Vittorio Gioiello
Nell’ambito di un breve intervento non posso che estrapolare alcuni aspetti della riflessione gramsciana, cercando di tener ferma, come metodologia, una visione complessiva che non separi politica, economia e società.
E cercherò di mettere in evidenza come alcuni brani gramsciani che si riferiscono alla rivoluzione d’Ottobre, possano essere punti di riferimento per l’attuale battaglia politico-culturale.
Una premessa sostanziale (a maggior ragione a fronte di distorsioni recenti e meno recenti): la formazione politica e culturale di Gramsci è profondamente segnata dall’evento della rivoluzione d’Ottobre. La rivoluzione socialista costituisce il problema fondamentale della sua epoca, e le strategie da mettere in atto in Italia e in Occidente per realizzare la rivoluzione rimangono al centro della riflessione dei Quaderni.
Quando pubblica, il 24 novembre 1917, sull’Avanti, la sua «Rivoluzione contro il “Capitale”», Antonio Gramsci è ancora un giovane militante del Partito socialista italiano, permeato dall’idealismo crociano e gentiliano.
Questo, in sintesi, il ragionamento, che va specificato, perché spesso si cita il titolo, ma non si entra nel merito del linguaggio usato da Gramsci:
A prima vista, la rivoluzione bolscevica è una questione di ideologia piuttosto che di fatti. Essa contrasta con la lezione del “Capitale” di Marx, che per la Russia presupponeva la costituzione di una borghesia, l’entrata nell’era capitalistica e l’esistenza di una civiltà di tipo occidentale prima che il proletariato potesse prospettare la propria rivincita, avanzare le proprie rivendicazioni e imboccare la via della rivoluzione.
I fatti hanno prevalso sulla dottrina.
Con la loro azione i bolscevichi hanno smentito Marx, hanno sconvolto i canoni del materialismo storico.
Da tutto ciò la domanda: i bolscevichi sono marxisti? No, perché tradiscono il “Capitale”. Sì, nello stesso tempo, perché restano fedeli al pensiero vivo di Marx.
Qui Gramsci ha deliberatamente scelto l’uomo e la volontà – questa parola ricorre non meno di sei volte in poche linee – in quanto motori storici, al posto dei “fatti economici”. Il fatto principale che mette in secondo piano l’ideologia è proprio questa volontà. Che era anche ciò che Marx non aveva previsto.
Nell’azione dei bolscevichi Gramsci scorge la piena realizzazione della sua visione del marxismo, una visione radicalmente antipositivista e antievoluzionista, ma l’analisi non è esente da forti tracce di idealismo soggettivista e di volontarismo.
Questo breve intervento giovanile ha fornito il pretesto per mettere in discussione il marxismo di Gramsci, per contrapporre Lenin a Marx.
E quanto sia attuale questa manipolazione lo si può dedurre da un brano dell’intervista rilasciata da Mario Tronti sul Manifesto del 7 novembre 2007:
…l’Ottobre è stato, secondo la geniale definizione di Gramsci, una “Rivoluzione contro il Capitale”. La rivoluzione scoppia, imprevista, laddove secondo lo schema marxiano ortodosso non c’erano le condizioni perché scoppiasse. Questo imprevisto…….apre anche il passaggio teorico dalla critica dell’economia politica di Marx alla critica della politica di Lenin. Con la Rivoluzione d’ottobre accade qualcosa che nello schema logico di Marx non era compreso, e che a che fare con l’autonomia e l’irriducibilità della politica. L’atto di Lenin mostra che il politico non sta dentro l’economico, non ne consegue e lo eccede. Lenin sta alla critica della politica come Marx sta alla critica dell’economia…
Tronti rimane con pervicacia sul terreno “dell’autonomia del politico” e dà una lettura economicista del pensiero di Marx, che scrive non la “critica ell’economia”, ma la “critica dell’economia politica”, ove il secondo termine va evidenziato come scelta di non separazione tra economia e politica.
Inoltre, anche senza entrare nel merito degli scritti storico-politici (Le lotte di classe in Francia, ecc..) tutto il “Capitale” è permeato di politica e, aggiungo, di analisi sul ruolo e la funzione dello Stato.
