di Gianni Barbacetto
Con l’ingresso in scena di Lando Dell’Amico, il “complotto” Eni entra nella grande storia italiana del giornalismo ambiguo che lavora a cavallo tra politica e affari, che si avviluppa tra lobby, logge e servizi segreti. È l’Agenzia Repubblica (Agir), fondata nel 1957 da Lando e oggi diretta da suo figlio Ugo, a essere molto informata, già nell’ottobre 2015, sulle strane indagini giudiziarie che servono a depistare l’inchiesta della Procura di Milano sulle tangenti internazionali per il petrolio in Nigeria e in Algeria: “Eni Gate: proseguono le indagini sui tentativi di delegittimazione esterna dei manager di Eni”, scrive l’Agir, “l’inchiesta si estende a macchia d’olio lungo diverse procure, da Trani a Siracusa”. Nel maggio 2016, un dispaccio Agir annuncia: “Clamorosi sviluppi sul complotto internazionale per destabilizzare i vertici Eni: ecco le prime ammissioni”.
Per Lando Dell’Amico è un ritorno al suo primo amore, l’Eni. Quando infatti, nel novembre 1961, era stato beccato con una valigetta contenente 30 milioni di lire al congresso del Partito repubblicano di Ravenna, si disse che era in missione per conto dell’allora presidente dell’Eni, Enrico Mattei, che voleva convincere, con 30 milioni di buoni argomenti, un gruppo di repubblicani ad abbandonare la corrente di Randolfo Pacciardi, ostile al centrosinistra, per entrare in quella di Ugo La Malfa (inconsapevole dalla manovra), che invece aveva aperto all’ingresso del Psi nell’area di governo. Nella missione di Ravenna, Dell’Amico era accompagnato da Agostino Buono, un tenente colonnello del Sifar, il servizio segreto militare.
Tramontata la stella di Mattei, Dell’Amico preferì altri compagni di viaggio, il petroliere Attilio Monti, i politici Luigi Preti e Giuseppe Saragat, poi Amintore Fanfani, infine Giulio Andreotti. Oggi, a 91 anni, resta il massimo protagonista, insieme a Mino Pecorelli di Op, della lunga storia italiana di quel giornalismo che s’intreccia con messaggi e ricatti, guerre per bande dentro gli apparati dello Stato, affari economici e lotte politiche.
A 18 anni, Lando aderisce alla Repubblica sociale e va a combattere ad Anzio nella Decima Mas contro gli americani. Finita la guerra, è a fianco di Giorgio Almirante, che nel 1946 lo incarica di guidare il primo movimento giovanile del Msi. Ma un paio d’anni dopo sbatte la porta e diventa fascio-comunista e collaboratore di Giancarlo Pajetta e Ugo Pecchioli nel Pci. Poi scopre che i comunisti sono il male assoluto, vira verso il Partito socialdemocratico e diventa segretario di Ignazio Silone, lo scrittore. Dopo aver lavorato al quotidiano missino Secolo d’Italia, passa all’organo del Psdi La Giustizia e nel 1955 scrive un libro, Il mestiere di comunista, con introduzione di Giuseppe Saragat e di Ignazio Silone.
Nel 1957 si mette in proprio: fonda l’Agenzia di stampa Montecitorio, sede in via della Panetteria a Roma, e avvia quell’opera di dossieraggio dei politici italiani che contribuisce a formare i 34 mila fascicoli illegali custoditi dal generale Giovanni De Lorenzo, quello del “piano Solo” del 1964.
Poi viene la stagione delle stragi, inaugurata nel 1969 dalla bomba di piazza Fontana. I magistrati che indagano sull’attentato alla Banca nazionale dell’agricoltura, Emilio Alessandrini e Gerardo D’Ambrosio, nel 1974 lo fanno arrestare, per una sua oscura lettera in cui dice di aver versato al missino Pino Rauti 18 milioni e mezzo di lire sborsati dal petroliere Attilio Monti. Prosciolto, è arrestato di nuovo nel 1979, per lo scandalo del Banco di Napoli, da cui spariscono centinaia di miliardi di lire, senza che si capisca, alla fine, chi siano i responsabili e neppure quanti siano con precisione i soldi spariti.
Negli anni Ottanta la sua Agenzia Repubblica attacca il servizio segreto militare, diventato Sismi, colpevole di aver chiuso la gestione del piduista Giuseppe Santovito e di aver tentato di ripulirsi sotto la (breve) direzione di Ninetto Lugaresi. Altri attacchi e campagne denigratorie sono per Bettino Craxi (Psi) e per Flaminio Piccoli (Dc). Lando subisce un nuovo arresto nel 1981, per calunnia aggravata nei confronti di un colonnello, Luigi Masina, che aveva accusato di essere penetrato illegalmente in casa di un commercialista amico di Piccoli.
Nel 1992, mentre parte una nuova stagione di stragi, la sua Agenzia Repubblica scrive due articoli inquietanti, il 21 e il 22 maggio, che accennano alle “strategie della tensione che costituiscono in questo Paese una metodologia d’uso corrente in certe congiunture di blocco politico” e gettano ombre (ingiustificate) su Giovanni Spadolini e Oscar Luigi Scalfaro: “C’è da temere a questo punto che qualcuno rispolveri la tentazione tipicamente nazionale al colpo grosso”. Il giorno dopo, a Capaci l’esplosivo uccide Giovanni Falcone e la sua scorta. Ha un bel know-how, il gruppo Dell’Amico, impegnato oggi sul fronte “complotto Eni”.
Il Fatto quotidiano, 11 febbraio 2018