Karl Marx – Friedrich Engels (1846)
Premessa [1]
Sinora gli uomini si sono sempre fatti idee false intorno a se stessi, intorno a ciò che essi sono o devono essere. In base alle loro idee di Dio, dell’uomo normale, ecc. essi hanno regolato i loro rapporti. I parti della loro testa sono diventati più forti di loro. Essi, i creatori, si sono inchinati di fronte alle loro creature. Liberiamoli dalle chimere, dalle idee, dai dogmi, dagli esseri prodotti dall’immaginazione, sotto il cui giogo essi languiscono. Ribelliamoci contro questa dominazione dei pensieri. Insegniamo loro a sostituire queste immaginazioni con pensieri che corrispondano all’essenza dell’uomo, dice uno; a comportarsi criticamente verso di esse, dice un altro; a togliersele dalla testa, dice un terzo, e la realtà ora esistente andrà in pezzi [2].
Queste fantasie innocenti e puerili formano il nucleo della moderna filosofia giovane-hegeliana, che in Germania non soltanto è accolta dal pubblico con orrore e reverenza, ma è anche messa in circolazione dagli stessi eroi filosofici con la maestosa coscienza della sua criminosa spregiudicatezza. Il primo volume di questa pubblicazione ha lo scopo di smascherare queste pecore che si credono lupi e che tali vengono considerate, di mostrare come esse altro non fanno che tener dietro, con i loro belati filosofici, alle idee dei borghesi tedeschi, come le bravate di questi filosofici esegeti rispecchino semplicemente la meschinità delle reali condizioni tedesche. Essa ha lo scopo di mettere in ridicolo e di toglier credito alla lotta filosofica con le ombre della realtà, che va a genio al sognatore e sonnacchioso popolo tedesco.
Una volta un valentuomo si immaginò che gli uomini annegassero nell’acqua soltanto perché ossessionati dal pensiero della gravità. Se si fossero tolti di mente questa idea, dimostrando per esempio che era un’idea superstiziosa, un’idea religiosa, si sarebbero liberati dal pericolo di annegare. Per tutta la vita costui combatté l’illusione della gravità, delle cui dannose conseguenze ogni statistica gli offriva nuove e abbondanti prove. Questo valentuomo era il tipo del nuovo filosofo rivoluzionario tedesco.
[1]. Scritta da Marx nel 1846.
[2]. Allusione a Feuerbach, Bauer e Stirner
Capitolo I
Feuerbach. Antitesi tra concezione materialistica e concezione idealistica
Secondo quanto vanno dicendo certi ideologi tedeschi, la Germania ha compiuto negli ultimi anni una rivoluzione senza confronti. Il processo di decomposizione del sistema hegeliano, iniziato con Strauss, si è sviluppato fino a diventare una fermentazione universale in cui sono trascinate tutte le « potenze del passato ». Nel caos generale si sono formati potenti imperi, subito giunti al tramonto, si son fatti avanti per un momento eroi, ricacciati di nuovo nella tenebra da rivali più audaci e più potenti. È stata una rivoluzione di fronte alla quale quella francese è un giuoco da bambini, una lotta mondiale al cui confronto le lotte dei diadochi [1] appaiono insignificanti. I principi si sono detronizzati a vicenda, gli eroi del pensiero si sono rovesciati l’un l’altro con furia inaudita, e nei tre anni dal 1842 al 1845 in Germania si è fatto pulizia più che altrove in tre secoli.
Tutto ciò sarebbe accaduto nel pensiero puro.
Si tratta certo di un avvenimento interessante: il processo di putrefazione dello spirito assoluto. Dopo che l’ultima scintilla di vita si spense, i diversi elementi di questo caput mortuum [2] entrarono in decomposizione, dettero origine a nuove combinazioni e formarono nuove sostanze. Gli industriali della filosofia, che fino a quel momento avevano vissuto dello sfruttamento dello spirito assoluto, si gettarono allora sulle nuove combinazioni. Ciascuno sì applicò con la massima solerzia a rivendere al dettaglio la porzione che gli era toccata. Il che non poteva essere senza concorrenza. Dapprima questa fu sostenuta in maniera abbastanza borghese e pulita; più tardi, quando il mercato tedesco fu saturo e la merce non trovò alcun favore, nonostante tutti gli sforzi, sul mercato internazionale, l’affare fu guastato alla solita maniera tedesca con la produzione dozzinale e la contraffazione, il peggioramento della qualità, la sofisticazione della materia prima, la falsificazione delle etichette, le vendite fittizie, il giro delle cambiali e un sistema creditizio privo di ogni base reale. La concorrenza finì in una lotta accanita, che oggi ci viene presentata e decantata come un rivolgimento della storia universale, generatore dei risultati e delle conquiste più grandiosi.
Per apprezzare nel suo giusto valore questa ciarlataneria filosofica, che suscita un benefico sentimento nazionale persino nel petto del rispettabile borghese tedesco, per rendere evidente la meschinità, la grettezza provinciale di tutto questo movimento giovane-hegeliano, e in particolare il contrasto tragicomico tra il reale operato di questi eroi e le illusioni su di esso, è necessario osservare lo spettacolo nel suo insieme, da un punto di vista che si trova al di fuori della Germania
[1]. Diadochi: i successori di Alessandro Magno.
[2]. In chimica il risultato della distillazione.
Capitolo II
L’ideologia in generale e in particolare l’ideologia tedesca
La critica tedesca non ha mai abbandonato, fino ai suoi ultimi sforzi, il terreno della filosofia. Ben lungi dall’indagare sui suoi presupposti filosofici generali, tutti quanti i suoi problemi sono nati anzi sul terreno di un sistema filosofico determinato, l’hegeliano. Non solo nelle risposte, ma già negli stessi problemi c’era una mistificazione. Questa dipendenza da Hegel è la ragione per cui nessuno di questi moderni critici ha neppure tentato una critica complessiva del sistema hegeliano, tanta è la convinzione, in ciascuno di essi, di essersi spinto oltre Hegel. La loro polemica contro Hegel e fra di loro si limita a questo, che ciascuno estrae un aspetto del sistema hegeliano e lo rivolge tanto contro l’intero sistema quanto contro gli aspetti che ne estraggono gli altri. Dapprima si estrassero categorie hegeliane pure, genuine come la sostanza e l’autocoscienza, poi si contaminarono queste categorie con nomi più profani, come Specie, l’Unico, l’Uomo, ecc.
Tutta la critica filosofica tedesca da Strauss fino a Stirner si limita alla critica delle rappresentazioni religiose. Si cominciò dalla religione reale e dalla teologia vera e propria. Che cosa fosse la coscienza religiosa, la rappresentazione religiosa, fu variamente definito in seguito. Il progresso consisteva nel sussumere [1] sotto la sfera delle rappresentazioni religiose o teologiche anche le rappresentazioni metafisiche, politiche, giuridiche, morali, ecc. che si presumevano dominanti; nel proclamare cosi che la coscienza giuridica, politica, morale è coscienza religiosa o teologica, e che l’uomo politico, giuridico, morale, cioè « l’uomo », in ultima istanza, è religioso. Fu presupposto il predominio della religione. A poco a poco ogni rapporto dominante fu dichiarato rapporto di religione e trasformato in culto, culto del diritto, culto dello Stato e cosi via. Dappertutto sì aveva a che fare con dogmi e con la fede in dogmi. Il mondo fu canonizzato in misura sempre maggiore, finché da ultimo il venerabile san Max [2] poté canonizzarlo en bloc e liquidarlo una volta per tutte.
I Vecchi hegeliani avevano compreso qualsiasi cosa, non appena l’avevano ricondotta ad una categoria logica hegeliana. I Giovani hegeliani criticarono qualsiasi cosa scoprendo in essa idee religiose o definendola teologica. I Giovani hegeliani concordano con i Vecchi hegeliani in quanto credono al predominio della religione, dei concetti, dell’universale nel mondo esistente; solo che gli uni combattono quel predominio come usurpazione, mentre gli altri Io esaltano come legittimo.
Poiché questi Giovani hegeliani considerano le rappresentazioni, i pensieri, i concetti, e in genere i prodotti della coscienza, da loro fatta autonoma, come le vere catene degli uomini, così come i Vecchi hegeliani ne facevano i veri legami della società umana, s’intende facilmente che i Giovani hegeliani devono combattere soltanto contro queste illusioni della coscienza. Poiché secondo la loro fantasia le relazioni fra gli uomini, ogni loro fare e agire, i loro vincoli e i loro impedimenti sono prodotto della loro coscienza, i Giovani hegeliani coerentemente chiedono agli uomini, come postulato morale, di sostituire alla loro coscienza attuale la coscienza umana, politica o egoistica [3] e di sbarazzarsi così dei loro impedimenti. Questa richiesta, di modificare la coscienza, conduce all’altra richiesta, di interpretare diversamente ciò che esiste, ossia di riconoscerlo mediante una diversa interpretazione. Nonostante le loro frasi che, secondo loro, « scuotono il mondo », gli ideologi giovani-hegeliani sono i più grandi conservatori. I più giovani tra loro hanno trovato l’espressione giusta per la loro attività, affermando di combattere soltanto contro delle «frasi». Dimenticano soltanto che a queste frasi essi stessi non oppongono altro che frasi, e che non combattono il mondo realmente esistente quando combattono soltanto le frasi di questo mondo. I soli risultati ai quali questa critica filosofica poteva portare erano alcuni e per giunta parziali chiarimenti, nel campo della storia della religione, intorno al cristianesimo; tutte le altre loro asserzioni non sono che altri modi di abbellire la pretesa di aver compiuto, con quei chiarimenti insignificanti, scoperte di importanza storica universale. A nessuno di questi filosofi, è venuto in mente di ricercare il nesso esistente tra la filosofia tedesca e la realtà tedesca, il nesso tra la loro critica e il loro proprio ambiente materiale.
I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non sono dogmi: sono presupposti reali, dai quali si può astrarre solo nell’immaginazione. Essi sono gli individui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione [4]. Questi presupposti sono dunque constatabili per, via puramente empirica. Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l’esistenza di individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque l’organizzazione fisica di questi individui e il rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura. Qui naturalmente non possiamo addentrarci nell’esame né della costituzione fisica dell’uomo stesso, né delle condizioni naturali trovate dagli uomini, come le condizioni geologiche oro-idrografiche, climatiche, e così via. Ogni storiografia deve prendere le mosse da queste basi naturali e dalle modifiche da esse subite nel corso della storia per l’azione degli uomini. Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione [5] per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale. Il modo in cui gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza dipende prima di tutto dalla natura dei mezzi di sussistenza che essi trovano e che debbono riprodurre. Questo modo di produzione non si deve giudicare solo in quanto è la riproduzione dell’esistenza fisica degli individui; anzi, esso è già un modo determinato dell’attività di questi individui, un modo determinato di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato. Come gli individui esternano la loro vita, così essi sono.
Ciò che essi sono coincide dunque immediatamente con la loro produzione, tanto con ciò che producono quanto col modo come producono. Ciò che gli individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della loro produzione. Questa produzione non appare che con l’aumento della popolazione. E presuppone a sua volta relazioni fra gli individui. La forma di queste relazioni a sua volta è condizionata dalla produzione.
I rapporti fra nazioni diverse dipendono dalla misura in cui ciascuna di esse ha sviluppato le loro forze produttive, la divisione del lavoro e le relazioni interne. Questa affermazione è generalmente accettata. Ma non soltanto il rapporto di una nazione con le altre, bensì anche l’intera organizzazione interna di questa stessa nazione dipende dal grado di sviluppo della sua produzione e delle sue relazioni interne ed esterne. Il grado di sviluppo delle forze produttive di una nazione è indicato nella maniera più chiara dal grado di sviluppo a cui è giunta la divisione del lavoro. Ogni nuova forza produttiva, che non sia un’estensione puramente quantitativa delle forze produttive già note (per esempio di dissodamento di terreni), porta come conseguenza un nuovo sviluppo nella divisione del lavoro.
La divisione del lavoro all’interno di una nazione porta con sé innanzi tutto la separazione del lavoro industriale e commerciale dal lavoro agricolo e con ciò la separazione fra città e campagna e il contrasto dei loro interessi. Il suo ulteriore sviluppo porta alla separazione del lavoro commerciale da quello industriale. In pari tempo, attraverso la divisione del lavoro all’interno di questi diversi rami, si sviluppano a loro volta suddivisioni diverse fra individui che cooperano a lavori determinati. La posizione reciproca di queste singole suddivisioni è condizionata dai metodi impiegati nel lavoro agricolo, industriale e commerciale (patriarcalismo, schiavitù, ordini, classi). Quando le relazioni sono più sviluppate, le stesse condizioni si manifestano nei rapporti fra diverse nazioni. I diversi stadi di sviluppo della divisione del lavoro sono altrettante forme diverse della proprietà; vale a dire, ciascun nuovo stadio della divisione del lavoro determina anche i rapporti fra gli individui in relazione al materiale, allo strumento e al prodotto del lavoro.
La prima forma di proprietà è la proprietà tribale. Essa corrisponde a quel grado non ancora sviluppato della produzione in cui un popolo vive di caccia e di pesca, dell’allevamento del bestiame o al massimo dell’agricoltura. In quest’ultimo caso è presupposta una grande massa dì terreni incolti. In questa fase la divisione del lavoro è ancora pochissimo sviluppata e non è che un prolungamento della divisione naturale del lavoro nella famiglia. L’organizzazione sociale quindi si limita ad essere un’estensione della famiglia: capi patriarcali della tribù, al disotto di essi i membri della tribù, e infine gli schiavi. La schiavitù, latente nella famiglia, comincia a svilupparsi a poco a poco con l’aumento della popolazione e dei bisogni, e con l’allargarsi delle relazioni esterne, così della guerra come del baratto.
La seconda forma è la proprietà della comunità antica e dello Stato, che ha origine dall’unione di più tribù in una città, mediante patto o conquista, e in cui continua ad esistere la schiavitù. Accanto alla proprietà della comunità già si sviluppa la proprietà privata mobiliare e in seguito anche la immobiliare, che però è una forma anormale, subordinata alla proprietà della comunità. I membri dello Stato possiedono soltanto nella loro comunità il potere sui loro schiavi che lavorano, e già per questo sono legati alla forma della proprietà della comunità. È la proprietà privata posseduta in comune dai membri attivi dello Stato, i quali di fronte agli schiavi sono costretti a restare in questa forma naturale di associazione. Di conseguenza l’intera organizzazione sociale fondata su questa base, e con essa il potere del popolo, decadono nella misura in cui si sviluppa la proprietà privata immobiliare. La divisione del lavoro è già più sviluppata. Troviamo già l’antagonismo fra città e campagna, più tardi l’antagonismo fra Stati che rappresentano l’interesse della città e Stati che rappresentano quello della campagna, e all’interno delle stesse città l’antagonismo tra industria e commercio marittimo. Il rapporto di classe fra cittadini e schiavi è completamente sviluppato. Tutta questa concezione della storia sembra contraddetta dal fatto della conquista. Finora erano considerate forze motrici della storia la violenza, la guerra, il saccheggio, la rapina ecc. Possiamo qui limitarci ai punti principali e prendere quindi soltanto l’esempio che più balza agli occhi, la distruzione di un’antica civiltà ad opera di un popolo barbaro e il formarsi di una nuova organizzazione della società che ad essa si ricollega. (Roma e barbari, feudalesimo e Gallia, Impero Romano d’oriente e turchi). Nel popolo barbaro conquistatore la guerra stessa costituisce ancora, come già abbiamo accennato, una forma normale di relazioni, che viene sfruttata con tanto maggiore impegno quanto più l’aumento della popolazione, perdurando il rozzo modo di produzione tradizionale che per essa è l’unico possibile, crea il bisogno di nuovi mezzi di produzione. In Italia invece, a causa della concentrazione della proprietà fondiaria (provocata, oltre che dagli acquisti e dai debiti, anche dalle eredità, perché data la grande dissolutezza e i rari matrimoni le antiche stirpi a poco a poco si estinguevano e i loro beni finivano nelle mani di pochi) e della sua trasformazione in pascolo (la quale fu provocata, oltre che dalle cause economiche ordinarie, valide ancor oggi, dall’importazione di cereali ricavati da saccheggi o da tributi e dalla conseguente mancanza di consumatori per il grano italico), la popolazione libera era quasi scomparsa, gli stessi schiavi a loro volta scomparivano e dovevano essere continuamente sostituiti da schiavi nuovi. La schiavitù restava la base dell’intera produzione. I plebei, che stavano fra i liberi e gli schiavi, non riuscirono mai ad elevarsi al di sopra della condizione di sottoproletariato. Roma non fu mai niente di più che una città ed era legata alle province da un rapporto quasi esclusivamente politico che naturalmente poteva anche essere spezzato da avvenimenti politici. Con lo sviluppo della proprietà privata appaiono qui per la prima volta quelle stesse condizioni che ritroveremo, soltanto in misura più estesa, nella proprietà privata moderna. Da una parte la concentrazione della proprietà privata, che a Roma cominciò molto presto (come prova la legge agraria licinia [6]) e procedette rapidamente a cominciare dalle guerre civili e soprattutto sotto gli imperatori; d’altra parte, e in relazione a ciò, la trasformazione dei piccoli contadini plebei in un proletariato che però, per la sua posizione intermedia fra cittadini possidenti e schiavi, non arrivò a uno sviluppo autonomo.