È Togliatti nella relazione al primo convegno di studi gramsciani del 1958: “Gramsci e il leninismo”, che fissa i punti di riferimento, sempre attuali, entro cui inquadrare questo brano giovanile:
….in questo scritto l’impostazione è errata ed errati sono alcuni giudizi. Ma l’errore non è di sostanza. Quella che Gramsci denuncia e respinge era stata, infatti, la falsa interpretazione che del materialismo storico avevano data i cosiddetti marxisti legali. Vedendo ciò che è avvenuto in Russia, finalmente sente che ci si può liberare dal pesante e ingombrante involucro dell’interpretazione pedantesca, grettamente materialistica e positivistica che era stata data del pensiero di Marx in Italia. Non in Marx era avvenuta la contaminazione ma nei trattatelli e opuscoli di propaganda…, dove il pensiero marxista era stato ridotto a ciò che non era e non poteva essere.
Oggi siamo di fronte ad un rovesciamento ideologico, che ha preceduto la caduta del regime sovietico, e che si è incentrato sulla liquidazione sommaria del materialismo storico e del marxismo.
Occorre, perciò, “tornare alla teoria” e questo comporta la ripresa dell’uso “politico” della teoria marxista come critica dell’economia politica e come critica della teoria del diritto e dello stato.
Vanno riattualizzate le categorie marxiane con riguardo alla critica conseguente dell’attuale fase della “transnazionalità” dell’impresa-rete.
E la gramsciana “filosofia della prassi” ci ha lasciato categorie e concetti che urge riattualizzare andando oltre i prevalenti esercizi di “filologia” gramsciana oggi in auge, (non solo in Italia ma anche nel Nord oltre che nel Sud America, a tacere delle manipolazioni di un c.d. “gramscismo sociale” che interessano una destra anelante a sua volta a “modernizzarsi”).
È nei Quaderni, che rappresentano per diversi aspetti una autocritica rispetto a posizioni e concezioni passate, ma che diverrebbero del tutto incomprensibili e mutilati senza quel passato, che ritroviamo concetti e riflessioni teoriche atte anche ad interpretare la realtà attuale.
Nel Quaderno 7, par. 16, “Guerra di movimento e guerra manovrata o frontale”, G. accenna ad una differenza fondamentale tra “Occidente” ed “Oriente”, da cui deriva la necessità di applicare strategie del potere radicalmente diverse.
[…..] Mi pare che Ilici aveva compreso che occorreva un mutamento dalla guerra manovrata, applicata vittoriosamente in Oriente nel 17, alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente, [….] dove i quadri sociali erano di per sé ancora capaci di diventare trincee munitissime. Questo mi pare significare la formula del “fronte unico” [….]. Solo che Ilici non ebbe il tempo di approfondire la sua formula, pur tenendo conto che egli poteva approfondirla solo teoricamente, mentre il compito fondamentale era nazionale, cioè domandava una ricognizione del terreno e una fissazione degli elementi di trincea e di fortezza rappresentati dagli elementi di società civile ecc. In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale. [Q7, 16, 866]
Di questo brano intendo mettere in evidenza la categoria di “società civile”.
Gramsci è diventato, per molti, il teorico della società civile. La sua crescente penetrazione nel dibattito filosofico e politico internazionale è avvenuta in gran parte con questo segno.
E, nel corso degli anni Ottanta e Novanta la riscoperta della società civile ha fatto spesso perno sul pensiero gramsciano, attraverso la mediazione, più o meno consapevole, della lettura fattane da Bobbio.
È nel 1968 che Bobbio pubblica il saggio “Sulla nozione di società civile”, che costituisce una prima versione della voce dell’Enciclopedia Einaudi poi raccolta in volume. È una data a ridosso di quel Convegno internazionale di studi gramsciani tenuto a Cagliari il 23-27 aprile 1967, largamente egemonizzato dalla relazione bobbiana su Gramsci e la concezione della società civile.
Nella sua relazione Bobbio sottolineava i motivi di “autonomia” di Gramsci rispetto alla tradizione marxista: sia per Marx che per Gramsci – egli affermava – la società civile è il vero “teatro della storia” (la celebre espressione dell’Ideologia tedesca). Ma per il primo essa fa parte del momento strutturale e per il secondo di quello sovrastrutturale.
