Lunedì 12 dicembre, a distanza di pochi giorni dalle dimissioni di Matteo Renzi, si è insediato il nuovo governo presieduto da Gentiloni. Si dice che sia una “fotocopia” di quello precedente e che il premier dimissionario ne tiri i fili: scritta la nuova legge elettorale, Renzi staccherà la spina, portando il Paese verso le elezioni anticipate. È invece sicuro che Paolo Gentiloni punti al 2018, perché “durare” il più a lungo possibile è la missione che gli è stata affidata. L’esecutivo Gentiloni sta alla Seconda Repubblica come la Repubblica di Salò sta al fascismo: è il disperato tentativo di scongiurare la fine, l’ultimo crepuscolare capitolo prima del tragico epilogo. Una serie di fattori, economici e politici, ne rendono l’esistenza drammaticamente incerta e le faide giudiziarie in corso indicano che l’establishment si sta sfaldando.
by Federico Dezzani
L’ultimo, disperato, arroccamento
È durato pochi giorni il “vuoto di potere” a Palazzo Chigi: mercoledì 7 dicembre il premier Matteo Renzi ha formalizzato le dimissioni e lunedì 12 il nuovo governo, presieduto dall’ex-ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, ha prestato giuramento. Sono tempi inquieti e si vuole evitare che la poltrona di presidente del Consiglio resti vacante: c’è da gestire il dopo-terremoto nel Centro Italia, l’emergenza immigrazione e (meglio non sbandierarlo ai quattro venti, per non spaventare i correntisti) una strisciante crisi bancaria. La parola d’ordine è stabilità: ce lo chiede Francoforte, ce lo chiede Bruxelles, ce lo chiede Washington, ce lo chiede Berlino.
Nei concitati giorni in cui è stato messo in cantiere il nuovo governo, sono circolate diverse opzioni: si è passati da un Renzi II (che avrebbe ignorato de facto l’esito del referendum costituzionale, calpestando il voto di milioni di elettori) ad un governo “istituzionale” presieduto da Pietro Grasso, da un governo Delrio ad uno Franceschini. Fitte trattative e lunghe consultazioni si sono succedute, complicate da un dissidio di fondo: quello tra il premier dimissionario Matteo Renzi, che desiderava il voto anticipato, ed il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, deciso a portare la legislatura sino alla scadenza naturale, nel febbraio del 2018.
La soluzione escogitata per riconciliare le divergenze è stata, alla fine, la peggiore.
A ricevere l’incarico per formare il nuovo governo è stato Paolo Gentiloni, il presunto “fedele” di Matteo Renzi, messo a capo di un governo che è quasi una fotocopia del precedente, come testimonia il passaggio di Maria Elena Boschi al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e la nomina a ministro del braccio destro di Renzi, Luca Lotti. Si è così voluto tranquillizzare il premier dimissionario, assicurandogli che il nuovo esecutivo, scritta la nuova legge elettorale, avrebbe esaurito la sua funzione e portato il Paese verso elezioni anticipate nella primavera del 2017. Proprio come nei suoi sogni.
Nei piani del Quirinale e, soprattutto, in quelli delle cancellerie estere, il futuro è però molto diverso: Gentiloni si dovrà “emancipare” dall’ex-premier (“Gentiloni deve essere libero, Renzi ha tenuto tutta l’Italia in ostaggio” ha detto Ferruccio De Bortoli 1 ) e la “brutta fotocopia” del governo Renzi dovrà durare, durare il più lungo possibile: nessun voto anticipato, nessuno scioglimento prematuro della Camere. L’ex-premier-cazzaro ha ricevuto un contentino nel momento in cui si è formato l’esecutivo, lo si è convinto che fosse ancora il dominus della situazione, ma nello stesso momento in cui Renzi è tornato a Pontassieve, l’agenda dell’esecutivo è cambiata: orizzonte 2018.
