Foto: L’esplosione della bomba atomica a Hiroshima
Un generale delle Ss che vuole salvarsi dalla caduta del Reich. E l’ipotesi di 70 chili di uranio nazista consegnati agli americani. Così può cambiare la storia della bomba atomica
di Roberto Brunelli
Questa è la storia di una grossa valigia, forse un baule, contenente 70 chilogrammi di uranio. Passato di mano nei primi giorni di maggio 1945 da un generale delle Ss a un ufficiale dei servizi segreti americani. Tutto intorno il Terzo Reich stava collassando e il mondo scopriva l’abisso dei campi di concentramento. Tre mesi dopo, “Little Boy” cade, alle 8.15 del mattino, su Hiroshima, e ingoia la città portuale giapponese col suo fungo atomico. Niente, sulla Terra, sarà più lo stesso. Forse anche a causa del contenuto di quel grande baule. Una pagina del Novecento che, a oggi, ancora non si è finito di scrivere.
I due protagonisti di questa storia sono Hans Kammler e Donald “Don” Richardson. Un volto come tagliato nella pietra il primo, con gli occhi affilati e il mento lungo, e una faccia quadrata, mascellare, molto yankee nonostante i capelli neri, il secondo. Un criminale di guerra, uno dei principali responsabili dell’Olocausto, e uno 007 americano d’altissimo livello, spregiudicato al punto giusto: due nemici che si sono trovati a trattare, in nome di una merce di scambio inconfessabile, portatrice di una capacità distruttiva immensa. Da una parte Kammler, Obergruppenführer delle Ss, il “tecnocrate dell’annientamento“, l’architetto delle camere a gas dei lager tedeschi, generale in folgorante ascesa che in pochi mesi scalza Goering nelle preferenze di Hitler.
Meno noto dei Goebbels o degli Himmler, in realtà è una personalità cruciale della follia hitleriana: per ordine diretto del Führer, accentra su di sé il controllo di tutti i progetti segreti del Terzo Reich. Compreso quello nucleare. Dall’altra Richardson, agente delle Oss (Office of Strategic Services, precursore della Cia) definito “gli occhi e le orecchie di Eisenhower”, spedito in Europa a caccia di quei nazisti che gli Stati Uniti dovevano intercettare a ogni costo, per mettere in sicurezza conoscenze, tecnologie e uomini dell’apparato scientifico tedesco. Ci sono foto che lo ritraggono a Yalta nel ’45, dietro a Roosevelt, mentre lancia uno sguardo sbieco verso Stalin.
Due uomini del mistero, al centro di uno dei grandi cortocircuiti della storia. Al quale oggi il figlio dell’agente segreto americano, John Richardson, di professione medico, aggiunge un tassello cruciale. Fu lui, John, a raccontare – due anni fa al documentarista austriaco Andreas Sulzer, attivo da un lustro nella ricerca sui misteri atomici dei nazisti – che sarebbe stato suo padre Donald a trattare la resa di Kammler in Austria e a portarlo in America, dove il generale venne«spietatamente interrogato» e dove sarebbe morto nel 1947, «senza aver più visto la luce del giorno». Si tratta di una rivelazione che lo stesso agente Richardson avrebbe fatto ai figli John e Doug in punto di morte, avvenuta nel 1996. Una ricostruzione che nessuno, finora, ha smentito ufficialmente: né fonti americane o di altri paesi, né storici, né altri testimoni.
Adesso Richardson jr aggiunge un nuovo passaggio, finora rimasto nell’ombra: «Mio padre portò con sé quasi settanta chili di uranio. Uranio che probabilmente proveniva dalle gallerie sotterranee del lager di Gusen, il complesso denominato Bergkristall, in Austria». Sì, “l’inferno degli inferni”, il principale dei sottocampi di Mauthausen, nei cui giganteschi tunnel scavati al costo della vita da decine di migliaia di deportati venivano costruiti, tra l’altro, i famigerati caccia a reazione Messerschmitt. L’ultimo quartier generale di Kammler. Il luogo dove, forse, il nazismo ormai in rotta stava cercando di costruire la sua atomica. «Il generale ci offrì le armi più moderne, strumenti che erano sinonimo di morte e distruzione».