A partire da qui Bobbio perveniva a una conclusione errata: mentre in Marx la società civile (la base economica) era il fattore primario della realtà storicosociale, Bobbio suppone che la trasformazione effettuata da Gramsci sposti dall’infrastruttura alla superstruttura questa centralità: Gramsci è soprattutto il “teorico delle sovrastrutture”, nel senso che il momento etico-politico aveva nel suo sistema teorico un posto fondante inedito rispetto a Marx e al marxismo.
In tal modo Gramsci era assimilato alla tradizione liberale (come Benedetto Croce aveva ipotizzato già vent’anni prima, quando, recensendo le “Lettere dal carcere” affermava: “come uomo di pensiero egli fu dei nostri”).
Per costruire la sua tesi, però, Bobbio doveva assumere e dare per scontata una lettura “meccanicistica” del rapporto struttura-sovrastruttura, dove la determinazione “in ultima istanza” di uno dei due termini diveniva determinazione forte e immediata dell’altro livello di realtà :”teatro della storia”.
Non vi sono più momenti insieme di unità ed di autonomia, e azione reciproca, fra i diversi livelli di realtà, propri di ogni concezione dialettica, quale è la concezione di Gramsci.
Inoltre, esaminando la categoria di società civile di Gramsci, Bobbio non vede che essa è la via attraverso la quale Gramsci arricchisce di nuove determinazioni la teoria marxiana dello Stato.
Per Gramsci la produzione e la riproduzione della vita materiale continuano a essere il fattore primario dello svolgimento storico. Egli sa che
“la struttura e le superstrutture formano un ‘blocco storico’, cioè l’insieme complesso e discorde delle soprastrutture sono il riflesso dell’insieme dei rapporti sociali di produzione” (Q8,182,1051).
Il concetto fondamentale di Gramsci non è la società civile ma il “blocco storico”. La distinzione tra Stato e società civile è di natura ‘metodica’ e non ‘organica’.
“si specula [….] sulla distinzione tra società politica e società civile e si afferma che l’attività economica è propria della società civile e la società politica non deve intervenire nella sua regolamentazione. Ma in realtà questa distinzione è puramente metodica, non organica e nella concreta vita storica società politica e società civile sono una stessa cosa. D’altronde anche il liberismo deve essere introdotto per legge, per intervento cioè del potere politico”. (Q4,38,460).
Viene dunque meno la separazione rigida fra economia, politica e società. Stato e società civile non sono realtà autonome, l’ideologia liberale che le dipinge come tali è esplicitamente negata. Da qui nasce il concetto, centrale nei Quaderni, di “Stato allargato”.
Uno dei punti centrali del marxismo di Gramsci è questo non separare in modo ipostatizzato alcun aspetto del reale (economia, società Stato, cultura).
Bobbio pone invece la dicotomia Stato/società civile anche al centro del pensiero di Gramsci, negando proprio ciò che in Gramsci è più importante: la non separazione, l’unità dialettica tra politica e società, tra economia e Stato. Gramsci non accetta una posizione dualistica e manichea che contrappone la società civile allo Stato (concepito come qualcosa di intrinsecamente “cattivo”).
Inoltre per Gramsci la società civile non è un luogo idilliaco, fatto di consenso e trionfo della democrazia e della cittadinanza quale appare in alcune rappresentazioni odierne, tese a contrapporre questa realtà alla realtà, vista come negativa, del politico.
La storia della società civile per Gramsci è storia del dominio di alcuni gruppi sociali su altri; la società civile non è omogenea, ma è uno dei principali teatri della lotta tra le classi in cui si manifestano intense contraddizioni sociali: è storia di lotta di classe.
La modernità del pensiero di Gramsci sta nel fatto che, nella sua concezione, la statualità e la politica che egli propone “comprendono” la società, non la negano, non se ne separano.
E la società civile è un momento della superstruttura politico-ideologica, condizionata “in ultima istanza” dalla base materiale della società e, in quanto tale, non è in nessun modo una sfera situata – come si è sostenuto negli ultimi anni – “oltre il mercato e oltre lo Stato”.
“Il ritorno alla società civile” è stata la parola d’ordine del neoliberismo degli anni 80: basta con lo Stato – in primo luogo con lo Stato sociale, ovviamente -, lasciate fare alla società. Basta con la politica, basta con i politici di professione, lasciate fare ai rappresentanti della società civile.
Naturalmente vi sono due versioni di questo “ritorno alla società civile”.
