Le bombe del ’93 facevano ipotizzare che Cosa Nostra avesse incluso nella propria politica stragista anche l’obiettivo di avviare “una negoziazione con lo Stato” finalizzata a ottenere l’abbattimento del carcere duro per i mafiosi. I militari dell’Arma inviarono una nota al riguardo all’allora ministro dell’Interno. Ma lui non ricorda di aver mai sentito parlare di queste cose.
di Lorenzo Baldo
La nota riservata del Comando dei Carabinieri (II reparto – Ufficio Criminalità Organizzata) depositata recentemente al processo sulla Trattativa Stato-mafia, parla chiaro: le stragi del ’93 facevano ipotizzare che Cosa Nostra avesse incluso nella propria politica stragista anche l’obiettivo di avviare “una negoziazione con lo Stato” finalizzata a ottenere l’abbattimento del 41bis.
Nel documento dell’8 febbraio 1994 veniva scritto in maniera alquanto esplicita che il rinnovo del regime di carcere duro del 20 luglio del ’93, possibilmente, sarebbe stata “l’occasione scatenante” di quegli “episodi criminosi”. La preoccupazione dell’Arma era legata al fatto che, se quanto esposto fosse stato riscontrato, sarebbe stato del tutto “ragionevole” ipotizzare che a seguito della proroga dei provvedimenti scaduti il 31 gennaio del ’94 si sarebbero potuti verificare “ulteriori gravi attentati”.
Ma chi erano i destinatari di questa nota? Il primo della lista è Nicola Mancino, allora Ministro dell’Interno. Seguono: il Comitato esecutivo per i Servizi di informazione e Sicurezza; il Dipartimento della Pubblica Sicurezza , il Sismi, il Sisde e infine il Comando Generale della Guardia di Finanza. Un’ennesima conferma che in quel periodo era notorio ai pezzi nevralgici delle istituzioni quale potesse essere la merce di scambio in questo dialogo a suon di bombe tra mafia e Stato. E soprattutto un’ulteriore dimostrazione delle tante omissioni da parte di quegli “uomini di Stato”, Mancino in primis, che, a distanza di anni, non ricordano di aver mai sentito parlare di quegli allarmi.
Se andiamo poi ad approfondire le note del Sismi e del Sisde del ’93, ugualmente depositate al processo Trattativa, non mancano le sorprese. Le informazioni sul progetto di attentato nei confronti di Giovanni Spadolini e Giorgio Napolitano? Il 3 agosto del ’93 gli analisti dell’intelligence per la sicurezza militare riferiscono di averle acquisite in “ambienti del porto di Napoli” da indicazioni di “attendibilità 6”.
Secondo la ricostruzione ufficiale, la “fonte” aveva raccontato agli investigatori che da diverso tempo manteneva contatti saltuari con un “siciliano” che gli aveva detto di appartenere all’organizzazione criminale nota come la “Stidda”. Il 29 luglio del ’93 lo “stiddaro” lo aveva incontrato per avvisarlo che tra il 16 e il 20 agosto di quello stesso anno ci sarebbe stato un attentato nei confronti dell’allora Presidente del Senato Giovanni Spadolini e del Presidente della Camera dell’epoca Giorgio Napolitano. A detta del misterioso “siciliano”, gli autori di quella strage sarebbero stati “sempre i soliti”, i “corleonesi”, in totale accordo coi “grossi”: i “politici” e i “massoni”. Lo “stiddaro” avrebbe quindi confidato alla “fonte” di aver appreso tali informazioni da alcune persone appartenenti a un gruppo di “corleonesi” vicine all’allora latitante Pietro Aglieri, braccio destro di Bernardo Provenzano.
Nella nota del Sismi gli analisti evidenziano che il “siciliano” avrebbe riferito quelle notizie nella piena consapevolezza che tramite la “fonte” sarebbero successivamente arrivate agli apparati istituzionali dello Stato. Il 14 agosto di quello stesso anno il servizio segreto militare specifica che quel progetto di attentato sarebbe stato probabilmente attuato in “luoghi abitualmente affollati” con l’obiettivo di provocare quante più vittime. Nonostante qualche perplessità sulla “fonte” l’allerta resta alta.