La terza forma è la proprietà feudale o degli ordini. Mentre l’antichità muoveva dalla città e dalla sua piccola cerchia, il Medioevo muoveva dalla campagna. La popolazione allora esistente, scarsa e dispersa su una vasta superficie, debolmente incrementata dai conquistatori, determinò questo spostamento del punto di partenza. Al contrario della Grecia e di Roma, lo sviluppo feudale comincia quindi su un terreno molto più esteso, preparato dalle conquiste romane e dalla diffusione dell’agricoltura che originariamente ne dipende. Gli ultimi secoli del cadente Impero Romano e la stessa conquista dei barbari distrussero una grande quantità di forze produttive; l’agricoltura era caduta in abbandono, l’industria rovinata per mancanza di sbocco, il commercio intorpidito o violentemente troncato, la popolazione della campagna e delle città era diminuita. Queste condizioni preesistenti e il modo come fu organizzata la conquista, da quelle condizionato, provocarono, sotto l’influenza della costituzione militare germanica, lo sviluppo della proprietà feudale. Come la proprietà tribale e la proprietà della comunità anch’essa poggia su una comunità alla quale sono contrapposti come classe direttamente produttrice non gli schiavi, come per la proprietà antica, bensì i piccoli contadini asserviti. Insieme col completo sviluppo del feudalesimo compare anche l’antagonismo con le città. L’organizzazione gerarchica del possesso fondiario e le relative compagnie armate davano alla nobiltà il potere sui servi della gleba. Questa organizzazione feudale era un’associazione opposta alle classi produttrici, precisamente come la proprietà della comunità antica; solo che la forma dell’associazione e il rapporto con i produttori diretti erano diversi, perché esistevano condizioni di produzione diverse.
A questa organizzazione feudale del possesso fondiario corrispondeva nelle città la proprietà corporativa, l’organizzazione feudale dell’artigianato. Qui la proprietà consisteva principalmente nel lavoro di ciascun singolo. La necessità di associarsi contro la rapace nobiltà associata, il bisogno di mercati coperti comuni in un tempo in cui l’industriale era insieme mercante, la crescente concorrenza dei servi della gleba fuggitivi che affluivano nelle città fiorenti, l’organizzazione feudale dell’intero paese, portarono alle corporazioni; i piccoli capitali risparmiati a poco a poco da singoli artigiani e il loro numero stabile in seno a una popolazione crescente fecero sviluppare il rapporto di garzone e di apprendista, che dette origine a una gerarchia simile a quella esistente nelle campagne.
Nell’età feudale dunque la proprietà principale consisteva da una parte nella proprietà fondiaria col lavoro servile che vi era legato, dall’altra nel lavoro personale con un piccolo capitale che si assoggettava il lavoro dei garzoni. L’organizzazione dell’una e dell’altro era condizionata dalle ristrette condizioni della produzione: la limitata e rozza coltura della terra e l’industria di tipo artigianale. Durante il fiorire del feudalesimo la divisione del lavoro era assai limitata. Ogni paese portava in sé l’antagonismo di città e campagna; l’organizzazione in ordini era fortemente marcata, ma al di fuori della separazione fra principi, nobiltà, clero e contadini nelle campagne, e fra maestri, garzoni, apprendisti e ben presto anche plebei a giornata nelle città, non esisteva alcuna divisione di rilievo. Nell’agricoltura vi si opponeva la coltivazione parcellare, accanto alla quale sorgeva l’industria domestica degli stessi contadini, nell’industria il lavoro non era affatto diviso all’interno dei singoli mestieri, pochissimo diviso fra un mestiere e l’altro. La divisione fra industria e commercio preesisteva nelle città più antiche, mentre nelle nuove si sviluppava lentamente, quando fra esse si stabilivano rapporti. L’unificazione di più vasti paesi in regni feudali era un bisogno tanto per la nobiltà terriera quanto per le città. L’organizzazione della classe dominante, la nobiltà, ebbe quindi dappertutto al suo vertice un monarca.
Il fatto è dunque il seguente: individui determinati che svolgono un’attività produttiva secondo un modo determinato entrano in questi determinati rapporti sociali e politici. In ogni singolo caso l’osservazione empirica deve mostrare empiricamente e senza alcuna mistificazione e speculazione il legame fra l’organizzazione sociale e politica e la produzione. L’organizzazione sociale e lo Stato risultano costantemente dal processo della vita di individui determinati; ma di questi individui, non quali possono apparire nella rappresentazione propria o altrui, bensì quali sono realmente, cioè come operano e producono materialmente, e dunque agiscono fra limiti, presupposti e condizioni materiali determinate e indipendenti dalla loro volontà.
La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata alla attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale. Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini appaiono qui ancora come emanazione diretta del loro comportamento materiale. Ciò vale allo stesso modo per la produzione spirituale, quale essa si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale, della religione, della metafisica, ecc. di un popolo [7]. Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli uomini reali, operanti, cosi come sono condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi corrispondono fino alle loro formazioni più estese. La coscienza non può mai essere qualche cosa di diverso dall’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita [8]. Se nell’intera ideologia gli uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura, questo fenomeno deriva dal processo storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli oggetti sulla retina deriva dal loro immediato processo fisico.
Esattamente all’opposto di quanto accade nella filosofia tedesca, che discende dal cielo sulla terra, qui si sale dalla terra al cielo. Cioè non si parte da ciò che gli uomini dicono, si immaginano, si rappresentano, né da ciò che si dice, si pensa, si immagina, si rappresenta che siano, per arrivare da qui agli uomini vivi; ma si parte dagli uomini realmente operanti e sulla base del processo reale della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di vita. Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell’uomo sono necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita, empiricamente constatabile e legato a presupposti materiali. Di conseguenza la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non conservano oltre la parvenza dell’autonomia. Esse non hanno storia [9], non hanno sviluppo, ma sono gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza. Nel primo modo di giudicare si parte dalla coscienza come individuo vivente, nel secondo modo, che corrisponde alla vita reale, si parte dagli stessi individui reali viventi e si considera la coscienza soltanto come la loro coscienza.
Questo modo di giudicare non è privo di presupposti. Esso muove dai presupposti reali e non se ne scosta per un solo istante. I suoi presupposti sono gli uomini, non in qualche modo isolati e fissati fantasticamente, ma nel loro processo di sviluppo, reale ed empiricamente constatabile, sotto condizioni determinate. Non appena viene rappresentato questo processo di vita attivo, la storia cessa di essere una raccolta di fatti morti, come negli empiristi che sono anch’essi astratti, o un’azione immaginaria di soggetti immaginari, come negli idealisti.
Là dove cessa la speculazione, nella vita reale, comincia dunque la scienza reale e positiva, la rappresentazione dell’attività pratica, del processo pratico di sviluppo degli uomini. Cadono le frasi sulla coscienza e al loro posto deve subentrare il sapere reale. Con la rappresentazione della realtà la filosofia autonoma perde i suoi mezzi d’esistenza [10]. Al suo posto può tutt’al più subentrare una sintesi dei risultati più generali che è possibile astrarre dall’esame dello sviluppo storico degli uomini. Di per sé, separate dalla storia reale, queste astrazioni non hanno assolutamente valore. Esse possono servire soltanto a facilitare l’ordinamento del materiale storico, a indicare la successione dei suoi singoli strati. Ma non danno affatto, come la filosofia, una ricetta o uno schema sui quali si possano ritagliare e sistemare le epoche storiche. La difficoltà comincia, al contrario, quando ci si dà allo studio e all’ordinamento del materiale, sia di un’epoca passata che del presente, a esporlo realmente. Il superamento di queste difficoltà è condizionato da presupposti che non possono affatto essere enunciati in questa sede, ma che risultano soltanto dallo studio del processo reale della vita e dell’azione degli individui di ciascuna epoca. Qui prenderemo alcune di queste astrazioni di cui ci serviamo nei confronti dell’ideologia e le illustreremo con esempi storici.
1. La storia
Con gente priva di presupposti come i tedeschi dobbiamo cominciare col constatare il primo presupposto di ogni esistenza umana, e dunque di ogni storia, il presupposto cioè che per poter « fare storia » gli uomini devono essere in grado di vivere. Ma il vivere implica prima di tutto il mangiare e bere, l’abitazione, il vestire e altro ancora. La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni la produzione della vita materiale stessa, e questa è precisamente un’azione storica, una condizione fondamentale di qualsiasi storia, che ancora oggi, come millenni addietro, deve essere compiuta ogni giorno e ogni ora semplicemente per mantenere in vita gli uomini. Anche riducendo la sensibilità al minimo magari a un bastone [11] come nel caso di san Bruno, essa presuppone l’attività della produzione di questo bastone. In ogni concezione della storia dunque il primo punto è che si osservi questo dato di fatto fondamentale in tutta la sua importanza e in tutta la sua estensione e che gli si assegni il posto che gli spetta. Ma i tedeschi notoriamente non l’hanno mai fatto e perciò non hanno mai avuto una base terrena per la storia e di conseguenza non hanno mai avuto uno storico. I francesi e gli inglesi, pur avendo compreso tutt’al più in misura solo parziale il legame fra questo fatto e la cosiddetta storia, specialmente allorché si trovavano imprigionati nell’ideologia politica, hanno fatto però i primi tentativi per dare alla storiografia una base materialistica, scrivendo per primi storie della società civile, del commercio e dell’industria. Il secondo punto è che il primo bisogno soddisfatto, l’azione del soddisfarlo e lo strumento già acquistato di questo soddisfacimento portano a nuovi bisogni: e questa produzione di nuovi bisogni è la prima azione storica. Il che indica anche di che pasta sia fatta la grande saggezza storica dei tedeschi i quali, là dove viene loro a mancare il materiale positivo e non si agitano assurdità teologiche, politiche o letterarie, affermano che non ha luogo la storia ma i « tempi preistorici », senza però spiegarci come da questa assurdità della «preistoria» si passi nella storia vera e propria; nonostante che, d’altra parte, la loro speculazione storica ami in modo tutto speciale gettarsi su questa « preistoria », perché ritiene di trovarvisi più al sicuro dalle intromissioni del « fatto bruto » e insieme perché qui essa può allentare completamente le redini al suo impulso speculativo e creare e distruggere ipotesi a migliaia. Il terzo rapporto che interviene fino dalle prime origini nello sviluppo storico, è che gli uomini, i quali rifanno ogni giorno la loro propria vita, cominciano a fare altri uomini, a riprodursi; è il rapporto fra uomo e donna, tra genitori e figli: la famiglia. Questa famiglia, che da principio è l’unico rapporto sociale, diventa più tardi, quando gli aumentati bisogni creano nuovi rapporti sociali e l’aumentato numero della popolazione crea nuovi bisogni, un rapporto subordinato (tranne che in Germania) e deve allora essere trattata e spiegata in base ai dati empirici esistenti, non in base al « concetto della famiglia » come si suol fare in Germania [12]. D’altronde questi tre aspetti dell’attività sociale non vanno concepiti come tre gradi diversi, ma appunto solo come tre aspetti, o come tre « momenti » (tanto per scrivere in maniera chiara per i tedeschi), i quali sono esistiti fin dall’inizio della storia e fin dai primi uomini e ancor oggi hanno il loro peso nella storia.
La produzione della vita, tanto della propria nel lavoro quanto dell’altrui nella procreazione, appare già in pari tempo come un duplice rapporto: naturale da una parte, sociale dall’altra, sociale nel senso che si attribuisce a una cooperazione di più individui, non importa sotto quali condizioni, in quale modo e per quale scopo. Da ciò deriva che un modo di produzione o uno stadio industriale determinato è sempre unito con un modo di cooperazione o uno stadio sociale determinato, e questo modo di cooperazione è anche esso una « forza produttiva »; ne deriva che la quantità delle forze produttive accessibili agli uomini condiziona la situazione sociale e che dunque la «storia dell’umanità» deve essere sempre studiata e trattata in relazione con la storia dell’industria e dello scambio. Ma è anche chiaro come in Germania sia impossibile scrivere la storia in questo modo, perché ai tedeschi mancano non soltanto la capacità intellettiva e il materiale necessari, ma anche la « certezza sensibile », e al di là del Reno non si possono fare esperienze di queste cose perché laggiù la storia non va più avanti. Appare già dunque, fin dall’origine, un legame materiale fra gli uomini, il quale è condizionato dai bisogni e dal modo della produzione ed è antico quanto gli stessi uomini; un legame che assume sempre nuove forme e dunque presenta una « storia », anche senza che esista alcun non-senso politico o religioso fatto apposta per tenere congiunti gli uomini.
Solo a questo punto, dopo avere già considerato quattro momenti, quattro aspetti delle condizioni storiche originarie, troviamo che l’uomo ha anche una « coscienza » [13] . Ma anche questa non esiste, fin dall’inizio, come « pura » coscienza. Fin dall’inizio lo « spirito» porta in sé la maledizione di essere « infetto » della materia, che si presenta qui sotto forma di strati d’aria agitati, di suoni, e insomma di linguaggio. Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini. Là dove un rapporto esiste, esso esiste per me; l’animale non « ha rapporti » con alcunché e non ha affatto rapporti. Per l’animale, i suoi rapporti con altri non esistono come rapporti. La coscienza è dunque fin dall’inizio un prodotto sociale e tale resta fin tanto che in genere esistono uomini. Naturalmente, la coscienza è innanzi tutto semplice coscienza dell’ambiente sensibile immediato e del limitato legame con altre persone e cose esterne all’individuo che prende coscienza di sé; in pari tempo è coscienza della natura, che inizialmente si erge di contro agli uomini come una potenza assolutamente estranea, onnipotente e inattaccabile, verso la quale gli uomini si comportano in modo puramente animale e dalla quale si lasciano dominare come le bestie: è dunque una coscienza puramente animale della natura (religione naturale). Qui si vede subito che questa religione naturale, o questo determinato comportarsi verso la natura, è condizionato dalla forma sociale e viceversa. Qui, come dappertutto, l’identità di natura e uomo emerge anche in ciò, che il comportamento limitato degli uomini verso la natura condiziona il comportamento limitato fra uomini e uomini, condiziona i loro rapporti limitati con la natura, appunto perché la natura non è stata ancora quasi modificata storicamente, e d’altra parte la coscienza della necessità di stabilire dei contatti con gli individui circostanti, costituisce per l’uomo la prima coscienza che vive in una società. Questo inizio è di natura animale come la stessa vita sociale a questo stadio, è pura coscienza da gregge, e l’uomo a questo punto si distingue dal montone soltanto perché il suo è un istinto cosciente. Questa coscienza da montone o tribale perviene a uno sviluppo e a un perfezionamento ulteriore in virtù dell’accresciuta produttività, dell’aumento dei bisogni e dell’aumento della popolazione che sta alla base dell’uno e dell’altro fenomeno. Si sviluppa così la divisione del lavoro, che in origine era niente altro che la divisione del lavoro nell’atto sessuale, e poi la divisione del lavoro che si produce spontaneamente o « naturalmente » in virtù della disposizione naturale (per esempio la forza fisica), del bisogno, del caso, ecc. La divisione del lavoro diventa una divisione reale solo dal momento in cui interviene una divisione fra il lavoro manuale e il lavoro mentale. Da questo momento in poi la coscienza può realmente figurarsi di essere qualche cosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente, concepire realmente qualche cosa senza concepire alcunché di reale: da questo momento la coscienza è in grado di emanciparsi dal mondo e di passare a formare la « pura » teoria, teologia, filosofia, morale, ecc. Ma anche quando questa teoria, teologia, filosofia, morale, ecc. entrano in contraddizione con i rapporti esistenti, ciò può accadere soltanto per il fatto che i rapporti sociali esistenti sono entrati in contraddizione con le forze produttive esistenti; d’altra parte in una determinata cerchia nazionale di rapporti ciò può anche accadere per essersi prodotta la contraddizione non all’interno di questa cerchia nazionale, ma fra questa coscienza nazionale e la coscienza universale di una nazione [14]. D’altronde è del tutto indifferente quel che la coscienza si mette a fare per conto suo; da tutta questa porcheria ricaviamo, come unico risultato, che questi tre momenti, la forza produttiva, la situazione sociale e la coscienza, possono e debbono entrare in contraddizione fra loro, perché con la divisione del lavoro si dà la possibilità, anzi la realtà, che l’attività spirituale e l’attività materiale, il godimento e il lavoro, la produzione e il consumo tocchino a individui diversi, e la possibilità che essi non entrino in contraddizione sta solo nel tornare ad abolire la divisione del lavoro. E’ di per sé evidente, del resto, che i « fantasmi », i «vincoli», l’«essere superiore », il « concetto », la « irresolutezza », altro non sono che l’espressione spirituale idealistica, la rappresentazione apparentemente dell’individuo isolato, in realtà di ceppi e barriere molto empirici entro i quali si muovono il modo di produzione della vita e la forma di relazioni che vi è connessa.