Una versione di destra, che mette al centro del proprio universo gli “spiriti animali del capitalismo”.
E una versione di sinistra, che vuole garantire i diritti e allargare la cittadinanza, ma che – proprio nel momento in cui pone come centrali tali categorie – sposa una visione propriamente liberale.
Un tale orizzonte teorico ha alla base una concezione antropologica del soggetto inevitabilmente liberale: l’individuo come prius, come ciò che viene prima del suo essere in società, e per questo è portatore di diritti.
Mentre Marx e Gramsci con esso hanno un’altra concezione dell’individuo, fondamentalmente relazionale, in cui esso non va negato ma considerato nel suo fondamentale e insopprimibile essere-in-relazione con gli altri, e dunque parte di contesti socio-culturali da cui in molta misura dipende e da cui anche è parzialmente agito.
L’esame di due brani, tratti da «Note critiche a un “Saggio popolare di sociologia”» di N.Bucharin, fornisce lo spunto per demistificare alcune letture dell’attuale fase di sviluppo capitalistico.
Il primo brano affronta un nodo critico nella costruzione del socialismo in URSS.
Si afferma, nel Saggio popolare, che i progressi delle scienze sono dipendenti, come l’effetto dalla causa, dallo sviluppo degli strumenti scientifici. È questo un corollario del principio generale […] sulla funzione storica dello “strumento di produzione e di lavoro” che viene sostituito all’insieme dei rapporti sociali di produzione. [Q11,21,1420]
Gramsci rifiuta con forza, quindi, la riduzione dell’economia ai rapporti tecnici di produzione. La struttura economica non è per Gramsci la sfera della mera produzione di oggetti materiali, di cose, ma il modo con cui gli uomini stabiliscono il loro “metabolismo con la natura” e producono e riproducono non solo questi oggetti materiali, ma soprattutto i loro stessi rapporti sociali globali.
Combattendo le posizioni economicistiche di Bucharin – che sono del resto proprie dell’ideologia dominante in URSS dopo la morte di Lenin – Gramsci identifica, perciò, la struttura economica con il “complesso dei rapporti sociali”, ossia con la totalità.
Questa critica di Gramsci è, nella sostanza, analoga a quella che Lukacs, in un saggio del 1925, svolge sul manuale di Bucharin.
“La teoria di Bucharin…finisce non di rado col cancellare l’elemento decisivo del metodo marxista: quello di ricondurre tutti i fenomeni dell’economia…..alle relazioni sociali tra gli uomini. […..] Bucharin dice che ogni esistente sistema della tecnica determina anche il sistema dei rapporti di lavoro fra gli uomini. La dipendenza “in ultima istanza” del “livello delle forze produttive” dallo sviluppo tecnico della società viene addirittura definita una “normatività fondamentale”…..
Questa identificazione della tecnica con le forze produttive non è esatta né marxista. La tecnica è una componente…delle forze produttive della società, però non è semplicemente identificabile con esse, né è propriamente…il momento ultimo o assolutamente decisivo della trasformazione di queste forze.”
È diventato dominante in questa fase storica l’assunto che siamo di fronte ad una “crisi del fordismo”, che sarebbe il risultato dell’utilizzazione su grande scala delle “nuove tecnologie”. Ma, come constatò più di mezzo secolo fa il padre della cibernetica moderna – Norbert Wiener – già allora sussistevano le condizioni tecniche per l’applicazione dell’automazione su grande scala. Se ciò non avvenne, fu dovuto alle condizioni economiche: il periodo dell’espansione capitalistica attenuava la concorrenza internazionale, e l’inutilizzazione anticipata dei capitali esistenti sarebbe stata antieconomica.
L’attuale automazione non deriva tanto dalla “rivoluzione tecnico-scientifica” quanto dalla crisi del capitale, e dal tentativo di uscirne.
Le nuove tecnologie mirano a contrastare la caduta della produttività del lavoro (mediante l’aumento del suo controllo da parte del capitale). Sennonché, le contraddizioni del capitale non scompaiono in virtù delle “nuove tecnologie”. Il palliativo “tecnologico”, a lungo termine, le approfondisce: perseguendo ciascuno il proprio fine individuale (abbassare i costi e alzare i profitti), i capitalisti fanno cadere il tasso di profitto del capitale totale. Inoltre, le tecnologie non sono neutre, ma si inseriscono in un modo di produzione determinato, in una fase concreta del suo sviluppo.