È stato lo stesso premier Paolo Gentiloni a confermarlo appena insediato: “il governo dura fin quando ha la fiducia del Parlamento” 2. Tradotto, fino al termine della legislatura: perché così vuole Sergio Mattarella, così vuole buona parte del PD (“Bersani a Renzi: Voto subito? Non si vince sulle macerie del Paese“ 3 ), così vuole Forza Italia (forte di un numero di parlamentari che è il triplo rispetto agli attuali consensi del partito), così vogliono i deputati che a metà settembre maturano il vitalizio, così vuole il Movimento 5 Stelle, che si adegua alle direttive impartitegli. Il povero Renzi, ridotto a semplice segretario del PD (non si sa per quanto tempo ancora) ed estromesso dal potere, non dà più le carte: ha tutto il tempo di organizzarsi una lunga vacanza negli USA, perché la campagna elettorale non comincerà prima del tardo autunno 2017.
Che il post-referendum si concludesse con la sostanziale emarginazione di Matteo Renzi, era in un certo senso ineluttabile. L’ex-sindaco di Firenze rappresentava infatti “l’ultima speranza” per l’élite europeiste e filo-atlantica nostrana: era il rottamatore che avrebbe dovuto riplasmare l’Italia secondo i criteri neoliberisti della Troika, attuare la “riforme strutturali” e salvaguardare così la permanenza dell’Italia nell’eurozona. Svalutazione interna (Job Act), privatizzazioni, riforma costituzionale ed elettorale, così da permettere al primo partito d’establishment di governare indisturbato col 25% dei consensi: questa era l’agenda di Renzi, che per mille giorni ha governato pressoché senza alcuna opposizione mediatica e politica. Suicidatosi col referendum costituzionale, trasformato in un plebiscito sulla sua persona, Renzi è diventato improvvisamente inutile e, di conseguenza, esiliabile senza rimpianti a Pontassieve.
L’establishment ha ripreso ancora una volta le redini della situazione e lo ha fatto prefiggendosi un unico obiettivo: durare, durare, durare.
Spazzata via l’ipotesi delle elezioni anticipate, la prima meta da raggiungere è quindi il voto nel 2018: come aveva suggerito The Economist, una settimana prima del referendum, fiutando l’imminente sconfitta di Renzi; come ha caldeggiato il più insigne rappresentante italiano degli ambienti euro-atlantici, Giorgio Napolitano (“Voto subito tecnicamente incomprensibile” 4 ); come ha “invitato” il suo erede, Sergio Mattarella (“Inconcepibili le elezioni immediate”), portato alla presidenza della Repubblica dagli stessi circoli (Barack Obama, il clan Clinton, la City, il Council on Foreign Relations, il Bilderberg, etc. etc.) che avevano scommesso tutto su Renzi.
La nomina di Paolo Gentiloni non comporta nessun cambiamento di fondo: è una semplice variante dell’ex-sindaco di Firenze.
L’ex-ministro degli Esteri non è stato scelto tanto perché un “uomo fidato” di Renzi, ma perché partorito dagli stessi ambienti: sia Renzi che Gentiloni sono cresciuti infatti alla corte di Francesco Rutelli. “Allievo” di Rutelli 5 e suo protetto è stato l’ex-sindaco di Firenze, assessore e portavoce dell’ex-sindaco di Roma è stato Paolo Gentiloni. E Rutelli non è un personaggio qualsiasi: fondatore della Margherita, candidato premier nel 2001, padre nobile del Partito Democratico, l’ex-sindaco di Roma è sin dagli anni ’90 il trait d’union tra la sinistra italiana ed il clan Clinton. Quel clan Clinton che ha dato l’estrema unzione alla Prima Repubblica e ha benedetto la nascita della Seconda, quel clan che diventa il punto di riferimento della sinistra “post-comunista” e ne detta l’agenda: smantellamento dell’economica mista, svendita dell’industria pubblica, ingresso nell’euro, neoliberismo, guerra in Jugoslavia, guerra in Libia (imposta da Giorgio Napolitano), immigrazione di massa, etc. etc.
Il governo Gentiloni, fallito miseramente l’esperimento del “rottamatore”, è l’estrema difesa della Seconda Repubblica: si sbarra il passo ai “populisti” sventando le elezioni anticipate, si coopta un Silvio Berlusconi ormai 80enne e preoccupato soltanto di mettere in sicurezza l’impero di famiglia, si riscrive la legge elettorale in senso proporzionale e si porta il Paese ad elezioni nel febbraio del 2018, sperando che il PD e Forza Italia raccolgano un numero di voti sufficienti per formare una grande coalizione che salvaguardi lo status quo.