La divisione del lavoro, che implica tutte queste contraddizioni e che a sua volta è fondata sulla divisione naturale del lavoro nella famiglia e sulla separazione della società in singole famiglie opposte l’una all’altra, implica in pari tempo anche la ripartizione, e precisamente la ripartizione ineguale, sia per quantità che per qualità, del lavoro e dei suoi prodotti, e quindi la proprietà, che ha già il suo germe, la sua prima forma, nella famiglia, dove la donna e i figli sono gli schiavi dell’uomo. La schiavitù nella famiglia, che certamente è ancora molto rudimentale e allo stato latente, è la prima proprietà, che del resto in questa fase corrisponde già perfettamente alla definizione degli economisti moderni, secondo cui essa consiste nel disporre di forza-lavoro altrui. Del resto divisione del lavoro e proprietà privata sono espressioni identiche: con la prima si esprime in riferimento all’attività esattamente ciò che con l’altra si esprime in riferimento al prodotto dell’attività.
Inoltre con la divisione del lavoro è data altresì la contraddizione fra l’interesse del singolo individuo o della singola famiglia e l’interesse collettivo di tutti gli individui che hanno rapporti reciproci; e questo interesse collettivo non esiste puramente nell’immaginazione, come «universale », ma esiste innanzi tutto nella realtà come dipendenza reciproca degli individui fra i quali il lavoro è diviso. E infine la divisione del lavoro offre anche il primo esempio del fatto che gli uomini si trovano nella società naturale, fintanto che esiste, quindi, la scissione fra interesse particolare e interesse comune, fin tanto che l’attività, quindi, è divisa non volontariamente ma naturalmente, l’azione propria dell’uomo diventa una potenza a lui estranea, che lo sovrasta, che lo soggioga,invece di essere da lui dominata. Cioè appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere , la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, cosi come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico. Questo fissarsi dell’attività sociale, questo consolidamento del nostro proprio prodotto in un potere obiettivo che ci sovrasta, che cresce fino a sfuggire al nostro controllo, che contraddice le nostre aspettative, che annienta i nostri calcoli, è stato fino ad oggi uno dei momenti principali dello sviluppo storico, e appunto da questo antagonismo fra interesse particolare e interesse collettivo l’interesse collettivo prende una configurazione autonoma come Stato, separato dai reali interessi singoli e generali, e in pari tempo come comunità illusoria, ma sempre sulla base reale di legami esistenti in ogni conglomerato familiare e tribale, come la carne e il sangue, la lingua, la divisione del lavoro accentuata e altri interessi, e soprattutto — come vedremo più in particolarmente in seguito — sulla base delle classi già determinate dalla divisione del lavoro, che si differenziano in ogni raggruppamento umano di questo genere e delle quali una domina tutte le altre. Ne consegue che tutte le lotte nell’ambito dello Stato, la lotta fra democrazia, aristocrazia e monarchia, la lotta per il diritto di voto, ecc. ecc., altro non sono che le forme illusorie nelle quali vengono condotte le lotte reali delle diverse classi (del quale fatto i teorici tedeschi non hanno il più vago sentore, benché nei Deutsch-Franzosische Jahrbucher e nella Sacra famiglia si siano date loro in proposito indicazioni sufficienti), e inoltre che ogni classe la quale aspiri al dominio, anche quando, come nel caso del proletariato, il suo dominio implica il superamento di tutta la vecchia forma della società e del dominio in genere, deve dapprima conquistarsi il potere politico per rappresentare a sua volta il suo interesse come l’universale, essendovi costretta in un primo momento. Appunto perché gli individui cercano soltanto il loro particolare interesse, che per loro non coincide col loro interesse collettivo, questo viene imposto come un interesse « generale», anch’esso a sua volta particolare e specifico, ad essi « estraneo » e da essi« indipendente», o gli stessi individui devono muoversi in questo dissidio, come nella democrazia. Giacché d’altra parte anche la lotta pratica di questi interessi particolari che sempre si oppongono realmente agli interessi collettivi e illusoriamente collettivi rende necessario l’intervento pratico e l’imbrigliamento da parte dell’interesse «generale» illusorio sotto forma di Stato. Il potere sociale, cioè la forza produttiva moltiplicata che ha origine attraverso la cooperazione dei diversi individui, determinata nella divisione del lavoro, appare a questi individui, poiché la cooperazione stessa non è volontaria ma naturale, non come il loro proprio potere unificato, ma come una potenza estranea, posta al di fuori di essi, della quale essi non sanno donde viene e dove va, che quindi non possono più dominare e che al contrario segue una sua propria successione di fasi e di gradi di sviluppo la quale è indipendente dal volere e dall’agire degli uomini e anzi dirige questo volere e agire.
Questa « estraniazione »; per usare un termine comprensibile ai filosofi, naturalmente può essere superata soltanto sotto due condizioni pratiche. Affinché essa diventi un potere «insostenibile», cioè un potere contro il quale si agisce per via rivoluzionaria, occorre che essa abbia reso la massa dell’umanità affatto « priva di proprietà » e l’abbia posta altresì in contraddizione con un mondo esistente della ricchezza e della cultura, due condizioni che presuppongono un grande incremento della forza produttiva, un alto grado del suo sviluppo; e d’altra parte questo sviluppo delle forze produttive (in cui è già implicita l’esistenza empirica degli uomini sul piano della storia universale, invece che sui piano locale) è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda, e poi perché solo con questo sviluppo universale delle forze produttive possono aversi relazioni universali fra gli uomini, ciò che da una parte produce il fenomeno della massa « priva di proprietà » contemporaneamente in tutti i popoli (concorrenza generale), fa dipendere ciascuno di essi dalle rivoluzioni degli altri, e infine sostituisce agli individui locali individui inseriti nella storia universale, individui empiricamente universali. Senza di che
1) il comunismo potrebbe esistere solo come fenomeno locale,
2) le stesse potenze dello scambio non si sarebbero potute sviluppare come potenze universali, e quindi insostenibili, e sarebbero rimaste « circostanze » relegate nella superstizione domestica,
3) ogni allargamento delle relazioni sopprimerebbe il comunismo locale.
Il comunismo è possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominanti tutti in «una volta » e simultaneamente, ciò che presuppone lo sviluppo universale della forza produttiva e le relazioni mondiali che il comunismo implica. Altrimenti, per esempio, come avrebbe potuto la proprietà avere una storia qualsiasi, assumere forme diverse, e la proprietà fondiaria, a seconda dei diversi presupposti esistenti, spingere in Francia dalla suddivisione parcellare alla concentrazione in poche mani, e in Inghilterra dalla concentrazione in poche mani alla suddivisione parcellare, come oggi accade realmente? Ovvero come avviene che il commercio, il quale pur non è altro che lo scambio dei prodotti di individui e paesi diversi, attraverso il rapporto di domanda e di offerta domina il mondo intero — un rapporto che, come dice un economista inglese, simile all’antico fato sovrasta la terra e con mano invisibile ripartisce fortuna e disgrazia fra gli uomini, edifica e distrugge regni, fa sorgere e scomparire popoli — mentre con l’abolizione della base, la proprietà privata, con l’ordinamento comunistico della produzione e con la conseguente eliminazione di quell’estraneità che impronta le relazioni degli uomini con il loro proprio prodotto, la potenza del rapporto di domanda e di offerta si dilegua e gli uomini riprendono in loro potere lo scambio, la produzione, il modo del loro reciproco comportarsi?
Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente [15].
D’altronde la massa di semplici operai — forza lavorativa privata in massa del capitale o di qualsiasi limitato soddisfacimento — e quindi anche la perdita non più temporanea di questo stesso lavoro come fonte di esistenza assicurata, presuppone, attraverso la concorrenza, il mercato mondiale. Il proletariato può dunque esistere soltanto sul piano della storia universale, così come il comunismo, che è la sua azione, non può affatto esistere se non come esistenza « storica universale ». Esistenza storica universale degli individui, cioè esistenza degli individui che è legata direttamente alla storia universale.
La forma di relazioni determinata dalle forze produttive esistenti in tutti gli stadi storici finora succedutisi, e che a sua volta le determina, è la società civile, la quale, come già risulta da quanto precede, ha come presupposto e fondamento la famiglia semplice e la famiglia composta, il cosiddetto ordinamento tribale, e nei suoi particolari è stata definita più sopra. Qui già si vede che questa società civile è il vero focolare, il teatro di ogni storia, e si vede quanto sia assurda la concezione della storia finora corrente, che si limita alle azioni di capi e di Stati e trascura i rapporti reali. La società civile comprende tutto il complesso delle relazioni materiali fra gli individui all’interno di un determinato grado di sviluppo delle forze produttive. Essa comprende tutto il complesso della vita commerciale e industriale di un grado di sviluppo e trascende quindi lo stato e la nazione, benchè, d’altra parte debba nuovamente affermarsi verso l’esterno come nazionalità e organizzarsi verso l’interno come Stato. Il termine società civile sorse nel secolo diciottesimo quando i rapporti di proprietà si erano già fatti strada fuori dal tipo di comunità antico medievale. La società civile come tale comincia a svilupparsi con la borghesia; tuttavia l’organizzazione sociale sviluppatasi immediatamente dalla produzione e dagli scambi, la quale forma in tutti i tempi la base dello stato e di ogni sovrastruttura idealistica, continua ad essere chiamata con lo stesso nome.
Sulla produzione della coscienza
Nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli individui, con l’allargarsi dell’attività sul piano storico universale, sono stati sempre asserviti a un potere a loro estraneo (oppressione che essi si sono rappresentati come un dispetto del cosiddetto spirito del mondo ecc.), a un potere che è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale. Ma è altrettanto empiricamente dimostrato che col rovesciamento dello stato attuale della società attraverso la rivoluzione comunista (di cui parleremo più avanti) e l’abolizione della proprietà privata che con essa si identifica, questo potere così misterioso per i teorici tedeschi verrà liquidato, e allora verrà attuata la liberazione di ogni singolo individuo nella stessa misura in cui la storia si trasforma completamente in storia universale. Che la ricchezza spirituale reale dell’individuo dipenda interamente dalla ricchezza delle sue relazioni reali, è chiaro dopo quanto si è detto. Soltanto attraverso quel passo i singoli individui vengono liberati dai vari limiti nazionali e locali, posti in relazione pratica con la produzione (anche spirituale) di tutto il mondo e messi in condizione di acquistare la capacità di godere di questa produzione universale di tutta la terra (creazioni degli uomini). La dipendenza universale, questa forma spontanea della cooperazione degli individui su piano storico universale, è trasformata da questa rivoluzione comunista nel controllo e neI dominio cosciente di queste forze le quali, prodotte dal reciproco agire degli uomini, finora si sono imposte ad essi e li hanno dominati come forze assolutamente estranee. Questa concezione può a sua volta essere formulata in maniera speculativo-idealistica, ossia fantasticamente, come «autoproduzione della specie» (la «società come soggetto») e quindi la serie susseguentesi di individui che stanno in connessione può essere immaginata come un singolo individuo che compie il mistero di produrre se stesso. Appare qui che gli individui, certo, si fanno l’un l’altro, fisicamente e spiritualmente, ma non fanno se stessi, né nel nonsenso di san Bruno né nel senso dell’« unico », dell’uomo « fatto ».
Questa concezione della storia si fonda dunque su questi punti: spiegare il processo reale della produzione, e precisamente muovendo dalla produzione materiale della vita immediata, assumere come fondamento di tutta la storia la forma di relazioni che è connessa con quel modo di produzione e che da esso è generata, dunque la società civile nei suoi diversi stadi, e sia rappresentarla nella sua azione come Stato, sia spiegare partendo da essa tutte le varie creazioni teoriche e le forme della coscienza, religione, filosofia, morale, ecc. ecc. e seguire sulla base di queste il processo della sua origine, ciò che consente naturalmente anche di rappresentare la cosa nella sua totalità (e quindi anche la reciproca influenza di questi lati diversi l’uno sull’altro). Essa non deve cercare in ogni periodo una categoria, come la concezione idealistica della storia, ma resta salda costantemente sul terreno storico reale, non spiega la prassi partendo dall’idea, ma spiega le formazioni di idee partendo dalla prassi materiale, e giunge di conseguenza anche al risultato che tutte le forme e prodotti della coscienza possono essere eliminati non mediante la critica intellettuale, risolvendoli nell’« autocoscienza » o trasformandoli in « spiriti », « fantasmi », « spettri », ecc., ma solo mediante il rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti, dai quali queste fandonie idealistiche sono derivate; che non la critica, ma la rivoluzione [16] è la forza motrice della storia, anche della storia della religione, della filosofia e di ogni altra teoria. Essa mostra che la storia non finisce col risolversi nella « autocoscienza » come « spirito dello spirito », ma che in essa ad ogni grado si trova un risultato materiale, una somma di forze produttive, un rapporto storicamente prodotto con la natura e degli individui fra loro, che ad ogni generazione è stata tramandata dalla precedente una massa di forze produttive, capitali e circostanze, che da una parte può senza dubbio essere modificata dalla nuova generazione, ma che d’altra parte impone ad essa le sue proprie condizioni di vita e le dà uno sviluppo determinato, uno speciale carattere; che dunque le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze. Questa somma di forze produttive, di capitali e di forme di relazioni sociali, che ogni individuo e ogni generazione trova come qualche cosa di dato, è la base reale di ciò che i filosofi si sono rappresentati come « sostanza » ed « essenza dell’uomo », di ciò che essi hanno divinizzato e combattuto, una base reale che non è minimamente disturbata, nei suoi effetti e nei suoi influssi sulla evoluzione degli uomini, dal fatto che questi filosofi, in quanto « autocoscienza » e « unico », si ribellano ad essa. Queste condizioni di vita preesistenti in cui le varie generazioni vengono a trovarsi decidono anche se la scossa rivoluzionaria periodicamente ricorrente nella storia sarà o no abbastanza forte per rovesciare la base di tutto ciò che è costituito, e qualora non vi siano questi elementi materiali per un rivolgimento totale, cioè da una parte le forze produttive esistenti, dall’altra la formazione di una massa rivoluzionaria che agisce rivoluzionariamente non solo contro alcune condizioni singole della società fino allora esistente, ma contro la stessa « produzione della vita » come è stata fino a quel momento, la « attività totale » su cui questa si fondava, allora è del tutto indifferente, per lo sviluppo pratico, se l’idea di questo rivolgimento sia già stata espressa mille volte: come dimostra la storia del comunismo.
