Foto: Amici Cossiga fu presidente della Fondazione di Minniti
Il neo-ministro dell’Interno ha tenuto il Giglio Magico lontano dai Servizi segreti con la sponda del Quirinale
di Enrico Fierro
Il nuovo ministro dello Sport, Luca Lotti, quello che voleva diventare lo zar della sicurezza nazionale, può vantare un primato assoluto, aver perso tutte le battaglie contro un nemico duro, potente e silenzioso: Domenico Minniti, per tutti Marco, attuale ministro dell’Interno del governo Gentiloni.
Prima battaglia, febbraio 2014. Letta non sta più sereno, Minniti è il suo sottosegretario con delega all’intelligence, arriva Renzi e promette di fare tabula rasa. Minniti, come sempre, non si scompone. Non parla con i giornali, riflette, si riunisce con il vertice ristretto del suo pensatoio multipartisan (la Fondazione Icsa, Intelligence culture and strategic analysis, che ebbe come presidente onorario Francesco Cossiga) e decide quali pedine muovere. Le solite, quelle dei vertici degli apparati di sicurezza. Che suggeriscono al Colle e al premier fiorentino di abbandonare l’idea di un cambio. La scimitarra del Califfato incombe sull’Europa, l’intelligence non può subire scossoni proprio in questo momento. E Minniti rimane dov’è.
SECONDA SCONFITTA due anni dopo, gennaio 2016. Renzi e Luca Lotti vogliono piazzare l’amici Marco Carrai a capo di una superstruttura per la cyber security. Una sorta di “cappello fiorentino sulle tre branche dell’intelligence. Scoppia l’inferno, come sempre silenzioso quando si tratta di Servizi, e la proposta evapora. Lotti è nervoso, Renzi infuriato, al punto che un mese dopo restituisce la pariglia al suo sottosegretario giudicato troppo potente. Wikileaks ha appena rivelato che i servizi Usa spiavano Silvio Berlusconi, Forza Italia chiama il governo a riferire in Aula. E Renzi manda Maria Elena Boschi, ministra alle Riforme. Minniti s’infuria e, come da tradizione, non parla. Ma neppure dimentica lo sgarbo.
Fine partita pochi giorni fa. Lo scapigliato Lotti ritenta la conquista dell’intelligence. Gli va male. Ripiega sull’affidamento della delega alla Boschi sottosegretaria. Perde di nuovo. A sconsigliare la scelta della ex ministra travolta dalla valanga di No, il capo dello Stato Sergio Mattarella. Dietro suggerimento, secondo voci di palazzo, dello stesso Minniti. I due si stimano e hanno lavorato insieme (Mattarella era ministro della Difesa) ai tempi del governo D’Alema nei mesi difficili della guerra in Kosovo.
La delega ai servizi rimane nelle mani del presidente del Consiglio. Per Minniti, nel frattempo diventato ministro dell’Interno, non si tratta di un pareggio, ma di una vittoria netta. Continuerà ad avere occhi e mani sui servizi attraverso il C.a.s.a. (Centro analisi strategica antiterrorismo), un tavolo permanente che riunisce i vertici dell’intelligence e della sicurezza interna.
Domenico Minniti, Marco, il politico che da anni è il punto ddi riferimento degli 007 italiani. “Marco è stimato ed è uno che sa”, dicono gli uomini che gli sono più vicini, riferendosi alla sua profonda conoscenza dell’intelligence e dei suoi meccanismi. Altri, invece, indicano proprio nel “sapere”, legato ai lunghi anni di lavoro ai vertici della sicurezza nazionale (sottosegretario con delega ai servizi in vari governi, viceministro dell?interno, ministro ombra ai tempi del Pd veltroniano), la fonte del suo potere. “E’ il Cossiga degli anni Duemila”, dicono i detrattori. “Quando i compagni di viaggio tentano di autonomizzarsi o di prendere potere, scatta sempre una buona inchiesta che li tiene sotto schiaffo. E sono in molti a pensare che dietro a queste inchieste ci sia spesso la mano di Marco…”, scrive il sito de “La C New 24”, una tv calabrese molto vicina ad ambienti Pd.
VELENI IN RIVA allo Stretto ai quali Minniti è abituato. E’ qui che il numero uno del Viminale si è formato. Figlio di un generale dell’Esercito, negli anni Settanta scelse il Partito comunista. Primo incarico segretario nella piana di Gioia Tauro. Prova del fuoco l’uccisione per mano di mafia del dirigente comunista Peppino Valarioti. “Hanno voluto colpirci per lanciare un messaggio del tutto simile a quello dei terroristi”, le parole del giovane Minniti.
Da allora una scalata al potere che ha subito alti e bassi. Fatta, come ricordano in Calabria, senza avere pacchetti di voti a disposizione. Successi e delusioni personali. L’ultima stoccata di Massimo D’Alema, del quale fu uno dei collaboratori più stretti. “Se la risposta al referendum è quella di spostare Alfano agli Esteri per far posto a Minniti, allora abbiamo già perso”. La reazione? Ancora una volta il silenzio. Minniti è l’uomo forte del fragilissimo governo Gentiloni. I dossier sul suo tavolo sono molti e infuocati. Piazze che leghisti e Cinque Stelle promettono in subbuglio, immigrazione, con i Comuni del Nord che si rifiutano di accogliere i rifugiati, minacce del terrorismo internazionale. Tempeste che passeranno. Come passerà Gentiloni e il suo governo. Domenico Minniti, per tutti Marco, lavora in silenzio. Per rimanere.
15 dicembre 2016