Occorre, quindi, rimuovere la falsa idea che l’innovazione tecnologica sia tale da rompere la continuità con la manifestazione organica del capitale industrialefinanziario emersa già agli inizi degli anni ’30.
Come ha messo in evidenza in uno scritto Salvatore d’Albergo:
già allora Gramsci osservò tempestivamente che nel rapporto tra il commercio internazionale e le divise nazionali: “tra i dati tecnici particolari da cui non si può prescindere (…) c’è la rapidità di circolazione che non è un piccolo fatto economico” (Q15, 5,1757), rapidità che in prossimità dei nostri giorni – nel passaggio dall’automazione all’informatizzazione – è stata viceversa presa a pretesto per proclamare apoditticamente che l’odierna iperbolica velocità dei flussi finanziari, additata come un “assoluto”, segnerebbe di per sé una cesura totale tra il capitalismo di fine secolo XX e quello di inizio XXI secolo.
Cesura “totale”, anziché “passaggio di fase”, dando una lettura della trasformazione dell’impresa (e del capitalismo) “multinazionale ” nell’impresa (e capitalismo) transnazionale tramite la “rete” delle imprese portatrici del fenomeno della “delocalizzazione” e della “deterritorializzazione”, da cui sono state dedotte le conclusioni sulla cd “fine dello stato” nonché “fine del lavoro”, enfatizzando il passaggio dal ciclo della produzione di beni “materiali” al ciclo della produzione di beni “immateriali”, come base fondativa della “economia della conoscenza” su cui si staglierebbe l’avvento del lavoro come fatto sempre più “individuale” al posto del lavoro quale espressione del rapporto tra “occupazione” e società.
Il secondo brano, sempre tratto dalla critica al Saggio, ci fornisce le coordinate per giudicare la superficialità e l’improvvisazione di certi giudizi.
[…] Giudicare tutto il passato filosofico come un delirio o una follia non è solo un errore di antistoricismo […] ma
[…] suppone un pensiero dogmatico valido in tutti i tempi e in tutti i paesi, alla cui stregua si giudica tutto il passato.
[…] Nel Saggio si giudica il passato come “irrazionale” e “mostruoso”.
[…] Se questo modo di giudicare il passato è un errore teorico, […] potrà avere un qualche significato educativo, sarà ispiratore di energie? Non pare, perché la questione si ridurrebbe a presumere di essere qualcosa solo perché si è nati nel tempo presente, invece che in uno dei secoli passati. Ma in ogni tempo c’è stato un passato e una contemporaneità e l’essere “contemporaneo” è un titolo buono solo per le barzellette. [Q11,18,1416-17]
In un recente passato c’è stato chi affermava la necessità di un “socialismo” che andasse “oltre il Novecento” (Bertinotti sulla scia di un saggio di Marco Revelli), o addirittura parlava di “chiusura definitivamente col ‘900“, con l’ulteriore invocazione di una “rottura” con tutta l’esperienza del secolo scorso” (Rinaldini, segretario generale della Fiom!?).
Va preso atto che è antiscientifica l’idea che si possa liquidare una fase storica come quella del ‘900, specie se essa sia stata contrassegnata dall’incidenza che ha avuto la lotta dei comunisti nel mondo.
Cancellare il ‘900 – e addirittura “tutto” il ‘900 – si pone non solo contro l’esperienza del socialismo, ma persino contro l’esperienza di quanti (alleati, o meno, con i comunisti) si sono posti contro la dittatura politica del fascismo; significa cancellare “tutta” la storia, che, invece, è il contesto nel quale (e proprio per i suoi “tempi lunghi”), è possibile cogliere il senso dei processi che hanno attraversato sia il XIX che il XX secolo.
Va riaffermato che nel secolo “breve” il protagonismo dei partiti comunisti negli svolgimenti “leniniani” e, soprattutto – con particolare riguardo alle esperienze politiche e sindacali dei comunisti italiani – “gramsciani”, ha lasciato tracce di quel ‘900 che sono “indelebili”.
Il Gramsci dei Quaderni continua ad essere di estrema attualità ed un riferimento teorico essenziale per una riflessione sul centenario della rivoluzione d’ottobre che non sia meramente celebrativo.
da www.gramscioggi.org