Finora tutta la concezione della storia ha puramente e semplicemente ignorato questa base reale della storia oppure l’ha considerata come un semplice fatto marginale, privo di qualsiasi legame con il corso storico. Per questa ragione si è sempre costretti a scrivere la storia secondo un metro che ne sta al di fuori; la produzione reale della vita appare come qualche cosa di preistorico, mentre ciò che è storico, inteso come qualche cosa che è separato dalla vita comune, appare come extra e sovramondano. Il rapporto dell’uomo con la natura è quindi escluso dalla storia, e con ciò è creato l’antagonismo, fra natura e storia. Questa concezione quindi ha visto nella storia soltanto azioni di capi, di Stati e lotte religiose e in genere teoriche, e in ogni epoca, in particolare, ha dovuto condividere l’illusione dell’epoca stessa. Se un’epoca, per esempio, immagina di essere determinata da motivi puramente « politici » o « religiosi », benché « religione » e « politica » siano soltanto forme dei suoi motivi reali, il suo storico accetta questa opinione. L’« immagine », la « rappresentazione » che questi determinati uomini si fanno della loro prassi reale viene trasformata nell’unica forza determinante e attiva che domina e determina la prassi di questi uomini. Se la forma rozza in cui la divisione del lavoro si presenta presso gli indiani e gli egiziani dà origine presso questi popoli al sistema delle caste nello Stato e nella religione, lo storico crede che il sistema delle caste sia la potenza che ha prodotto quella rozza forma di società. Mentre i francesi e gli inglesi per lo meno si fermano all’illusione politica, che è ancora la più vicina alla realtà, i tedeschi si muovono nel campo del « puro spirito » e fanno dell’illusione religiosa la forza motrice della storia. La filosofia della storia di Hegel è l’ultima conseguenza, portata alla sua « espressione più pura », di tutta questa storiografia tedesca, nella quale non si tratta di interessi reali e neppure politici, ma di puri pensieri, e allora a san Bruno essa non può apparire che come una serie di « pensieri », di cui l’uno divora l’altro e infine scompare nell’« autocoscienza »; ancora più coerentemente questo corso storico doveva apparire a Max Stirner, il quale non sa nulla di tutta la storia reale, come una pura storia di « cavalieri », di masnadieri e di fantasmi, dalle cui visioni egli si può salvare, naturalmente, solo con l’«empietà» [17] . Questa concezione è realmente religiosa, postula l’uomo religioso come l’uomo originario, dal quale deriva tutta la storia, e nella sua immaginazione pone la produzione di fantasie religiose al posto della produzione reale dei mezzi di sussistenza e della vita stessa. Tutta quanta questa concezione della storia insieme con la sua decomposizione e gli scrupoli e i dubbi che ne derivano è una faccenda puramente nazionale dei tedeschi ed ha solo interesse locale per la Germania; è il caso per esempio della importante questione, più volte dibattuta di recente, di come propriamente si « venga dal regno di Dio al regno dell’uomo », come se questo « regno di Dio » fosse mai esistito se non nell’immaginazione e i dotti signori non fossero sempre vissuti, senza saperlo, in quel « regno dell’uomo » del quale ora cercano la strada; e come se il passatempo scientifico — ché più di tanto non è — di spiegare la stravaganza di questo castello in aria teorico non stesse proprio, al contrario, nel dimostrare come sia sorto dalla situazione terrena reale. Per questi tedeschi si tratta sempre di risolvere il nonsenso in cui si imbattono in qualche altra bizzarria, di presupporre cioè che tutto questo nonsenso abbia in genere un senso speciale che va scoperto, laddove si tratta soltanto di spiegare questa fraseologia teorica sulla base delle reali condizioni esistenti. La vera, pratica risoluzione di questa fraseologia, l’eliminazione di queste rappresentazioni dalla coscienza degli uomini sarà effettuata, come si è già detto, attraverso una situazione trasformata, non attraverso deduzioni teoriche. Per la massa degli uomini, cioè per il proletariato, queste rappresentazioni teoriche non esistono, e quindi per essa non hanno neppure bisogno di essere risolte, e se questa massa ha posseduto delle rappresentazioni teoriche, per esempio la religione, esse sono già state da lungo tempo dissolte dalle circostanze. Il carattere puramente nazionale di queste questioni e di queste soluzioni appare anche in ciò, che questi teorici credono in tutta serietà che chimere quali «l’uomo-Dio», «l’uomo» ecc. abbiano presieduto alle singole epoche della storia — san Bruno arriva fino al punto di sostenere che soltanto «la critica e i critici hanno fatto la storia» — e se si dedicano anch’essi a fare costruzioni storiche saltano con la massima fretta tutte le età precedenti e dal «mongolismo» passano senz’altro alla storia veramente « significativa », cioè alla storia degli Hallische Jahrbùcher e dei Deutsche Jahrbùcher e della dissoluzione della scuola hegeliana in una rissa generale. Tutte le altre nazioni, tutti gli avvenimenti reali vengono dimenticati, il theatrum mundi si limita alla fiera libraria di Lipsia e alle vicendevoli dispute della « critica », dell’«uomo » e dell’«unico ». Se per avventura una volta la teoria si mette a trattare temi storici reali, come per esempio il diciottesimo secolo, costoro danno soltanto la storia delle rappresentazioni, avulse dai fatti e dagli sviluppi pratici che ne sono la base, e anche queste col solo scopo di rappresentare quest’epoca come un primo grado imperfetto, come l’antecedente ancora difettoso della vera età storica: l’età della lotta fra i filosofi tedeschi del 1840-44. A questo scopo — di scrivere una storia dei tempi passati per fare risplendere più luminosa la gloria di una persona non storica e delle sue fantasie — serve infatti il passare sotto silenzio gli avvenimenti storici reali e persino gli interventi realmente storici della politica nella storia, e l’offrire una narrazione fondata non su studi ma su costruzioni e su storie di chiacchiere letterarie: come è accaduto a san Bruno nella sua Storia del XVIII secolo ora dimenticata. Questi alteri e magniloquenti bottegai del pensiero, che si credono infinitamente superiori a tutti i pregiudizi nazionali, nella prassi sono dunque ancor più nazionali dei filisteucci che sognano di una Germania unita. Non riconoscono realtà storica ai fatti degli altri popoli, vivono in Germania sulla Germania e per la Germania, trasformano il Canto del Reno in un canto liturgico e conquistano l’Alsazia e la Lorena saccheggiando la filosofia francese invece dello Stato francese, germanizzando i pensieri francesi invece delle province francesi. Il signor Venedey è un cosmopolita al cospetto dei santi Bruno e Max, i quali proclamano il dominio universale della Germania nel dominio universale della teoria.
Da queste spiegazioni appare anche quanto si inganni Feuerbach, quando (Wigand’s Vierteljahrsschrift, 1845, voi. II) in forza della qualifica « uomo comune » si dichiara comunista, trasformato in un predicato « dell’ » uomo, e crede quindi di poter trasformare a sua volta in una semplice categoria la parola comunista, che nel mondo esistente designa il seguace di un partito rivoluzionario determinato. Tutta la deduzione di Feuerbach relativa ai rapporti reciproci degli uomini finisce soltanto col dimostrare che gli uomini hanno e sempre hanno avuto bisogno l’uno dell’altro. Egli vuole stabilire la coscienza di questo fatto, vuole dunque, come gli altri teorici, suscitare soltanto una giusta coscienza su un fatto esistente, mentre per il comunista autentico ciò che importa è rovesciare questo esistente. Noi d’altronde riconosciamo che cercando di creare la coscienza proprio di questo fatto Feuerbach si spinge avanti di tanto quanto in genere può spingersi un teorico senza cessare di essere teorico e filosofo. Ma è caratteristico che i santi Bruno e Max mettono senz’altro la concezione di Feuerbach al posto del comunista autentico, ciò che in parte fanno per poter combattere anche il comunismo come « spirito dello spirito », come categoria filosofica, come pari avversario (e da parte di san Bruno anche in vista di interessi prammatici). Come esempio del riconoscimento e insieme del misconoscimento della realtà esistente, che Feuerbach ha pur sempre in comune con i nostri avversari, ricordiamo il luogo della Filosofia dell’avvenire in cui egli spiega come l’essere di una cosa o di un uomo sia anche la loro essenza, come le condizioni determinate di esistenza, il modo di vita e l’attività di un individuo animale o umano siano quelle in cui la sua « essenza » si sente soddisfatta. Qui ogni eccezione viene espressamente considerata come un caso disgraziato, come una anormalità che non può essere modificata. Se dunque milioni di proletari non si sentono per niente soddisfatti delle loro condizioni di esistenza, se il loro « essere » contraddice la loro « essenza », secondo Feuerbach si tratta di un caso anomalo, ma non disgraziato. Feuerbach si contenta di constatare questo fatto, interpreta soltanto il mondo sensibile esistente, mentre in realtà per il materialista pratico, cioè per il comunista, si tratta di rivoluzionare il mondo esistente, di metter mano allo stato di cose incontrato e di trasformarlo [18]. Se in Feuerbach si trovano talvolta punti di vista di questo genere, non vanno però mai al di là di qualche intuizione isolata e influiscono troppo poco sulla sua visione, generale delle cose per poter essere considerati qui altrimenti che germi capaci di sviluppo. La concezione feuerbachiana del mondo sensibile si limita da una parte alla semplice intuizione di esso, e dall’altra alla pura sensazione; egli dice «l’uomo» anziché gli «uomini storici reali». «L’uomo» è realiter «il tedesco». Nel primo caso, nell’intuizione del mondo sensibile, egli urta necessariamente in cose che contraddicono alla sua coscienza e al suo sentimento, che disturbano l’armonia, da lui presupposta, di tutte le parti del mondo sensibile e in particolare dell’uomo con la natura. Per eliminarle, egli deve quindi trovare scampo in una duplice visione, una visione profana, che scorge soltanto ciò che « si può toccare con mano », e una più alta, filosofica, che scorge la « vera essenza » delle cose [19]. Egli non vede come il mondo sensibile che lo circonda sia non una cosa data immediatamente dall’eternità, sempre uguale a se stessa, bensì il prodotto dell’industria e delle condizioni sociali; e precisamente nel senso che è un prodotto storico, il risultato dell’attività di tutta una serie di generazioni, ciascuna delle quali si è appoggiata sulle spalle della precedente, ne ha ulteriormente perfezionato l’industria e le relazioni e ne ha modificato l’ordinamento sociale in base ai mutati bisogni. Anche gli oggetti della più semplice « certezza sensibile » gli sono dati solo attraverso lo sviluppo sociale, l’industria e le relazioni commerciali. È noto che il ciliegio, come quasi tutti gli alberi da frutta, è stato trapiantato nella nostra zona pochi secoli or sono grazie al commercio, e perciò soltanto grazie a questa azione di una determinata società in un determinato tempo esso fu offerto alla « certezza sensibile » di Feuerbach. D’altra parte in questa concezione delle cose così come realmente sono e sono accadute, quale apparirà ancora più chiaramente più sotto, ogni profondo problema filosofico si risolve con la massima semplicità in un fatto empirico. Per esempio la questione importante dei rapporti degli uomini con la natura (o magari, come dice Bruno a p. 110, delle «antitesi della natura e della storia», come se fossero due « cose » separate, e l’uomo non avesse sempre di fronte a sé una natura storica e una storia naturale), dalla quale sono uscite tutte le « sublimi, incommensurabili opere » sulla «sostanza» e l’« autocoscienza », finisce automaticamente nel nulla se ci si accorge che la celeberrima « unità dell’uomo con la natura » è sempre esistita nell’industria, e in ciascuna epoca è esistita in maniera diversa a seconda del maggiore o minore sviluppo dell’industria, così come la «lotta» dell’uomo con la natura esiste finché le sue forze produttive si sviluppino su una base adeguata. L’industria e il commercio, la produzione e lo scambio dei mezzi di sussistenza condizionano da parte loro (e ne vengono a loro volta condizionati quanto al modo in cui sono esercitati) la distribuzione, l’organizzazione delle diverse classi sociali: e accade cosi allora che per esempio Feuerbach vede soltanto fabbriche e macchine a Manchester, dove un secolo fa erano solo filatoi e telai a mano, o scopre soltanto pascoli e paludi nella, campagna di Roma, dove al tempo di Augusto non avrebbe trovato altro che vigneti e ville di capitalisti romani.
Feuerbach parla in particolare della intuizione della scienza della natura, fa menzione di segreti che si rivelano soltanto all’occhio del fisico e del chimico; ma senza industria e commercio dove sarebbe la scienza della natura? Persino questa scienza « pura » della natura ottiene il suo scopo, così come ottiene il suo materiale, sol tanto attraverso il commercio e l’industria, attraverso l’attività pratica degli uomini. E tanto vero che questa attività, questo continuo lavorare e produrre sensibile, questa produzione, è la base dell’intero mondo sensibile, quale ora esiste, che se fosse interrotta anche solo per un anno Feuerbach non solo troverebbe un enorme cambiamento nel mondo naturale, ma gli verrebbe ben presto a mancare l’intero mondo umano, la sua stessa facoltà intuitiva, e anzi la sua stessa esistenza. È vero che la priorità della natura esterna rimane ferma, e che tutto questo non si può applicare agli uomini originari, prodotti da generatio aequivoca [20]; ma questa distinzione ha senso solo in quanto si consideri l’uomo come distinto dalla natura. D’altronde questa natura che precede la storia umana non è la natura nella quale vive Feuerbach, non la natura che oggi non esiste più da nessuna parte, salvo forse in qualche isola corallina australiana di nuova formazione, e che quindi non esiste neppure per Feuerbach. Di fronte ai materialisti « puri » Feuerbach ha certo il grande vantaggio di intendere come anche l’uomo sia « oggetto sensibile »; ma a parte il fatto che lo concepisce soltanto come « oggetto sensibile » e non come « attività sensibile », poiché anche qui egli resta sui terreno della teoria, e non concepisce gli uomini nella loro connessione sociale, nelle loro presenti condizioni di vita; che hanno fatto di loro ciò che sono, egli non arriva agli uomini realmente esistenti e operanti ma resta fermo all’astrazione « l’uomo », e riesce a riconoscere solo nella sensazione l’« uomo reale, individuale, in carne e ossa », il che significa che non conosce altri « rapporti umani » «dell’uomo con l’uomo » se non l’amore e l’amicizia, e per di più idealizzati. Egli non offre alcuna critica dei rapporti attuali della vita. Non giunge mai, quindi, a concepire il mondo sensibile come l’insieme dell’attività sensibile vivente degli individui che lo formano, e per ciò se in luogo di uomini sani, per esempio, vede una massa di affamati scrofolosi, sfiniti e tisici, è costretto a rifugiarsi nella « più alta intuizione » e nell’ideale « compensazione nella specie », e dunque è costretto a ricadere nell’idealismo proprio là dove il materialista comunista vede là necessità e insieme la condizione di una trasformazione tanto dell’industria quanto della struttura sociale.
Fin tanto che Feuerbach è materialista, per lui la storia non appare, e fin tanto che prende in considerazione la storia, non è un materialista. Materialismo e storia per lui sono del tutto divergenti, come del resto si spiega già in base a ciò che si è detto.
La storia non è altro che la successione delle singole generazioni, ciascuna delle quali sfrutta i materiali, i capitali, le forze produttive che le sono stati trasmessi da tutte le generazioni precedenti, e quindi da una parte continua, in circostanze del tutto cambiate, l’attività che ha ereditato; d’altra parte modifica le vecchie circostanze con un’attività del tutto cambiata; è un processo che sul terreno speculativo viene distorto al punto di fare della storia successiva lo scopo della storia precedente, di assegnare per esempio alla scoperta dell’America lo scopo di favorire lo scoppio della Rivoluzione francese; per questa via poi la storia riceve i suoi scopi speciali e diventa una « persona accanto ad altre persone» (che sono: « autocoscienza, critica, unico », ecc.), mentre ciò che vien designato come « destinazione », « scopo », « germe », « idea » della storia anteriore altro non è che un’astrazione della storia posteriore, un’astrazione dell’influenza attiva che la storia anteriore esercita sulla successiva. A mano a mano poi che nel corso di questo sviluppo si allargano le singole sfere che agiscono l’una sull’altra, a mano a mano che l’originario isolamento delle singole nazionalità viene annullato dal modo di produzione sviluppato, dalle relazioni e dalla conseguente divisione naturale del lavoro fra le diverse nazioni, la storia diventa sempre più storia universale, cosicché, per esempio, se in Inghilterra viene inventata una macchina che riduce alla fame innumerevoli lavoratori in India e in Cina e sovverte tutta la forma di esistenza di questi imperi, questa invenzione diventa un fatto storico universale; oppure, lo zucchero e il caffè dimostrarono la loro importanza, storica universale nel secolo diciannovesimo, in quanto la mancanza di questi prodotti, provocata dal sistema continentale napoleonico, portò i tedeschi a insorgere contro Napoleone e divenne quindi la base reale delle gloriose guerre di liberazione del 1813. Da ciò segue che questa trasformazione della storia in storia universale è non già un semplice fatto astratto della « autocoscienza », dello spirito del mondo o di qualche altro fantasma metafisico, ma un fatto assolutamente materiale, dimostrabile empiricamente, un fatto dì cui ciascun individuo dà prova nell’andare e venire, nel mangiare, nel bere e nel vestirsi.
Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio. Gli individui che compongono la classe dominante posseggono fra l’altro anche la coscienza, e quindi pensano; in quanto dominano come classe e determinano l’intero ambito di un’epoca storica, è evidente che essi lo fanno in tutta la loro estensione, e quindi fra l’altro dominano anche come pensanti, come produttori di idee che regolano la produzione e la distribuzione delle idee del loro tempo; è dunque evidente che le loro idee sono le idee dominanti dell’epoca. Per esempio: in un periodo e in un paese in cui potere monarchico, aristocrazia e borghesia lottano per il potere, il quale quindi è diviso, appare come idea dominante la dottrina della divisione dei poteri, dottrina che allora viene enunciata come «legge eterna». La divisione del lavoro, che abbiamo già visto come una delle forze principali della storia finora trascorsa, si manifesta anche nella classe dominante come divisione del lavoro intellettuale e manuale, cosicché all’interno di questa classe una parte si presenta costituita dai pensatori della classe (i suoi ideologi attivi, concettivi, i quali dell’elaborazione dell’illusione di questa classe su se stessa fanno il loro mestiere principale), mentre gli altri nei confronti di queste idee e di queste illusioni hanno un atteggiamento più passivo e più ricettivo, giacché in realtà sono i membri attivi di questa classe e hanno meno tempo di farsi delle idee e delle illusioni su se stessi. All’interno di questa classe questa scissione può addirittura svilupparsi fino a creare fra le due parti una certa opposizione e una certa ostilità, che tuttavia cade da sé se sopraggiunge una collisione pratica che metta in pericolo la classe stessa: allora si dilegua anche la parvenza che le idee dominanti non siano le idee della classe dominante e abbiano un potere distinto dal potere di questa classe. L’esistenza di idee rivoluzionarie in una determinata epoca presuppone già l’esistenza di una classe rivoluzionaria sui cui presupposti abbiamo già detto quanto occorre. Se ora nel considerare il corso della storia si svincolano le idee della classe dominante dalla classe dominante e si rendono autonome, se ci si limita a dire che in un’epoca hanno dominato queste o quelle idee, senza preoccuparsi delle condizioni della produzione e dei produttori di queste idee, e se quindi si ignorano gli individui e le situazioni del mondo che stanno alla base di queste idee, allora si potrà dire per esempio che al tempo in cui dominava l’aristocrazia dominavano i concetti di onore, di fedeltà, ecc., e che durante il dominio della borghesia dominavano i concetti di libertà, di uguaglianza, ecc. Queste sono, in complesso, le immaginazioni della stessa classe dominante. Questa concezione della storia che è comune a tutti gli storici, particolarmente a partire dal diciottesimo secolo, deve urtare necessariamente contro il fenomeno che dominano idee sempre più astratte, cioè idee che assumono sempre più la forma dell’universalità. Infatti ogni classe che prenda il posto di un’altra che ha dominato prima è costretta, non fosse che per raggiungere il suo scopo, a rappresentare il suo interesse come interesse comune di tutti i membri della società, ossia, per esprimerci in forma idealistica, a dare alle proprie idee la forma dell’universalità, a rappresentarle come le sole razionali e universalmente valide.
La classe rivoluzionaria si presenta senz’altro per il solo fatto che si contrappone a una classe, non come classe ma come rappresentante dell’intera società, appare come l’intera massa della società di contro all’unica classe dominante. Ciò le è possibile perché in realtà all’inizio il suo interesse è ancora più legato all’interesse comune di tutte le altre classi non dominanti, e sotto la pressione dei rapporti fino allora esistenti non si è ancora potuto sviluppare come interesse particolare di una classe particolare [21]. La sua vittoria giova perciò anche a molti individui delle altre classi che non giungono al dominio, ma solo in quanto pone questi individui in condizione di ascendere nella classe dominante. Quando la borghesia francese rovesciò il dominio dell’aristocrazia, con ciò rese possibile a molti proletari di innalzarsi al di sopra del proletariato, ma solo in quanto essi diventarono borghesi. Quindi ogni nuova classe non fa che porre il suo dominio su una base più larga della precedente, per la qual cosa anche l’opposizione delle classi non dominanti contro quella ora dominante si sviluppa più tardi con tanto maggiore asprezza e profondità. Queste due circostanze fanno sì che la lotta da condurre contro questa nuova classe dominante tenda a sua volta a una negazione della situazione sociale esistente più decisa e più radicale di quanto fosse possibile a tutte le classi che precedentemente avevano aspirato al dominio.
Tutta questa parvenza, che il dominio di una determinata classe altro non sia che il dominio di certe idee, cessa naturalmente da sé non appena il dominio di classi in generale cessa di essere la forma dell’ordinamento sociale, non appena quindi non è più necessario rappresentare un interesse particolare come universale o « l’universale » come dominante.
Una volta che le idee dominanti siano state separate dagli individui dominanti e soprattutto dai rapporti che risultano da un dato stadio del modo di produzione, e si sia giunti di conseguenza al risultato che nella storia dominano sempre le idee, è facilissimo astrarre da queste varie idee «l’idea », ecc., come ciò che domina nella storia e concepire così tutte queste singole idee e concetti come « autodeterminazioni » del concetto che si sviluppa nella storia. Allora è anche naturale che tutti i rapporti degli uomini possano venire ricavati dal concetto dell’uomo, dall’uomo quale viene rappresentato, dall’essenza dell’uomo, dall’uomo. È ciò che ha fatto la filosofia speculativa. Hegel arriva a confessare, alla fine della sua filosofia della storia, « di avere considerato soltanto il processo del concetto » e di avere esposto nella storia la « vera teodicea » (p. 446). Si può quindi ritornare ai produttori « del concetto », ai teorici, agli ideologi e ai filosofi, e giungere quindi al risultato che i filosofi, i pensatori come tali, hanno dominato da sempre nella storia; un risultato che, come abbiamo visto, fu anche già espresso da Hegel. Quindi tutto il gioco di. abilità, per dimostrare la sovranità dello spirito nella storia (gerarchia in Stirner), si riduce ai seguenti tre efforts:
1) Si devono separare le idee di coloro che dominano per ragioni empiriche, sotto condizioni empiriche e come individui materiali, da questi dominatori, e con ciò riconoscere il dominio di idee o illusioni nella storia.
2) Si deve metter un ordine in questo dominio delle idee, dimostrare un nesso mistico fra le successive idee dominanti, al che si perviene considerandole come « autodeterminazioni del concetto » (la cosa è possibile perché fra queste idee, attraverso la loro base empirica, esiste realmente un flesso, e perché esse, concepite come pure idee, diventano autodistinzioni, distinzioni fatte dal pensiero).
3) Per eliminare l’aspetto mistico di questo « concetto autodeterminantesi », lo si trasforma in una persona — « l’autocoscienza » — oppure, per apparire perfetti materialisti, in una serie di persone che rappresentano « il concetto » nella storia, i « pensatori », i « filosofi », gli ideologi, i quali ancora una volta sono concepiti come i fabbricanti della storia, come il « consesso dei guardiani », come i dominatori. Con ciò si sono eliminati dalla storia tutti quanti gli elementi materialistici e si possono allentare tranquillamente le briglie al destriero speculativo.
Questo metodo storiografico che dominava soprattutto in Germania, e specie perché vi ha dominato, va spiegato muovendo dalla sua connessione con l’illusione degli ideologi in genere, per esempio le illusioni dei giuristi, dei politici (ivi compresi i pratici uomini di Stato), dai vaneggiamenti dogmatici di codesti tipi; la quale illusione è semplicissimamente spiegata dalla loro posizione pratica nella vita, dal loro mestiere e dalla divisione del lavoro.
[1] Sussumere: ricondurre un concetto ad in una categoria più generale.
[2] In quanto trasformano tutto in dogmi e in rapporti religiosi Bauer e Stirner sono spesso chiamati qui ironicamente san Bruno e san Max.
[3] Altra precisa allusione a Feuerbach, B. Bauer e Stirner.
[4] Gli individui non sono astratti o dati in sé, ma surdeterminati dalle condizioni storiche, sociali, economiche, politiche, etc. sia già esistenti sia prodotte dalla loro stessa azione.
[5] Riferimento a‘Essenza del cristianesimo di Feuerbach
[6] Legge del 367 A.C proposta dal tribuno Gaio Licinio Stolone che stabiliva un limite alla proprietà fondiaria.
[7] Cfr F. Engels Lettera a J. Bloch 1890
[8] Cfr. K. Marx, “ Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza” Introduzione a Per la critica dell’economia politica
[9] Cioè non hanno uno sviluppo autonomo.
[10] La filosofia, come pura ricerca speculativa non ha più ragione di esistere. “si lascia correre la verità assoluta, che per questa via e da ogni singolo isolatamente non può essere raggiunta, e si dà la caccia invece alle verità relative accessibili per la via delle scienze positive e della sintesi dei loro risultati a mezzo del pensiero dialettico. Con Hegel ha fine, in generale, la filosofia; da una parte perché egli, nel suo sistema, ne riassume l’evoluzione nella maniera più grandiosa, dall’altra perché egli, sia pur inconsapevolmente, ci mostra la via che da questo labirinto di sistemi ci porta alla vera conoscenza positiva del mondo. (F. Engels, “Ludovico Feuerbach”)
[11] Allusione a un’espressione di Bauer.
[12] Costruzione di case. Presso i selvaggi è cosa ovvia che ciascuna famiglia abbia la sua propria grotta o capanna, come presso i nomadi la tenda separata di ciascuna famiglia. Questa economia domestica separata è resa ancor più necessaria dal successivo sviluppo della proprietà privata. Presso i popoli agricoltori l’economia domestica collettiva è altrettanto impossibile quanto la coltivazione collettiva della terra. Un grande progresso fu la costruzione di città. In tutti i periodi del passato tuttavia l’abolizione dell’economia separata, che è inseparabile dall’abolizione della proprietà privata, era impossibile se non altro perché non ne esistevano le condizioni materiali.
L’istituzione di una economia domestica collettiva presuppone lo sviluppo delle macchine, dell’utilizzazione delle forze produttive — per esempio gli acquedotti, l’illuminazione a gas, il riscaldamento a vapore ecc. — e l’abolizione di città e campagne. Senza queste condizioni l’economia collettiva non sarebbe neppure una nuova forza produttiva, mancherebbe di qualsiasi base materiale, poggerebbe su un fondamento puramente teorico, cioè sarebbe un puro capriccio e condurrebbe a un’economia claustrale. Quel che era possibile appare nella concentrazione in città e nella costruzione di case collettive per scopi determinati (prigioni, caserme ecc.). Che l’abolizione dell’economia separata sia inseparabile dall’abolizione della famiglia è cosa che s’intende da sé. (Nota di Marx e Engels)
[13] Gli uomini hanno una storia perché debbono produrre la propria vita, e la devono precisamente produrre in una maniera determinata: ciò è dovuto alla loro organizzazione fisica così come alla loro coscienza. (Nota di Marx)
[14] Religione. I tedeschi con l’ideologia come tale (Nota di Marx)
[15] Critica al comunismo precedente, definito da Marx “utopistico”, che si rappresentava attraverso categorie ideali, senza tener conto delle condizioni materiali per realizzarsi.
[16] Cfr. Marx e Engels, il Manifesto del Partito comunista: “La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi”. Non è un soggetto o un’idea che fa la storia, ma è la lotta di classe il motore della storia.
[17] La cosiddetta storiografia obiettiva consisteva appunto nel concepire le situazioni storiche separate dall’attività. Carattere reazionario . (Nota di Marx)
[18] Cfr. K.Marx, XI Tesi su Feuerbach
[19] L’errore non sta nel fatto che Feuerbach subordina le cose che si possono toccare con mano, l’apparenza sensibile, alla realtà sensibile, constatata attraverso lo studio approfondito dei fatti sensibili, ma nel fatto che in ultima istanza egli non può venire a capo della realtà sensibile senza esaminarla con gli « occhi », ossia con gli « occhiali » del filosofo. (Nota di Engels).
[20] Generazione spontanea.
[21] L’universalità corrisponde: 1) alla classe contra ordine, 2) alla concorrenza, relazioni mondiali, ecc., 3) alla grande consistenza numerica della classe dominante, 4) all’illusione della comunità di interessi (inizialmente questa illusione è vera), 5) all’inganno degli ideologi e alla divisione del lavoro. (Nota di Marx).
Capitolo III
La base reale dell’ideologia
1.Relazioni e forza produttiva
La più grande divisione del lavoro materiale e intellettuale è la separazione di città e campagna. L’antagonismo tra città e campagna comincia col passaggio dalla barbarie alla civiltà, dall’organizzazione in tribù allo Stato, dalla località alla nazione, e si protrae attraverso tutta la storia della civiltà fino ai nostri giorni (l’Anti Corn Law League). L’esistenza della città implica immediatamente la necessità dell’amministrazione, della polizia, delle imposte, ecc., in una parola dell’organizzazione comunale, e quindi della politica in genere. Apparve qui per la prima volta la divisione della popolazione in due grandi classi, che è fondata sulla divisione del lavoro e sugli strumenti di produzione. La città è già il fatto della concentrazione della popolazione, degli strumenti di produzione, del capitale, dei godimenti, dei bisogni, mentre la campagna fa apparire proprio il fatto opposto, l’isolamento e la separazione. L’antagonismo fra città e campagna può esistere solo nell’ambito della proprietà privata. Esso è la più crassa espressione della sussunzione dell’individuo sotto la divisione del lavoro, sotto una determinata attività che gli viene imposta; sussunzione che fa dell’uno il limitato animale cittadino, dell’altro il limitato animale campagnolo, e che rinnova quotidianamente l’antagonismo fra i loro interessi. Il lavoro è qui ancora una volta la cosa principale, il potere sopra gli individui, e fin tanto che questo esiste, deve esistere la proprietà privata. L’abolizione dell’antagonismo fra città e campagna è una delle prime condizioni della comunità, condizione che dipende a sua volta da una quantità di presupposti materiali e che non può essere realizzata dalla semplice volontà, come ciascuno può osservare a prima vista. (Queste condizioni debbono ancora essere spiegate). La separazione fra città e campagna può essere vista anche come la separazione fra capitale e proprietà fondiaria, come l’inizio di un’esistenza e di uno sviluppo del capitale indipendente dalla proprietà fondiaria, di una proprietà che ha la sua base soltanto nel lavoro e nello scambio.
Nelle città che, nel Medioevo, non erano tramandate già fatte dalla storia precedente, ma che furono formate ex novo dai servi divenuti liberi, il particolare lavoro di ciascuno era la sua unica proprietà, al di fuori del piccolo capitale che portava con sé, consistente quasi solo nello strumento di lavoro più necessario. La concorrenza dei servi fuggitivi che affluivano incessantemente nella città, la guerra incessante della campagna contro la città e, di conseguenza, la necessità di una forza militare cittadina organizzata, il legame della proprietà comune in un lavoro determinato, la necessità di edifici in comune per la vendita delle merci in un’epoca in cui gli artigiani erano contemporaneamente commerçants e la con seguente esclusione degli estranei da questi edifici, la necessità di una protezione del lavoro appreso con fatica e l’organizzazione feudale dell’intero paese furono la causa dell’unione in corporazioni dei lavoratori di ciascun mestiere. Non occorre che qui ci dilunghiamo sulle molteplici modificazioni del sistema corporativo, che sorsero attraverso i successivi sviluppi storici. La fuga dei servi nelle città continuò ininterrotta durante tutto il Medioevo. Questi servi, perseguitati nelle campagne dai loro signori, arrivavano isolatamente nelle città, dove trovavano una comunità organizzata contro la quale erano impotenti e nella quale dovevano assoggettarsi alla posizione che ad essi assegnava il bisogno del loro lavoro e l’interesse dei loro concorrenti cittadini organizzati. Questi lavoratori che arrivavano isolatamente non potevano mai costituire una forza, perché se il loro lavoro era regolato da una corporazione e doveva essere appreso, i maestri della corporazione se li sottomettevano e li organizzavano secondo il loro interesse; ovvero, se il loro lavoro non doveva essere appreso e quindi non era regolato da una corporazione ma era lavoro a giornata, essi non arrivavano mai a costituire un’organizzazione e restavano plebe disorganizzata. La necessità del lavoro salariato nelle città creò la plebe.