Il 20 agosto del ’93 è il Sisde a inviare una nota riservata ai soliti destinatari: al Dipartimento della Pubblica Sicurezza, al Comando dell’Arma, alla Dia, al Cesis, al Sismi, al Comando Generale della Guardia di Finanza e immancabilmente al Ministro dell’Interno Nicola Mancino. Nella prima pagina viene sottolineato che non c’è il “diretto riscontro” sull’esistenza di un piano criminale ideato all’interno di “presunte alleanze” tra esponenti di Cosa Nostra e affiliati alla Massoneria finalizzato alla realizzazione di una strage che si sarebbe dovuta verificare dopo il 16 agosto di quell’anno. Nel documento vengono citate le fonti che evidenziano la peculiarità di quel “momento storico criminale” del tutto idoneo alla realizzazione di “eventi destabilizzanti” che avrebbero avuto il fine di acconsentire l’avvio di “un nuovo clima socio-politico” del tutto “favorevole” a una imminente “rigenerazione mafiosa”. A un certo punto il documento si sofferma sul ruolo dell’ex boss di Porta Nuova, Salvatore Cancemi, consegnatosi ai Carabinieri il 22 luglio del ’93 (deceduto nel 2011). L’immediata volontà di collaborare manifestata dallo stesso Cancemi, al momento stesso della sua consegna, viene letta come una vera e propria anomalia per un “uomo d’onore”. Per gli analisti del Sisde quell’atteggiamento sarebbe stato riconducibile a un’ipotesi investigativa: Cancemi avrebbe sostituito al comando di Cosa Nostra Totò Riina (precedentemente arrestato) e, a fronte di questa investitura, avrebbe quindi dovuto organizzare un attentato “eclatante”, possibilmente al Palazzo di Giustizia di Palermo, su indicazione dell’ala corleonese più dura per creare “scompiglio e terrore” all’interno degli ambienti giudiziari palermitani. Quel progetto di strage avrebbe provocato, però, un vero e proprio “disgusto” allo stesso Cancemi, che si sarebbe quindi tirato indietro. Secondo l’analisi del Sisde, quella “titubanza”, aggiunta ai mancati attentati da parte del boss Antonino Gioè (morto “suicida” in circostanze mai chiarite), sarebbero stati “fatali” per l’ex capo mandamento di Porta Nuova.
A quel punto, a detta degli uomini dell’intelligence, l’ala corleonese degli irriducibili avrebbe nominato il latitante Giovanni Brusca a capo di Cosa Nostra, decretando contestualmente la condanna a morte per Salvatore Cancemi. Che, per salvarsi la vita, si sarebbe quindi consegnato alla Caserma “Carini”. In merito ai successori di Totò Riina, la possibile investitura di Cancemi appare agli 007 del tutto “verosimile”, mentre su quella di Giovanni Brusca viene espressa qualche “perplessità” a fronte della giovane età. Lo stesso problema viene posto per la reggenza di Pietro Aglieri. In merito alla figura di Leoluca Bagarella, al di là di essere il cognato di Riina, sarebbe pesata negativamente la sua parentela con il cognato “pentito” Giuseppe Marchese. Per il Sisde, quindi, la nomina di Giovanni Brusca quale capo di Cosa Nostra sarebbe stata imposta direttamente da Riina. ‘Zu Totò avrebbe così depistato gli inquirenti sulla reale identità del Capo di Cosa Nostra contando su una “maggiore sensibilità” nei confronti dei boss detenuti, prevenendo quindi il “dissenso” di molte famiglie mafiose.
Per il direttore del Servizio civile dell’epoca, Domenico Salazar, la notizia dei possibili attentati a Spadolini e a Napolitano si sarebbe potuta inquadrare nell’ambito di un “conflitto” interno a Cosa Nostra, con favorevoli e contrari alla prosecuzione di una strategia stragista; allo stesso modo in quel contesto si sarebbe potuta focalizzare la “probabile, ma non assolutamente certa regia mafiosa” dietro le stragi di Roma, Firenze e Milano. Infine, secondo il Sisde, i boss mafiosi detenuti al 41bis si sarebbero convinti che solamente dal “caos istituzionale” sarebbe stato possibile “ricavare nuove forme di trattativa” finalizzate a ottenere pesanti sconti di pena all’interno di una “più vasta e generale pacificazione sociale” decisamente fondamentale per la realizzazione del “nuovo ordine costituzionale. Nel concludere la nota sulla “regia mafiosa” e sulle “finalità” delle stragi del ’93, gli investigatori ribadiscono in ultimo la necessità di proseguire l’analisi con “molta cautela”. Quella stessa “cautela” del tutto assente nei dialoghi tra i vertici dello Stato e Cosa Nostra.
5 novembre 2014