Le parole di Richardson jr aprono uno scenario sconvolgente: l’ipotesi, in sostanza, è che la bomba di Hiroshima, quella che ha completamente ridisegnato i rapporti di forza tra le potenze mondiali e le loro identità strategiche, quella che ha ucciso sul colpo tra le 66 mila e le 78 mila persone senza parlare degli effetti a lungo termine dello tsunami radioattivo, sia stata realizzata con l’uranio, e in parte anche con il know-how, dei nazisti. Non ci sono prove definitive, ovvio. Solo le parole del figlio di un agente segreto. Ma il filo rosso dei riscontri e delle testimonianze delinea, se non altro, una convergenza di indizi.
Sul punto si aprono anche altri piccoli scorci, cui accenna il giornalista Frank Döbert in una ricostruzione sulle ultime settimane di Kammler prima d’essere inghiottito nel nulla, pubblicata in Austria qualche mese fa: «Testimonianze affiorate nel 2006 indicano che Don Richardson sarebbe partito a bordo di un B-29 con poco più di sessanta chili di uranio alla volta degli Usa, atterrando alla base dell’Us-Air Force a Wendover. Qui erano già in corso i preparativi per il lancio dell’atomica sul Giappone». Non solo. Richardson jr sostiene anche che il padre effettuò un sorvolo “tecnico” su Hiroshima insieme al generale Sweeney, il pilota della bomba di Nagasaki. Vengono le vertigini.
Facciamo un passo indietro. Lo scambio d’uranio, se davvero c’è stato, è avvenuto un giorno imprecisato dei primi di maggio 1945. Il Terzo Reich ormai è un cumulo di macerie, l’Europa è percorsa in lungo e largo da agenti alleati in cerca di scienziati, personale specializzato e ufficiali d’alto rango che fossero a conoscenza del segreto dei segreti. Sono due le operazioni in grande stile messe in piedi dagli Alleati per raggiungere il risultato: l’Operation Paperclip e la Missione Alsos. Niente di meno strano che molte attenzioni siano state rivolte al leggendario, quanto misterioso, generale Hans Kammler. Sulla cui fine esistono almeno sei diverse versioni. Il corpo non è mai stato trovato.
Al contrario, c’è un documento dei Counter Intelligence Corps (Cic), targato “Nnd 785009”, declassificato dalle autorità statunitensi nel 1978 – reso pubblico per la prima volta da la Repubblica il 25 aprile 2014 – in cui si afferma a chiare lettere che «poco dopo l’occupazione (l’arrivo degli alleati, ndr) Hans Kammler apparve agli uomini del Cic a Gmunden e fece una dichiarazione dettagliata». In altre parole: si consegnò agli americani, come dice Richardson. Tesi sostenuta, tra gli altri, dallo storico tedesco Rainer Karlsch. Difficile immaginare che un soggetto del peso di Kammler non sia stato immediatamente bloccato e messo in sicurezza. Dopodiché, il generale – responsabile, tra l’altro, della strage di Warstein, in cui furono fucilati 208 lavoratori forzati – non arriverà mai alla sbarra del processo di Norimberga. Strano, no?
Eppure, sul ruolo di Kammler non dovrebbero esserci stati dubbi. Tra i progetti segreti del Reich con il marchio del generale anche la ricerca di quella “Wunderwaffe” (“l’arma dei miracoli”) che avrebbe dovuto ribaltare l’esito della guerra. «Ogni giorno, in quelle ultime settimane, Hitler chiedeva notizie su Gusen: voleva essere informato nei dettagli di quello che succedeva in questo angolo d’Austria», ci disse, due anni fa, lo storico locale Rudolf Haunschmied. Ebbene, la vicenda del supposto trasferimento di uranio dalle mani del generale delle Ss a quelle dell’agente a stelle e strisce è legata a doppia mandata a quella di questo lager nell’Alta Austria dotato di un’immensa rete di tunnel che, secondo le testimonianze e le evidenze raccolte da Sulzer e dal suo team, sarebbe stato trasformato sotto il controllo di Kammler in una specie di fabbrica di guerra sotterranea, al cui interno sarebbero stati condotti esperimenti nucleari su larga scala: forse i nazisti erano molto più vicini all’atomica di quanto finora ritenuto.