Queste città erano delle vere «associazioni», provocate dal bisogno immediato, dalla preoccupazione di proteggere la proprietà e di moltiplicare i mezzi di produzione e i mezzi di difesa dei singoli membri. La plebe di queste città, per essere composta di individui tra loro estranei, giunti isolatamente, disorganizzati e contrapposti a una forza organizzata, equipaggiata militarmente, che li sorvegliava gelosamente, era priva di ogni potere. In ciascun mestiere i garzoni e gli apprendisti erano organizzati nel modo che meglio rispondeva all’interesse dei maestri; il rapporto patriarcale in cui essi si trovavano con i maestri dava a questi un doppio potere: da una parte nella loro influenza diretta sull’intera vita dei garzoni; d’altra parte perché per i garzoni che lavoravano presso lo stesso maestro questi rapporti rappresentavano un vero legame, che li teneva uniti di contro ai garzoni degli altri maestri e li separava da essi; infine i garzoni erano legati all’ordinamento esistente se non altro per l’interesse che avevano a diventare essi stessi maestri. Quindi, mentre la plebe arrivava almeno a compiere delle sommosse contro l’intero ordine cittadino, che però restavano affatto inefficaci a causa della sua impotenza, i garzoni giungevano soltanto a piccole ribellioni all’interno delle singole corporazioni, com’è nella natura stessa del regime corporativo. Le grandi sollevazioni del Medioevo partirono tutte dalla campagna, ma restarono ugualmente senza alcun effetto per la dispersione e per la conseguente rozzezza dei contadini. Nelle città la divisione del lavoro tra le singole corporazioni era ancora assai poco sviluppata e all’interno delle corporazioni stesse, fra i singoli lavoratori, non lo era affatto. Ogni lavoratore doveva essere abile in tutto un ciclo di lavoro, doveva saper fare tutto ciò che andava fatto con i suoi strumenti; le relazioni limitate e gli scarsi collegamenti tra le singole città, la rarità della popolazione e la limitatezza dei bisogni non consentiva il sorgere di una divisione del lavoro più spinta, e perciò chiunque voleva diventare maestro doveva essere completamente padrone del suo mestiere. Per questo negli artigiani medievali si trova ancora un interesse per il proprio particolare lavoro e per l’abilità che poteva elevarsi fino ad un certo, limitato, senso artistico. Per questo, però, ogni artigiano medievale era interamente preso dal suo lavoro, aveva con esso un rapporto di soddisfatto asservimento ed era sussunto sotto di esso assai più del lavoratore moderno, per il quale il suo lavoro è indifferente. In queste città il capitale era un capitale naturale, che consisteva nell’abitazione, negli strumenti del mestiere e nella clientela naturale, ereditaria, e non essendo realizzabile, per le relazioni non ancora sviluppate e per la mancanza di circolazione, doveva essere trasmesso di padre in figlio. Questo capitale non era valutabile in denaro, come quello moderno, per il quale è indifferente l’essere investito in questa o in quella cosa; esso era invece direttamente legato al lavoro determinato del possessore, inseparabile da esso, e quindi era un capitale connesso con un ordine sociale.
La successiva estensione della divisione del lavoro fu la separazione di produzione e relazioni commerciali, la formazione di una classe speciale di commercianti, separazione che nelle città storicamente tramandate era già stata trasmessa (fra l’altro con gli ebrei) e che in quelle di nuova formazione apparve ben presto. Con ciò era data la possibilità di comunicazioni commerciali che oltrepassavano la cerchia più immediata, possibilità la cui realizzazione dipendeva dai mezzi di comunicazione esistenti, dallo stato della sicurezza pubblica nelle campagne, dipendente dalle condizioni politiche (è noto che durante tutto il Medioevo i mercanti viaggiavano in carovane armate), e dai bisogni più o meno rozzi o evoluti, condizionati caso per caso dal grado di civiltà, del territorio accessibile agli scambi. Col traffico costituito in una classe particolare, con l’estensione. del commercio, da parte dei mercanti, al di là dei dintorni immediati della città, appare immediatamente un’influenza reciproca fra produzione e scambio. Le città entrano in collegamento reciproco, nuovi strumenti vengono portati da una città nell’altra, e la divisione fra produzione e scambio provoca presto una nuova divisione della produzione fra le singole città, ciascuna delle quali ben presto sfrutta un ramo d’industria predominante. La limitazione iniziale alla località comincia a poco a poco ad essere eliminata.
Nel Medioevo in ogni città i cittadini erano costretti ad unirsi contro la nobiltà delle campagne per difendere la pelle; l’estensione del commercio, lo stabilirsi delle comunicazioni conduceva le singole città a conoscere altre città che avevano irto trionfare gli stessi interessi lottando contro la stessa opposizione. Dalle numerose borghesie locali delle singole città sorse assai lentamente la classe borghese. Attraverso l’opposizione contro le condizioni esistenti e attraverso il modo di lavoro da esse condizionato, le condizioni di vita del singolo borghese diventarono insieme condizioni che erano comuni a tutti i borghesi e indipendenti da ciascun individuo singolo. I borghesi avevano creato queste condizioni in quanto si erano svincolati dai legami feudali, ed erano stati creati da esse in quanto erano determinati dalla loro opposizione contro il sistema feudale preesistente. Con lo stabilirsi dei collegamenti delle singole città queste condizioni comuni si svilupparono per diventare condizioni di classe. Le stesse condizioni, la stessa opposizione, gli stessi interessi dovevano far sorgere in complesso anche gli stessi costumi dappertutto. La borghesia stessa non si sviluppa che a poco a poco insieme con le sue condizioni, si scinde poi in varie frazioni sulla base della divisione del lavoro e infine assorbe in sé tutte le classi possidenti preesistenti (mentre trasforma in una nuova classe, il proletariato, la maggioranza dei non possidenti che prima esistevano e una parte delle classi fino allora possidenti) nella misura in cui tutta la proprietà preesistente è trasformata in capitale industriale o commerciale. I singoli individui formano una classe solo in quanto debbono condurre una lotta comune contro un’altra classe; per il resto essi stessi si ritrovano l’uno di contro all’altro come nemici, nella concorrenza. D’altra parte la classe acquista a sua volta autonomia di contro agli individui, cosicché questi trovano predestinate le loro condizioni di vita, hanno assegnata dalla classe la loro posizione nella vita e con essa il loro sviluppo personale, e sono sussunti sotto di essa. Questo fenomeno è identico alla sussunzione dei singoli individui sotto la divisione del lavoro e può essere eliminato soltanto mediante il superamento della proprietà privata e del lavoro stesso. Abbiamo già accennato più volte come questa sussunzione degli individui sotto la classe si sviluppi in pari tempo in una sussunzione sotto idee dì ogni genere, ecc.
Dipende unicamente dall’estensione delle relazioni commerciali se le forze produttive acquisite in una località, soprattutto le invenzioni, vadano o no perdute per lo sviluppo successivo. Fin tanto che non esistono relazioni che oltrepassino le vicinanze immediate, ogni invenzione deve essere fatta separatamente in ciascuna località, e avvenimenti puramente accidentali, come l’irruzione di popoli barbari o persino le consuete guerre, sono sufficienti per costringere un paese con forze produttive e bisogni sviluppati a ricominciare dal principio. Agli inizi della storia ciascuna invenzione doveva essere rifatta ogni giorno e in ogni località indipendentemente. Quanto poco le forze produttive perfezionate siano al sicuro da una completa scomparsa, anche in presenza di un commercio relativamente assai esteso, è dimostrato dai fenici, le cui invenzioni andarono perdute per la maggior parte, e per lungo tempo, in seguito all’eliminazione di quel popolo dal commercio, alla conquista di Alessandro e al declino che ne seguì. Altrettanto può dirsi, per esempio, per la pittura su vetro del Medioevo. Solo quando le relazioni si sono estese su scala mondiale ed hanno per base la grande industria, quando tutte le nazioni sono trascinate nella lotta della concorrenza, la durata delle forze produttive acquisite è assicurata.
La divisione del lavoro fra le diverse città ebbe come prima conseguenza il sorgere delle manifatture, rami di produzione scaturiti dal sistema corporativo. Il primo fiorire delle manifatture — in Italia e più tardi nelle Fiandre — ebbe come presupposto storico il commercio con nazioni straniere. In altri paesi — Inghilterra e Francia, per esempio — le manifatture si limitarono inizialmente al mercato interno. Oltre quelli indicati, le manifatture avevano come presupposto una già progredita concentrazione della popolazione — soprattutto nelle campagne — e del capitale, che cominciava ad accumularsi nelle mani di pochi, parte nelle corporazioni, nonostante i regolamenti corporativi, parte presso i commercianti.
Quel lavoro che presupponeva fin da principio una macchina, sia pure nella forma più rudimentale, si dimostrò ben presto come il più capace di sviluppo. La tessitura, che fino allora era esercitata in campagna dai contadini come attività secondaria, per procurar il vestiario occorrente, fu il primo lavoro che in seguito all’estensione del commercio ebbe impulso e ulteriore sviluppo. La tessitura fu la prima manifattura e restò la principale. La crescente domanda di stoffe, dovuta all’aumento della popolazione, l’incipiente accumulazione e mobilizzazione del capitale naturale grazie all’accelerata circolazione, il bisogno di lusso che ciò provocava e che era favorito in genere dal progressivo estendersi del commercio, dettero alla tessitura un impulso quantitativo e qualitativo che la strappò alla forma di produzione fino allora esistente. Accanto ai contadini che tessevano per il proprio consumo, che continuavano ad esistere ed esistono ancora, sorse nelle città una classe nuova di tessitori i cui tessuti erano destinati all’intero mercato interno e per lo più anche ai mercati stranieri.
La tessitura, lavoro che nella maggior parte dei casi richiede poca abilità e che si suddivide presto in un’infinità di rami, per sua natura riluttava assolutamente ai vincoli della corporazione. La tessitura fu quindi generalmente esercitata senza organizzazione corporativa anche in villaggi e borgate commerciali, i quali diventarono gradualmente città e anche, ben presto, le città più fiorenti di ciascun paese. Con la manifattura svincolata dalla corporazione mutarono immediatamente anche i rapporti di proprietà. Il primo passo avanti, rispetto al capitale naturale degli ordini sociali, fu segnato dalla comparsa dei commercianti, il cui capitale nacque subito come capitale mobile, capitale nel senso moderno per quel tanto che se ne può parlare rispetto alle condizioni di quell’epoca. Il secondo passo avanti si ebbe con la manifattura, la quale a sua volta mobilizzò una massa di capitale naturale e accrebbe in genere la massa del capitale mobile di contro al capitale naturale. La manifattura diventò in pari tempo un rifugio per i contadini contro le corporazioni che li escludevano o li pagavano male, così come prima le città corporative erano state un rifugio per i contadini contro i proprietari fondiari che li opprimevano.
Contemporaneamente all’inizio delle manifatture si ebbe un periodo di vagabondaggio, provocato dalla scomparsa delle compagnie al seguito dei feudatari, dallo scioglimento degli eserciti che si erano raccolti e che avevano servito i re contro i vassalli, dal miglioramento dell’agricoltura e dalla trasformazione in pascolo di grandi estensioni di terreno arativo. Da ciò già appare come questo vagabondaggio sia precisamente in rapporto con la dissoluzione del feudalesimo. Già nel tredicesimo secolo appaiono epoche isolate con questi caratteri, ma in forma generale e permanente questo vagabondaggio si manifesta solo con la fine del quindicesimo e con l’inizio del sedicesimo secolo. Questi vagabondi, i quali erano talmente numerosi che tra l’altro Enrico VIII d’Inghilterra ne fece impiccare 72.000, erano indotti a lavorare solo a prezzo di grandi difficoltà, se spinti da un’estrema miseria e soltanto dopo lunga resistenza. Il rapido fiorire delle manifatture, specialmente in Inghilterra, a poco a poco li assorbì. Con la manifattura le varie nazioni entrarono in un rapporto di concorrenza, nella lotta commerciale che fu combattuta con guerre, dazi protettivi e proibizioni, laddove prima le nazioni, quando erano in relazione, avevano praticato tra loro pacifici scambi. Da questo momento in poi il commercio ha importanza politica.
Con la manifattura fu in pari tempo introdotto un diverso rapporto fra lavoratore e datore di lavoro. Nelle corporazioni sussisteva il rapporto patriarcale fra garzoni e maestro; nella manifattura subentrò in suo luogo il rapporto di denaro fra lavoratore e capitalista: rapporto che in campagna e nelle piccole città conservò una tinta patriarcale, mentre nelle città più grandi, propriamente manifatturiere, perdette ben presto quasi ogni colore patriarcale.
La manifattura e il movimento della produzione in genere presero uno slancio enorme in seguito all’allargamento del commercio che si ebbe con la scoperta dell’America e della via marittima delle Indie orientali. I nuovi prodotti di là importati, soprattutto le masse d’oro e d’argento che entrarono in circolazione, trasformarono completamente la posizione reciproca delle classi sociali e assestarono un duro colpo alla proprietà fondiaria feudale e ai lavoratori, le spedizioni degli avventurieri, la colonizzazione e soprattutto l’allargamento dei mercati in mercato mondiale, che solo ora era diventato possibile e si attuava ogni giorno di più, provocarono una nuova fase dello sviluppo storico sulla quale, in generale, non occorre che ci soffermiamo oltre. La colonizzazione dei paesi di recente scoperta dette alla lotta commerciale fra le nazioni nuovo alimento e, di conseguenza, una maggiore estensione e una maggiore asprezza.
L’estendersi del commercio e della manifattura accelerò l’accumulazione del capitale mobile, mentre nelle corporazioni, che non ricevettero alcuno stimolo ad allargare la produzione, il capitale naturale restava statico o anche diminuiva. Il commercio e la manifattura crearono la grande borghesia, mentre nelle corporazioni si concentrava la piccola borghesia, che non dominava più come prima nelle città ma doveva piegarsi al dominio dei grandi mercanti e manifatturieri. Da qui il declino delle corporazioni, non appena entrarono in contatto con la manifattura.
I rapporti reciproci fra le nazioni, nel commercio, assunsero due aspetti diversi durante l’epoca di cui abbiamo parlato. All’inizio la scarsa quantità d’oro e d’argento circolante provocò il divieto di esportare questi metalli; e l’industria, resa necessaria per occupare la crescente popolazione cittadina e per lo più importata dall’estero, non poteva fare a meno dei privilegi che naturalmente potevano essere accordati non solo contro la concorrenza interna, ma principalmente contro quella straniera. In queste proibizioni primitive il privilegio corporativo locale fu esteso a tutta la nazione. I dazi nacquero dai tributi imposti dai signori feudali ai mercanti che attraversavano il loro territorio, come indennizzo per i saccheggi, tributi che più tardi furono ugualmente imposti dalle città e che all’apparizione dello Stato moderno rappresentarono per il fisco il mezzo più a portata di mano per far denaro. Quei provvedimenti acquistarono un altro significato con la comparsa dell’oro e dell’argento americano sui mercati europei, col progressivo sviluppo dell’industria, col rapido slancio del commercio e la conseguente ascesa della borghesia non legata alle corporazioni, e con l’importanza crescente del denaro. Lo Stato, per il quale era ogni giorno più difficile fare a meno del denaro, mantenne per considerazioni fiscali il divieto di esportare l’oro e l’argento; i borghesi, per i quali l’obiettivo principale era di accaparrare queste masse di denaro appena gettate sul mercato, ne erano completamente soddisfatti; i privilegi già esistenti diventarono una fonte di entrate per il governo e furono venduti per denaro; nella legislazione doganale apparvero i dazi di esportazione i quali, non facendo altro che ostacolare l’industria, avevano uno scopo puramente fiscale.
Il secondo periodo cominciò con la metà del secolo diciassettesimo e durò quasi fino alla fine del diciottesimo. Il commercio e la navigazione si erano sviluppati più rapidamente della manifattura, che rappresentava una parte secondaria; le colonie cominciarono a diventare grossi consumatori, le singole nazioni si divisero lottando a lungo nel mercato mondiale che si apriva. Questo periodo ha inizio con le leggi sulla navigazione e i monopoli coloniali. La concorrenza fra le nazioni fu esclusa nella massima misura possibile mediante tariffe, proibizioni, trattati; e in ultima istanza la lotta di concorrenza fu condotta e decisa con le guerre (specialmente con le guerre marittime). La nazione più potente sul mare, l’Inghilterra, conservò la preponderanza nel commercio e nella manifattura. Già qui troviamo la concentrazione in un solo paese.