Nel frattempo si confida nell’azione della magistratura (proprio come nel 1992, nel 1994, nel 2011, etc. etc.), incaricata di sgonfiare il Movimento 5 Stelle, che è, sì, un’opposizione addomesticata come Syriza, ma comporta pur sempre rischi di instabilità intollerabili nell’attuale contesto politico ed economico. Partono così le inchieste di Palermo sulle firme false e, è cronaca di questi giorni, quelle di Roma: trascorrono soltanto cinque mesi dall’insediamento di Virginia Raggi al Campidoglio ed il responsabile del personale del Comune, Raffaele Marra, è tratto in arresto con l’accusa di corruzione. “Arresto Marra, dal Pd a FI parte l’attacco al M5s: Grillo è corresponsabile” titola la Repubblica 6.
L’establishment è però attraversato da forti tensioni, si sfalda sotto il peso della crisi istituzionale e non è più monolitico come un tempo: mentre la procura di Roma infierisce sulla giunta grillina di Roma, fornendo un prezioso assist al PD e a Forza Italia, la procura di Milano contrattacca, mettendo nel mirino, nelle stesse ore, l’uomo simbolo del renzismo e del nascente Partito della Nazione PD-FI , il sindaco di Milano Giuseppe Sala. L’inchiesta sugli appalti dell’Expo 2015, a lungo dormiente, si risveglia improvvisamente, colpendo nientemeno che l’ex- commissario dell’evento, ora primo cittadino di Milano. Accusato di falso ideologico e falso materiale, Sala è costretto ad “auto-sospendersi”, nelle stesse ore in cui gli arresti di Roma fanno tremare l’amministrazione di Virginia Raggi. Uno a uno: palla in centro.
Il governo Gentiloni nasce così in un clima crepuscolare, appesantito dal senso di fine imminente, ammorbato dalle faide, intorbidito dai regolamenti di conti interni al sistema: un clima che rende l’attuale esecutivo simile alla RSI del 1943-1945. Gentiloni sta alla Seconda Repubblica come Salò sta al fascismo: è l’ultimo disperato tentativo di scongiurare la fine, allungando il più possibile l’esistenza dell’establishment italiano.
È l’estremo tentativo di una classe dirigente fallimentare, quella che dal 1992 ad oggi ha trascinato il Paese nella bancarotta economica e sociale, quella ha sacrificato il benessere del Paese sull’altare dell’Unione Europea oggi in dissoluzione, quella ha sistematicamente agito per vent’anni contro gli interessi nazionali dell’Italia, di salvare se stessa. Anziché fuggire verso il lago di Garda e le montagne del Nord Italia, il “vecchio” si asserraglia in Parlamento, cercando di sbarrare in ogni modo l’avanzata del “nuovo”. Il destino del governo Gentiloni, proprio come la RSI, è però segnato e destinato ad un tragico fallimento: il contesto economico e politico in cui è maturato si sta rapidamente decomponendo ed è impossibile che l’esecutivo gli sopravviva. Scricchiola l’eurozona, soffia forte il vento del populismo, cadono uno dopo l’altro i punti di riferimento internazionali. Persino l’obbiettivo di raggiungere il 2018 si fa difficile.
Potrebbe essere la crisi bancaria ad essergli fatale: MPS è ormai destinata alla nazionalizzazione, in aperta violazione delle regole del bail-in appena introdotte, e non è ancora chiaro come Unicredit, dopo aver venduto il vendibile, possa raccogliere 13 €mld di capitale in un mercato asfittico, dove le banche europee scommettono ormai sulla Italexit. Potrebbe essere il cambiamento delle politiche monetarie ad essergli letale: il rialzo dei tassi della FED ormai avviato o la riduzione dell’allentamento quantitativo da parte della BCE. Potrebbe essere l’insediamento del populista Donald Trump, al posto della democratica ed “europeista” Hillary Clinton, ad infliggergli il colpo di grazia. Potrebbe essere la vittoria di Marine Le Pen o la sconfitta di Angela Merkel a portare l’Unione Europea verso il collasso finale.
In ogni caso, gli ultimi appigli del governo Gentiloni rischiano di mancare molto presto. La Salò della Seconda Repubblica è ufficialmente iniziata: prepariamoci a molti schizzi di sangue (in senso figurato, si auspica).