Certo, è una tesi controversa, quella della “bomba di Hitler“, che però oggi conta su un numero crescente di scoperte sul terreno, documenti, carte “top secret”. Tra questi indizi, per quel che riguarda Gusen, la radioattività « 26 volte superiori alla norma» rilevata nei tunnel finanche tre anni fa: radiazioni tali «da essere compatibili – così affermò il geologo dell’Università di Vienna Franz Josef Maringer – con attività di tecnica nucleare operate dai nazisti». E ancora: numerosi rilievi geofisici che indicherebbero la presenza di un numero ben maggiore di gallerie rispetto a quelle “conosciute”, il ritrovamento di un abnorme tunnel a forma di ottagono nei pressi del lager – «una rampa di lancio missilistica», sostiene Sulzer – nonché di un frammento di un acceleratore di particelle.
Lo storico Stefan Karner, direttore del prestigioso Ludwig Boltzmann Institut, afferma che «si hanno indicazioni circa ricerche su reazioni a catena: se questo fosse vero la via verso l’atomica sarebbe segnata». E ancora. Una trasmissione del secondo canale della tv pubblica tedesca (Zdf) ha riferito di alcuni dossier del servizio segreto militare sovietico (Gru), datati marzo ’ 45, in cui si parla esplicitamente di due test atomici effettuati in Turingia: « I tedeschi hanno provocato due grandi esplosioni… i prigionieri di guerra che si trovavano dentro il perimetro dell’esplosione sono morti e di loro non pare rimasta alcuna traccia. Inoltre è stato riscontrato un forte effetto radioattivo». Gli impianti in Turingia, come quelli di Gusen, erano il regno di Kammler.
Ora il documentarista Sulzer ha calato quello che secondo lui è un nuovo asso: è il racconto, da lui filmato ma inedito fino a oggi, del figlio di uno dei comandanti del lager austriaco, Karl Chmielewski, definito “il diavolo di Gusen”. Walter Chmielewski, 87 anni, all’epoca adolescente, oggi estremamente lucido, sembra ricordare con precisione quel che accadde negli ultimi mesi di guerra in quell’angolo d’Austria: «All’epoca quel che si diceva è che la rete di gallerie raggiungesse i 30 – 40 chilometri (…). Si diceva anche che a fine ’44 fosse arrivato un ordine del Führer, che si doveva subito interrompere la produzione dei Messerschmitt e dedicarsi alla bomba atomica…».
Dall’atomica nazista all’atomica americana: una fila di impronte della storia che conviene seguire passo per passo, in cui Kammler è il personaggio-chiave. Il generale forse aveva già preso la sua decisione quando vide Hitler per l’ultima volta. Era il 3 aprile 1945. Joseph Goebbels, il potentissimo ministro per la propaganda, commenta: «Riponiamo grandi speranze in lui». Il 13 aprile, però, Kammler rivela ad Albert Speer l’intenzione di entrare in contatto con gli Alleati offrendo armamenti e conoscenze. Ma poco prima, il 31 marzo 1945, Goebbels scrive nel suo diario: «Se i generali della Luftwaffe si volgono contro le istruzioni di Kammler, il Führer intende procedere con sentenze dei tribunali di guerra e con fucilazioni» . In altre parole: il generale è un intoccabile. Ed è considerato, forse, l’ultima speranza del Reich. La risposta sta nei sottosuoli di Gusen. E ha il colore bianco-argenteo dell’uranio.
Ebbene, Hiroshima è sinonimo di uranio. Molti sostengono che non molto prima che Enola Gay scaricasse “Little Boy”, gli Stati Uniti non disponessero di uranio a sufficienza per finire la bomba. Per l’esplosione nucleare numero uno della storia, il “Trinity Test” effettuato il 16 luglio 1945 nel deserto del New Mexico, si è fatto uso di un ordigno al plutonio. Idem Nagasaki. L’unico, terrificante, “test” della bomba a uranio è Hiroshima: sulla provenienza di quell’uranio – per la precisione 64,13 chilogrammi infilati in quella che è stata chiamata “l’arma totale” – sono sempre corse speculazioni che nessuno è mai riuscito a mettere a tacere. Quel che è sicuro è che si tratta di una materia da toccare con estrema cautela. Forse questa storia contiene un segreto troppo grande, sepolto insieme a un agente americano e a un generale delle Ss.
03 novembre 2016