La manifattura era continuamente tutelata con dazi protettivi sul mercato interno, con monopoli sul mercato coloniale, e il più possibile con dazi differenziali sui mercati esteri. Fu favorita la lavorazione del materiale prodotto all’interno (lana e lino in Inghilterra, seta in Francia), vietata l’esportazione della materia grezza prodotta all’interno (lana in Inghilterra), trascurata o impedita quella della materia importata (cotone in Inghilterra). La nazione predominante nel commercio marittimo e nella potenza coloniale si assicurò naturalmente anche la maggiore estensione quantitativa e qualitativa della manifattura. La manifattura non poteva in genere fare a meno della protezione, poiché il minimo mutamento verificatosi in altri paesi può farle perdere il mercato e rovinarla; essa viene introdotta facilmente in un paese, in condizioni più o meno favorevoli, e appunto per questo può essere facilmente distrutta. E intanto, per il modo in cui era praticata soprattutto nel secolo XVIII nelle campagne, essa è così intimamente legata con le condizioni di vita di una gran massa di individui che nessun paese può osare di metterne in gioco l’esistenza col permettere la libera concorrenza. Nella misura in cui giunge ad esportare, essa dunque dipende completamente dall’espansione o dalla limitazione del commercio, ed esercita su di esso una reazione relativamente assai limitata. Da ciò la sua importanza secondaria e l’influenza dei commercianti nel diciottesimo secolo. Furono i commercianti, e in particolare gli armatori, che più di tutti fecero pressione per la protezione di Stato e i monopoli; è vero che anche i manifatturieri sollecitavano ed ottenevano la protezione, ma per importanza politica restarono sempre dietro ai commercianti. Le città commerciali, e specialmente le città marinare, diventarono relativamente civili ed erano centri della grande borghesia, mentre le città industriali conservavano uno spirito estremamente piccolo-borghese. Cfr. Aikin ecc. Il secolo diciottesimo fu il secolo del commercio. Pinto lo dice espressamente: « Le commerce fait la marotte du siècle», e « depuis quelque temps il n’est plus question que de commerce, de navigation et de marine» [1].
Questo periodo è anche caratterizzato dalla cessazione del divieto di esportare oro e argento, dal sorgere del mercato monetario,delle banche, del debito pubblico, della carta-moneta, delle speculazioni sulle azioni e i capitali, dell’aggiotaggio su tutti gli articoli e dallo sviluppo del sistema finanziario in genere. Il capitale perdette nuovamente gran parte del carattere naturale che ancora gli era rimasto.
La concentrazione del commercio e della manifattura che nel secolo diciassettesimo si sviluppò ininterrottamente in un solo paese, l’Inghilterra, creò gradualmente per questo paese un mercato mondiale relativo e quindi una domanda per i prodotti manufatti di questo paese che non poteva essere più soddisfatta dalle forze produttive industriali allora esistenti. Questa domanda crescente al di là delle forze produttive fu la forza motrice che, creando la grande industria, — l’impiego delle forze elementari a scopi industriali, le macchine e la divisione del lavoro portata al massimo, — suscitò il terzo periodo della proprietà privata dal Medioevo in poi. Le altre condizioni di questa nuova fase — la libertà di concorrenza all’interno della nazione, il perfezionamento della meccanica teorica (la meccanica perfezionata da Newton nel XVIII secolo era la scienza più popolare in Francia e in Inghilterra), ecc. — esiste vano già in Inghilterra. (La libera concorrenza all’interno della nazione stessa dovette essere conquistata dappertutto con una rivoluzione: 1640 e 1688 in Inghilterra, 1789 in Francia). La concorrenza costrinse presto ogni paese che voleva conservare la sua funzione storica a proteggere le sue manifatture con nuove misure doganali (i vecchi dazi non servivano più contro la grande industria) e subito dopo a introdurre la grande industria sotto dazi protettivi. Nonostante questi mezzi di protezione, la grande industria universalizzò la concorrenza (essa è la libertà di commercio pratica, e i dazi protettivi non sono in essa che un palliativo, uno strumento di difesa all’interno della libertà di commercio), stabilì i mezzi di comunicazione e il mercato mondiale moderno, sottomise a sé il commercio, trasformò ogni capitale in capitale industriale e generò così la circolazione rapida (perfezionamento del sistema finanziario) e la centralizzazione dei capitali. Con la concorrenza universale essa costrinse tutti gli individui alla tensione estrema delle loro energie. Essa distrusse il più possibile l’ideologia, la religione, la morale, ecc. e quando ciò non le fu possibile ne fece flagranti menzogne. Essa produsse per la prima volta la storia mondiale, in quanto fece dipendere dal mondo intero ogni nazione civilizzata, e in essa ciascun individuo, per la soddisfazione dei suoi bisogni, e in quanto annullò l’allora esistente carattere esclusivo delle singole nazioni. Sussunse le scienze naturali sotto il capitale e tolse alla divisione del lavoro l’ultima parvenza del suo carattere naturale. Per quanto ciò era possibile nell’ambito del lavoro, distrusse l’impronta naturale in genere e risolse tutti i rapporti naturali in rapporti di denaro. In luogo delle città naturali, creò le grandi città industriali moderne, sorte da un. giorno all’altro. Là dove penetrò, essa distrusse l’artigianato e in generale tutti gli stadi anteriori dell’industria, Completò la vittoria della città commerciale sulla campagna. Il suo primo presupposto è il sistema automatico. Il suo sviluppo creò una massa di forze produttive per le quali la proprietà privata diventò un intralcio non minore di quel che era stata la corporazione per la manifattura e la piccola azienda rurale per l’artigianato in via di sviluppo. Sotto la proprietà privata queste forze produttive non conoscono che uno sviluppo unilaterale, per la maggior parte diventano forze distruttive, e una quantità di tali forze non può trovare nel regime della proprietà privata alcuna applicazione. In generale essa creò dappertutto gli stessi rapporti fra le classi della società e in tal modo distrusse l’individualità particolare delle singole nazionalità. E infine, mentre la borghesia di ciascuna nazione conserva ancora interessi nazionali particolari, la grande industria creò una classe che ha il medesimo interesse in tutte le nazioni e per la quale la nazionalità è già annullata, una classe che è realmente liberata da tutto il vecchio mondo e in pari tempo si oppone ad esso. Essa rende insopportabile al lavoratore non soltanto il rapporto col capitalista, ma il lavoro stesso.
È ovvio che la grande industria non giunge allo stesso grado di perfezionamento in ogni località di un paese. Ma ciò non frena il movimento di classe del proletariato, perché i proletari generati dalla grande industria si pongono alla testa di questo movimento e trascinano con sé tutta la massa e perché i lavoratori esclusi dalla grande industria sono gettati da essa in una condizione di vita ancora peggiore di quella degli stessi lavoratori della grande industria. Allo stesso modo i paesi nei quali è sviluppata una grande industria agiscono sui paesi plus ou moins privi di industria, nella misura in cui questi sono trascinati dal commercio mondiale nella lotta universale della concorrenza [2].
Queste diverse forme sono altrettante forme dell’organizzazione del lavoro e quindi della proprietà. In ciascun periodo si produsse una unione delle forze produttive esistenti, in quanto i bisogni l’avevano resa necessaria.
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Rapporto dello stato con la società
La prima forma della proprietà, così nel mondo antico come nel Medioevo, è la proprietà tribale, condizionata principalmente dalla guerra presso i romani, dall’allevamento presso i germani. Presso i popoli antichi, poiché più tribù coabitavano in una città, la proprietà tribale appare come proprietà di Stato e il diritto del singolo ad essa come mera possessio la quale, come la proprietà tribale in genere, si limita tuttavia alla proprietà fondiaria. La proprietà privata vera e propria comincia presso gli antichi, come presso i popoli moderni, con la proprietà mobiliare. (Schiavitù e comunità) (dominium ex iure Quiritium). Presso i popoli uscenti dal Medioevo la proprietà tribale si evolve attraverso diversi stadi — proprietà fondiaria feudale, proprietà mobiliare corporativa, capitale manifatturiero — fino al capitale moderno, condizionato dalla grande industria e dalla concorrenza universale, alla proprietà privata pura, che si è spogliata di ogni parvenza di comunità e che ha escluso ogni influenza dello Stato sullo sviluppo della proprietà. A questa proprietà privata moderna corrisponde lo Stato moderno, che attraverso le imposte è stato a poco a poco comperato dai detentori della proprietà privata, che attraverso il sistema del debito pubblico è caduto interamente nelle loro mani, e la cui esistenza ha finito col dipendere del tutto, nell’ascesa o nella caduta dei titoli di Stato in Borsa, dal credito commerciale che gli assegnano i detentori della proprietà privata, i borghesi. Per il solo fatto che è una classe e non più un ordine, la borghesia è costretta a organizzarsi nazionalmente, non più localmente, e a dare una forma generale al suo interesse medio. Attraverso l’emancipazione della proprietà privata dalla comunità, lo Stato è pervenuto a un’esistenza particolare, accanto e al di fuori della società civile; ma esso non altro che la forma di organizzazione che i borghesi si danno per necessità, tanto verso l’esterno che verso l’interno, al fine di garantire reciprocamente la loro proprietà e i loro interessi. L’indipendenza dello Stato oggi non si trova più che in quei paesi dove ordini non si sono ancora sviluppati in classi, dove gli ordini, eliminati nei paesi più progrediti, esercitano ancora una funzione ed esiste una mescolanza, per cui nessuna parte della popolazione può arrivare a dominare le altre. Questo è il caso specialmente della Germania. L’esempio più perfetto di Stato moderno è il Nord America. I moderni scrittori francesi, inglesi e americani affermano tutti che lo Stato esiste in virtù della proprietà privata, così che ciò è passato anche nella coscienza comune. Poiché lo Stato è la forma in cui gli individui di una classe dominante fanno valere i loro interessi comuni e in cui si riassume l’intera società civile di un’epoca, ne segue che tutte le istituzioni comuni passano attraverso l’intermediario dello Stato e ricevono una forma politica. Di qui l’illusione che la legge riposi sulla volontà e anzi sulla volontà strappata dalla sua base reale, sulla volontà libera. Allo stesso modo, il diritto a sua volta viene ridotto alla legge.
Il diritto privato si sviluppa contemporaneamente alla proprietà privata dalla dissoluzione della comunità naturale. Presso i romani lo sviluppo della proprietà privata e del diritto privato non ebbe ulteriori conseguenze industriali e commerciali perché l’intero modo di produzione rimase lo stesso. Presso i popoli moderni, la comunità feudale fu dissolta dall’industria e dal commercio, col sorgere della proprietà privata e del diritto privato cominciò una nuova fase che era capace di un ulteriore sviluppo. La prima città che nel Medioevo ebbe un esteso commercio marittimo, Amalfi, elaborò anche il diritto marittimo. Non appena l’industria e il commercio portarono più avanti lo sviluppo della proprietà privata, dapprima in Italia e più tardi in altri paesi, fu subito ripreso il perfezionato diritto privato romano, elevandolo ad autorità. Quando più tardi la borghesia ebbe acquistato tanta potenza che i principi si incaricarono dei suoi interessi per rovesciare per mezzo di essa la nobiltà feudale, cominciò in tutti i paesi — in Francia nel secolo XVI — il vero e proprio sviluppo del diritto, il quale procedeva in tutti i paesi, ad eccezione dell’Inghilterra, sulla base del diritto romano. Anche in Inghilterra dovettero essere introdotti i principi del diritto romano (specialmente per la proprietà mobiliare) per l’ulteriore elaborazione del diritto privato. (Non va dimenticato che il diritto non ha, più della religione, una propria storia).
Nel diritto privato i rapporti di proprietà esistenti sono espressi come risultato della volontà generale. Lo stesso ius utendi et abutendi esprime da una parte il fatto che la proprietà privata è diventata del tutto indipendente dalla comunità, dall’altra l’illusione che la proprietà privata stessa sia fondata sulla pura volontà privata, sul disporre ad arbitrio della cosa. Nella pratica l’abuti ha limiti economici assai determinati per il proprietario privato, se non vuole veder passare la sua proprietà e quindi il suo ius abutendi in mani altrui, poiché in realtà la cosa, considerata unica mente in rapporto alla sua volontà, non è affatto una cosa, ma soltanto nello scambio e indipendentemente dal diritto diventa una cosa, diventa proprietà reale (un rapporto, che i filosofi chiamano un’idea) [3]. Questa illusione giuridica che riduce il diritto alla pura volontà conduce necessariamente a questo, nello sviluppo ulteriore dei rapporti di proprietà, che ciascuno può avere un titolo giuridico a una cosa senza avere realmente la cosa. Se per esempio la rendita di un terreno è annullata dalla concorrenza, il proprietario ha certamente il suo titolo giuridico ad essa, insieme con lo ius utendi et abutendi; ma non può farsene niente, non possiede niente come proprietario fondiario a meno che non possieda ancora capitale sufficiente per coltivare il suo terreno. Questa stessa illusione dei giuristi spiega come per essi e per ogni codice in genere sia casuale che degli individui entrino in rapporti fra loro (per esempio: contratti), e come secondo loro questi rapporti siano di quelli che si possono stringere o non stringere, a piacere, e il cui contenuto dipende dall’arbitrio individuale dei contraenti. Ogni volta che lo sviluppo dell’industria e del commercio ha creato nuove forme di scambio, per esempio compagnie d’assicurazione ecc., il diritto fu sempre costretto ad accoglierle fra i modi di acquistare la proprietà.
Niente è più comune dell’idea secondo cui fino ad oggi nella storia non si è trattato altro che di prendere. I barbari prendono l’Impero romano, e col fatto di questo prendere si spiega il passaggio dal mondo antico al feudalesimo. Ma in questo prendere da parte dei barbari importa sapere se la nazione che vien presa ha sviluppato forze produttive industriali, come è il caso presso i popoli moderni, o se le sue forze produttive riposano principalmente sulla sola unione e sulla comunità. Il prendere inoltre è condizionato dall’oggetto che viene preso. Non si può assolutamente prendere il patrimonio di un banchiere, consistente in carte, senza che colui che prende si sottometta alle condizioni di produzione e di scambio del paese preso. Tanto vale anche per tutto il capitale industriale di un moderno paese industrializzato. E infine il prendere ha ben presto un termine dappertutto, e quando non c’è più niente a prendere si deve cominciare a produrre. Da questa necessità di produrre, che si manifesta assai presto, segue che la forma di comunità adottata dai conquistatori insediatisi in un paese deve corrispondere al grado di sviluppo delle forze produttive ivi incontrate oppure, se al primo momento non è questo il caso, trasformarsi secondo le forze produttive. Ciò spiega il fatto, osservato dappertutto, a quanto si dice, nel tempo che seguì le invasioni bar bariche, che il servo era il signore e che i conquistatori accettarono prestissimo lingua, cultura e costumi dai conquistati. Il feudalesimo non fu affatto portato bello e pronto dalla Germania, ma ebbe origine, durante la conquista stessa, da parte dei conquistatori nell’organizzazione militare dell’esercito, e questa si sviluppò in vero e proprio feudalesimo soltanto dopo la conquista, sotto l’effetto delle forze produttive incontrate nei paesi conquistati. Fino a che punto questa forma fosse condizionata dalle forze produttive è dimostrato dai falliti tentativi di imporre altre forme derivate da reminiscenze dell’antichità romana (Carlo Magno, ecc.)
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Strumenti di produzione e forme di proprietà naturali e civili
[…] [4] è trovato. Dal primo risulta il presupposto di una divisione del lavoro assai progredita e di un commercio esteso, dal secondo il carattere locale. Nel primo caso gli individui devono venire raccolti insieme, nel secondo si trovano, essi stessi come strumenti di produzione, accanto allo strumento di produzione dato. Qui dunque si manifesta la differenza fra gli strumenti di produzione naturali e quelli creati dalla civiltà. Il campo (l’acqua, ecc.) può essere considerato come uno strumento di produzione naturale. Nel primo caso, nel caso dello strumento di produzione naturale, gli individui sono sussunti sotto la natura, nel secondo caso sotto un prodotto del lavoro. Nel primo caso dunque la proprietà (proprietà fondiaria) appare anche come dominio diretto, naturale, nel secondo caso come dominio del lavoro, e in ispecie del lavoro accumulato, del capitale. Il primo caso presuppone che gli individui siano tenuti uniti da un qualche legame, sia esso la famiglia, la tribù, il terreno stesso, ecc., il secondo caso presuppone che essi siano indipendenti l’uno dall’altro e che siano tenuti insieme solo dallo scambio. Nel primo caso lo scambio è essenzialmente scambio fra gli uomini e la natura, uno scambio nel quale il lavoro degli uni viene permutato contro i prodotti dell’altra; nel secondo caso esso è principalmente scambio tra gli uomini. Nel primo caso è sufficiente l’intelligenza umana media, l’attività fisica e l’attività mentale non sono ancora affatto separate; nel secondo caso deve essersi già praticamente attuata la divisione tra lavoro intellettuale e lavoro fisico. Nel primo caso il dominio del proprietario sopra i non proprietari può essere fondato su rapporti personali, su una specie di comunità, nel secondo caso esso deve avere assunto una forma concreta in un terzo elemento, il denaro. Nel primo caso esiste la piccola industria, ma sussunta sotto l’utilizzazione dello strumento naturale di produzione, e pertanto senza ripartizione del lavoro tra individui diversi; nel secondo caso l’industria esiste soltanto nella divisione del lavoro e in virtù della divisione del lavoro.
