C’era una volta…
di Giovanni Punzo
Guerra Nato contro la Jugoslavia di Milosevic per il Kosovo e altri interessi strategici meno noti. Le ‘modernità’ che segnano gran parte delle guerre attuali: “Ideal Politik” della “Interferenza Umanitaria” a dare nobiltà, e la ”Real Politik” delle “Bombe intelligenti”e guerra lampo a dare illusioni. Errori e inganni dal Kosovo come spunto di riflessione sulle guerre infinite di oggi, vedi la Siria, e monito per l’ipotesi Libia.
«Allied Forces» fu il nome ufficiale dell’operazione aerea disposta dalla Nato nella primavera del 1999 per fermare i combattimenti in Kosovo: in realtà la stragrande maggioranza delle vittime e i danni maggiori si verificarono in Serbia. Per 78 giorni (dal 24 marzo al 10 giugno 1999) si susseguirono senza sosta raid aerei condotti da centinaia di velivoli appartenenti a tredici paesi diversi. L’argomento è tuttora rovente, dato che si trattò di un attacco a un paese sovrano – seppure giustificato ex post da una decisione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – e molte osservazioni critiche non provennero solo dai settori dichiaratamente (o pregiudizialmente) contrari all’uso della forza, ma anche da ambienti politico-diplomatici.
La principale riguarda il fatto che -nonostante un fallimento delle trattative fosse prevedibile- la sola opzione scelta in conseguenza fosse stata quella del ricorso all’uso della forza. In altre parole non bastò solo minacciarne l’uso, ma vi si dovette ricorrere realmente, in contrasto cioè con tutte le possibilità offerte da una politica coercitiva in mano a grandi potenze e in grado di poter scegliere quindi altri strumenti idonei ed efficaci. I bombardamenti inoltre non ottennero l’immediata cessazione della pulizia etnica in corso, ma proprio per effetto di questi, si innescò in parallelo una catastrofe umanitaria: la fuga di settecentomila persone dal Kosovo e di altre decine di migliaia da diverse zone della Serbia minacciate dalle incursioni. Inoltre, oltre agli esodi diretti, si assistette anche alla destabilizzazione di due paesi confinanti come l’Albania e la Macedonia.
Per quanto sia difficile allontanare l’immagine delle distruzioni e delle fughe di massa, il Kosovo nei lunghi 78 giorni di bombardamenti fu soprattutto una guerra dei media e della persuasione del tutto inedita. Nel 1991 lo era già stata anche la guerra del Golfo e in parte questa tendenza si era manifestata più nettamente durante l’assedio di Sarajevo, ma in Kosovo si raggiunsero i picchi più elevati. Le televisioni, le radio e per la prima volta i blog di internet riversarono contemporaneamente sulle opinioni pubbliche propaganda e notizie in modo serrato e intrecciato, spesso in maniera inestricabile e per questo indistinguibile. Ponti distrutti, treni sventrati, corpi accatastati e profughi sui trattori divennero immagini correnti utilizzate da ambo le parti per scopi contrari. Nel frattempo -paradossalmente, ma fino ad un certo punto …- la reazione ai bombardati divenne l’opposto di quanto ci si attendeva.
Le scalette dei telegiornali, in origine rigidamente tripartite tra immagini di rifugiati, obiettivi colpiti dall’aria e immagini di pulizia etnica, cambiarono dopo il bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado e lentamente la tendenza si invertì fino a far intuire che l’appoggio iniziale delle opinioni pubbliche occidentali fosse meno saldo di prima e che le bombe intelligenti in realtà non lo fossero affatto. Il filmato «Another good day» commentato da James Shea (passato alla storia per la famosa frase «La Nato non dorme mai») rischiò l’effetto opposto. Quando però tutto finì, pur nel generale sollievo, nessuno si accorse che il danno maggiore era stata la diffusa illusione che si fosse trattato di un breve intervento chirurgico, doloroso, ma necessario. Prima di ritenere che anche oggi siano possibili interventi di questo tipo occorrerebbe riflettere sulla maggiore complessità degli attuali scenari di crisi.