’educatore carcerario Umberto Mormile, il primo firmato da quella “Falange armata” che poi ha rivendicato gli attentati continentali. A condannare Mormile – ha raccontato chi ha eseguito quell’omicidio per ordine dei Papalia – è stato l’aver scoperto i rapporti (e i benefici che ne derivavano) fra i Papalia e i servizi. Gli stessi servizi che secondo il pentito Foschini avevano chiesto a Papalia di attribuirsi l’omicidio del boss Totò D’Agostino, che poco prima di morire aveva probabilmente messo il giudice Vittorio Occorsio, ucciso in un attentato anche lui, sulla pista dei fin troppi contatti fra ndrangheta, massoneria e eversione.
L’OMBRA DEI SERVIZI Ma i servizi, che in questa ricostruzione sono ombra perenne, tornano anche nel racconto di un altro collaboratore. Si tratta di Armando Palmeri, uomo di fiducia del capomandamento di Alcamo, Vincenzo Milazzo, ucciso – anche lui – per aver saputo troppo dei rapporti fra mafie e servizi. Milazzo – ha raccontato Palmeri – ha partecipato alle tre riunioni che dal gennaio ’92 a poco prima della sua morte i massimi vertici dell’epoca della mafia siciliana hanno avuto con uomini dell’intelligence. «Alla fine di quelle riunioni, Milazzo era molto turbato. Mi diceva “questi sono pazzi”. Mi spiegava – ha raccontato in aula il pentito – che volevano mettere in atto una strategia di destabilizzazione dello Stato con bombe e attentati».
STRATEGIE E TRATTATIVE Un caos generalizzato – è emerso in un anno di udienze dalle voci di collaboratori diversi per origine, rango e affiliazione – servente alla generale strategia con cui mafie, servizi, pezzi di massoneria piduista ed eversione volevano cambiare l’Italia. E che in itinere puntava a strappare benefici su condizioni carcerarie e 41bis. Una “trattativa” che la sentenza di Palermo ha riconosciuto e la cui definizione potrebbe essere costata la vita al giudice Scopelliti.
IL FAVORE DEI CALABRESI A COSA NOSTRA Anche su questo punto i pentiti sono stati molto chiari. «Quell’omicidio è stato un favore che la‘ndrangheta ha fatto a Cosa Nostra. Non so chi sia stato l’esecutore materiale, ma so che è un favore fatto per volere di Salvatore Riina e della commissione» ha detto il collaboratore siciliano Onorato. E di “favore ai siciliani” hanno parlato anche altri pentiti di Cosa Nostra come Leonardo Messina, Francesco Marino Mannoia, Tommaso Buscetta, Antonino Calderone e Giuseppe Marchese, rampollo dell’omonima “famiglia” mafiosa di Corso dei Mille. «È stata una cortesia a persone di Cosa nostra, perché il dottore aveva in mano il processo di Palermo. Peppe De Stefano mi disse che ad occuparsene sono stati due killer» ha confermato nei tribunali dell’altro lato dello Stretto il pentito calabrese Nino Fiume, che dei fratelli De Stefano era l’ombra su originario mandato di don Paolino. E in aula stava quasi per dire il nome di uno dei killer, prima di essere bloccato sul punto dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo.
UN OMICIDIO PER LA PACE (FRA I CLAN) Dal pugliese di stanza a Milano ma inquadrato nei ranghi dei calabresi del Consorzio Salvatore Annacondia è arrivata invece un’altra informazione importante per comprendere il quadro in cui quell’omicidio si è incastrato. Per lui, il delitto Scopelliti è indissolubilmente legato alle trattative di pace per fermare la guerra fratricida che per 6 anni ha dissanguato i clan reggini con oltre 800 morti, ammazzati nello scontro fra condelliani e destefaniani. E il pentito Delta, il quarto della storia della ‘ndrangheta reggina, Giacomo Ubaldo Lauro lo conferma. «Il delitto Scopelliti ci ha indotto a venire a patti con la cosca De Stefano – Tegano-Libri… perché ha determinato un intervento di tutti, e… intendo non solo la ‘ndrangheta calabrese ma anche la mafia siciliana ed il crimine organizzato canadese legato ai calabresi».
E PER LA GUERRA (AL SISTEMA) Quella raggiunta – ha messo a verbale Lauro – era «una pace che pace non è». Ma forse serviva se è vero quello che ha dichiarato il pentito Consolato Villani. «Dopo l’omicidio del giudice Scopelliti – ha detto anche in pubblica udienza – vennero presi degli accordi tra una strettissima parte della ‘ndrangheta e Cosa nostra per fare delle azioni contro le istituzioni e a queste partecipavano elementi dei servizi segreti deviati che erano artefici in queste azioni».
OBIETTIVO, PRENDERE TEMPO In tale contesto, perché era dunque necessario uccidere il giudice? Qual era lo scopo di quel delitto? Una pista forse la fornisce un altro pentito, Gaspare Mutolo, sicario e regista dei traffici di droga con l’Asia per i palermitani, autista personale di Riina e braccio destro di Rosario Riccobono, capomandamento di Partanna-Mondello, dal ’91 primo pentito dei Corleonesi. «L’omicidio del dottor Antonio Scopelliti sarebbe stato commesso su mandato di Cosa Nostra e collegato con la partecipazione del magistrato, in qualità di pubblico ministero, al giudizio di Cassazione concernente il maxi-processo», ha spiegato Mutolo ai magistrati nel settembre ’92. «Tutto l’andamento del maxiprocesso, nelle sue varie fasi, è stato attentamente seguito da Cosa Nostra e sono stati posti in essere tutti i tentativi per condizionarne l’esito in senso favorevole all’organizzazione. In tale articolata strategia – ha aggiunto – si è inserito l’omicidio del dr. Scopelliti». In sostanza – ha detto il pentito – «era stato l’ultimo dei vari tentativi, già posti in essere da “Cosa nostra” per far scadere i termini di custodia preventiva».
FILI NON PIÙ INTERROTTI Una pista che anni fa forse era stata intuita, ma non esplorata. Per Alberto Cisterna, che da gip ha rinviato a giudizio Totò Riina e altri 13 imputati per l’omicidio Scopelliti, il dibattimento si sarebbe dovuto occupare di esplorare altri filoni di indagine, fra cui quello «dei rapporti con ambienti politici romani vicini alla corrente dell’on. Andreotti che sarà duramente colpita in Sicilia pochi mesi dopo dall’uccisione dell’on. Lima Salvatore. La necessità di attuare un attento controllo sul punto si rende, d’altronde, evidente laddove si abbia riguardo alla comune causale che salda i due gravi episodi delittuosi, destinati entrambi (e, sia chiaro, secondo prospettive affatto difformi) a realizzare la strategia di Cosa nostra sulla celebrazione in Cassazione del maxi processo». Indicazioni rimaste lettera morta in un processo poi naufragato. I tempi non erano maturi. Troppi pezzi mancavano alla ricostruzione complessiva per poter comporre un quadro indiziario sufficientemente solido. Ma oggi, forse, le cose non stanno più così.
Alessia Candito
13 agosto 2018