Fino a questo punto siamo partiti dagli strumenti di produzione e già qui è apparsa la necessità della proprietà privata per certi gradi dell’industria. Nella industrie extractive la proprietà privata coincide ancora completamente col lavoro; nella piccola industria e in tutta l’agricoltura finora praticata la proprietà è la conseguenza necessaria degli strumenti di produzione esistenti; nella grande industria la contraddizione fra lo strumento di produzione e la proprietà privata non appare che come suo prodotto, e per crearlo la grande industria deve essere già molto sviluppata. Soltanto con la grande industria, dunque, è possibile anche l’abolizione della proprietà privata.
Nella grande industria e nella concorrenza tutte le condizioni d’esistenza, le limitazioni e le restrizioni degli individui sono fuse insieme nelle due forme più semplici: proprietà privata e lavoro. Col denaro ogni forma di relazione e le relazioni stesse sono poste come casuali per gli individui. Dunque dipende dalla stessa natura del denaro se ogni relazione finora esistita non è stata altro che relazione degli individui sotto condizioni determinate, non degli individui come individui. Queste condizioni si riducono a due: lavoro accumulato o proprietà privata e lavoro effettivo. Se viene meno una di queste due condizioni, le relazioni si arrestano. Gli stessi economisti moderni, per esempio Sismondi, Cherbuliez, ecc., contrappongono l’association des individas all’association des capitaux. D’altra parte gli individui stessi sono completamente sussunti sotto la divisione del lavoro e perciò posti tra di loro nella più completa dipendenza. La proprietà privata, in quanto all’interno del lavoro si contrappone al lavoro, si sviluppa dalla necessità dell’accumulazione e all’inizio conserva ancora la forma della comunità, ma nello sviluppo successivo si avvicina sempre più alla forma moderna della proprietà privata. La divisione del lavoro implica già immediatamente anche la divisione delle condizioni di lavoro, degli strumenti e dei materiali, e con essa il frazionamento del capitale accumulato fra i diversi proprietari, e quindi la separazione fra capitale e lavoro, e le diverse forme della proprietà stessa. Quanto più la divisione del lavoro si perfeziona e quanto più l’accumulazione aumenta, tanto più si accentuano anche quelle separazioni. L’esistenza del lavoro stesso dipende dal presupposto di quel frazionamento. A questo punto dunque si manifestano due fatti. Innanzi tutto le forze produttive appaiono come completamente indipendenti e staccate dagli individui, come un mondo a parte accanto agli individui, e il fondamento di ciò è in questo, che gli individui di cui esse sono le forze esistono in una condizione di frazionamento e di opposizione reciproca, mentre queste forze, d’altro lato, sono forze reali solo nelle relazioni e nel collegamento tra questi individui. Da una parte, dunque, una totalità di forze produttive che hanno assunto, per così dire, una forma obiettiva e che per gli individui stessi non sono più le forze degli individui, ma della proprietà privata, e quindi degli individui solo in quanto sono proprietari privati. In nessun periodo precedente le forze produttive avevano assunto questa forma indifferente alle relazioni degli individui come individui, perché le loro relazioni stesse erano ancora limitate. Dall’altra parte a queste forze produttive si contrappone la maggioranza degli individui, dai quali queste forze si sono staccate e che quindi sono stati spogliati da ogni reale contenuto di vita, sono diventati individui astratti, ma proprio per questo e solo per questo sono messi in condizione di entrare come individui in collegamento tra loro.
L’unico nesso che ancora li lega alle forze produttive e alla loro stessa esistenza, il lavoro, ha perduto in essi ogni parvenza di manifestazione personale e mantiene la loro vita soltanto intristendola. Mentre nei periodi precedenti la manifestazione personale e la produzione della vita materiale erano separate per il fatto che toccavano a persone diverse e la produzione della vita materiale era ancora considerata, a causa della limitatezza degli individui stessi, come una specie subordinata di manifestazione personale, ora esse sono separate al punto che la vita materiale appare in genere come scopo, la produzione di questa vita materiale, il lavoro (che ora è l’unica forma possibile ma, come noi vediamo, negativa della manifestazione personale), come mezzo.
Le cose dunque sono arrivate a tal punto che gli individui devono appropriarsi la totalità delle forze produttive esistenti non solo per arrivare alla loro manifestazione personale, ma semplicemente per assicurare la loro stessa esistenza. Questa appropriazione è condizionata innanzi tutto dall’oggetto di cui ci si deve appropriare: le forze produttive sviluppate fino a costituire una totalità ed esistenti solo nell’ambito di relazioni universali. Questa appropriazione dunque, già sotto questo aspetto, deve avere un carattere universale corrispondente alle forze produttive e alle relazioni. L’appropriazione di queste forze non è altro essa stessa che lo sviluppo delle facoltà individuali corrispondenti agli strumenti materiali di produzione. Per questo solo fatto l’appropriazione di una totalità di strumenti di produzione è lo sviluppo di una totalità di facoltà negli individui stessi. Questa appropriazione inoltre è condizionata dagli individui che la attuano. Solo i proletari del tempo presente, del tutto esclusi da ogni manifestazione personale, sono in grado di giungere alla loro completa e non più limitata manifestazione personale, che consiste nell’appropriazione di una totalità di forze produttive e nello sviluppo, da ciò condizionato, di una totalità di facoltà. Tutte le precedenti appropriazioni rivoluzionarie erano limitate; individui la cui manifestazione personale era limitata da uno strumento di produzione limitato e da relazioni limitate si appropriavano questo strumento di produzione limitato e non facevano che arrivare a una nuova limitazione. Il loro strumento di produzione diventava loro proprietà, ma essi restavano sussunti sotto la divisione del lavoro e sotto il loro proprio strumento di produzione. In tutte le appropriazioni dei passato una massa restava sussunta sotto un solo strumento di produzione; nell’appropriazione da parte dei proletari una massa di strumenti di produzione deve venire sussunta sotto ciascun individuo, e la proprietà sotto tutti. Le relazioni universali moderne non possono essere sussunte sotto gli individui altrimenti che con l’essere sussunte sotto tutti. L’appropriazione è inoltre condizionata dal modo in cui deve essere compiuta. Essa può essere compiuta soltanto attraverso una unione la quale, per il carattere del proletariato stesso, non può essere a sua volta che universale, e attraverso una rivoluzione nella quale da una parte saranno rovesciate la potenza del modo di produzione e delle relazioni e la struttura sociale sinora esistenti, e d’altra parte si svilupperanno il carattere universale del proletariato e l’energia che gli è necessaria per compiere l’appropriazione; una rivoluzione, infine, nella quale il proletariato si spoglierà di tutto ciò che ancora gli è rimasto della sua presente posizione sociale.
Soltanto a questo stadio la manifestazione personale coincide con la vita materiale, ciò che corrisponde allo sviluppo degli individui in individui completi e alla eliminazione di ogni residuo naturale; e vi corrispondono poi la trasformazione del lavoro in manifestazione personale e la trasformazione delle relazioni fin qui condizionate nelle relazioni degli individui in quanto tali. Con l’appropriazione delle forze produttive totali da parte degli individui uniti cessa la proprietà privata. Mentre sinora nella storia appariva sempre come accidentale una condizione particolare, ora sono diventati accidentali l’isolamento degli individui stessi e il particolare guadagno privato di ciascuno.
Gli individui non più sussunti sotto la divisione del lavoro sono stati immaginati dai filosofi come ideale, sotto il nome « l’uomo », e l’intero processo che abbiamo delineato è stato da loro concepito come il processo di sviluppo « dell’uomo », così che ad ogni grado della storia passata si è sostituito « l’uomo » agli individui esistenti e lo si è rappresentato come la forza motrice della storia. L’intero processo fu dunque inteso come processo di auto alienazione « dell’uomo », e ciò deriva essenzialmente dal fatto che l’individuo medio del periodo posteriore è sempre stato sostituito a quello del periodo precedente e la coscienza posteriore a quella degli individui precedenti . Con questo capovolgimento, che astrae senz’altro dalle condizioni reali, fu possibile trasformare l’intera storia in un processo di sviluppo della coscienza.
Infine, dalla concezione della storia che abbiamo svolto otteniamo ancora i seguenti risultati:
1) Nello sviluppo delle forze produttive si presenta uno stadio nel quale vengono fatte sorgere forze produttive e mezzi di relazione che nelle situazioni esistenti fanno solo del male, che non sono più forze produttive ma forze distruttive (macchine e denaro) e, in connessione con tutto ciò, viene fatta sorgere una classe che deve sopportare tutti i pesi della società, forzata al più deciso antagonismo contro le altre classi; una classe che forma la maggioranza di tutti i membri della società e dalla quale prende le mosse la coscienza della necessità di una rivoluzione che vada al fondo, la coscienza comunista, la quale naturalmente si può formare anche fra le altre classi, in virtù della considerazione della posizione di questa classe;
2) che le condizioni entro le quali possono essere impiegate determinate forze produttive sono le condizioni del dominio di una determinata classe della società, la cui potenza sociale, che scaturisce dal possesso di quelle forze, ha la sua espressione pratico-idealistica nella forma di Stato che si ha di volta in volta, e perciò ogni lotta rivoluzionaria si rivolge contro una classe che fino allora ha dominato [5];
3) che in tutte le rivoluzioni sinora avvenute non è mai stato toccato il tipo dell’attività, e si è trattato soltanto di un’altra distribuzione di questa attività, di una nuova distribuzione del lavoro ad altre persone, mentre la rivoluzione comunista si rivolge contro il modo dell’attività che si è avuto finora, sopprime il lavoro e abolisce il dominio di tutte le classi insieme con le classi stesse, poiché essa è compiuta dalla classe che nella società non conta più come classe, che non è riconosciuta come classe, che in seno alla società odierna è già l’espressione del dissolvimento di tutte le classi, nazionalità, ecc.;
4) che tanto per la produzione in massa di questa coscienza comunista quanto per il successo della cosa stessa è necessaria una trasformazione in massa degli uomini, che può avvenire soltanto in un movimento pratico, in una rivoluzione; che quindi la rivoluzione non è necessaria soltanto perché la classe dominante non può essere abbattuta in nessun’altra maniera, ma anche perché la classe che l’abbatte può riuscire solo in una rivoluzione a levarsi di dosso tutto il vecchio sudiciume e a diventare capace di fondare su basi nuove la società.
[1] Il movimento del capitale, benché notevolmente accelerato, restava tuttavia relativamente lento. Il frazionamento del mercato mondiale in singole parti, ciascuna delle quali era sfruttata da una nazione particolare, l’esclusione della concorrenza tra nazioni, la scarsa capacità della produzione stessa e il sistema finanziario che aveva appena superato i primi gradi del suo sviluppo ostacolavano parecchio la circolazione. Conseguenza ne era uno spirito bottegaio sordido e gretto che prendeva tutti i commercianti e tutti i modi dell’attività commerciale. Nei confronti dei manifatturieri e ancor più degli artigiani essi erano certamente grandi borghesi, bourgeois, al confronto dei commercianti e degli industriali del periodo successivo restano piccoli borghesi. Cfr. A. Smith. (Nota di Marx e Engels)
[2] La concorrenza isola gli individui, non solo i borghesi, ma ancor più i proletari, ponendoli gli uni di fronte agli altri , benché li raccolga insieme. Perciò passa molto tempo prima che questi individui possano unirsi, senza tener conto che i mezzi necessari per questa unione – se non deve essere puramente locale, – le grandi città industriali e le comunicazioni rapide e a basso prezzo, devono essere prima prodotti dalla grande industria; e perciò non è possibile vincere, se non dopo una lunga lotta, tutte le forze organizzate contro questi individui che vivono isolati e in condizioni che riproducono quotidianamente l’isolamento. Esigere il contrario vorrebbe dire esigere che la concorrenza non debba esistere in quest’epoca storica determinata, o che gli individui debbano cavarsi dalla testa situazioni sulle quali essi, come individui isolati, non hanno alcun controllo. (Nota di Marx e Engels)
[3] Rapporto per I filosofi=idea. Essi riconoscono soltanto il rapporto dell’uomo con se stesso e quindi per loro tutti i rapporti reali diventano idee. (Nota di Marx)
[4] Passo del manoscritto andato perduto.
[5] Che costoro sono interessati a conservare le condizioni attuali della produzione (Nota di Marx e Engels)
Capitolo IV
Comunismo, produzione della forma di relazione stessa
Il comunismo si distingue da tutti i movimenti finora esistiti in quanto rovescia la base di tutti i rapporti di produzione e le forme di relazione finora esistite e per la prima volta tratta coscientemente tutti i presupposti naturali come creazione degli uomini finora esistiti, li spoglia del loro carattere naturale e li assoggetta al potere degli individui uniti. La sua organizzazione è quindi essenzialmente economica, è la creazione materiale delle condizioni di questa unione, essa fa delle condizioni esistenti le condizioni dell’unione. Ciò che è tradotto in esistenza dal comunismo è appunto la base reale che rende impossibile tutto ciò che esiste indipendentemente dagli individui, nella misura in cui questo non è altro che un prodotto delle precedenti relazioni degli individui stessi. I comunisti dunque trattano praticamente le condizioni create dalla produzione e dalle relazioni anteriori come condizioni inorganiche, senza tuttavia immaginare che siano stati il piano o la missione delle generazioni precedenti a fornire loro del materiale, e senza credere che queste condizioni fossero inorganiche per gli individui che le creavano. La differenza fra individuo personale e individuo contingente non è una distinzione concettuale, ma un fatto storico. Questa distinzione ha un senso diverso in tempi diversi, per esempio l’ordine come qualche cosa di contingente per l’individuo nel secolo XVIII, plus ou moins anche la famiglia. È una distinzione che non dobbiamo fare noi per ciascuna epoca, ma che proprio ogni epoca fa tra i diversi elementi che trova già costituiti, e non sulla base di un concetto, ma costretta dalle collisioni materiali della vita. Ciò che appare come contingente all’epoca posteriore in opposizione all’epoca anteriore, e quindi anche fra gli elementi tramandati ad essa dall’epoca anteriore, è una forma di relazioni che corrispondeva a uno sviluppo determinato delle forze produttive. Il rapporto fra le forze produttive e la forma di relazioni è il rapporto fra la forma di relazioni e l’occupazione o l’attività degli individui. (La forma fondamentale di questa attività è naturalmente quella materiale, dalla quale dipende ogni altra forma intellettuale, politica, religiosa, ecc. La diversa configurazione della vita materiale è naturalmente dipendente, volta per volta, dai bisogni già sviluppati, e tanto la produzione quanto il soddisfacimento di questi bisogni sono essi stessi un processo storico, che non si trova in una pecora o in un cane, — capzioso argomento principale di Stirner adversus hominem (contro l’uomo), — benché nella loro forma attuale pecore e cani siano senza dubbio, ma malgré eux , prodotti di un processo storico). Le condizioni sotto le quali gli individui, finché non è ancora apparsa la contraddizione, hanno relazioni tra loro, sono condizioni che appartengono alla loro individualità, non qualche cosa di esterno ad essi, condizioni sotto le quali soltanto questi individui determinati, esistenti in situazioni determinate, possono produrre la loro vita materiale e ciò che vi è connesso; esse sono quindi le condizioni della loro manifestazione personale e da questa sono prodotte [1]. La determinata condizione nella quale essi producono corrisponde dunque, finché non è ancora apparsa la contraddizione, alla loro limitazione reale, alla loro esistenza unilaterale, la cui unilateralità si manifesta soltanto quando appare la contraddizione e quindi esiste solo per le generazioni posteriori. Allora questa condizione appare come un intralcio casuale, e allora si attribuisce anche all’epoca precedente la coscienza che essa è un intralcio. Queste diverse condizioni, che appaiono dapprima come condizioni della manifestazione personale e più tardi come un intralcio per essa, formano in tutto lo sviluppo storico una serie coerente di forme di relazioni, la cui connessione consiste in questo, che al posto della forma di relazioni precedente, diventata un intralcio, ne viene sostituita una nuova, corrispondente alle forze produttive più sviluppate e quindi al modo più progredito di manifestazione personale degli individui, e questa forma à son tour [2] diventa poi un intralcio e quindi viene sostituita con un’altra. Poiché ad ogni stadio queste condizioni corrispondono allo sviluppo contemporaneo delle forze produttive, la loro storia è altresì la storia delle forze produttive che si sviluppano e che sono riprese da ogni nuova generazione, e pertanto è la storia dello sviluppo delle forze degli individui stessi.
Poiché questo sviluppo procede per via naturale, ossia non è subordinato a un piano complessivo di individui liberamente associati, esso muove da diverse località, tribù, nazioni, branche di lavoro, ecc., ciascuna delle quali all’inizio si sviluppa indipendentemente dalle altre e non entra che a poco a poco in collegamento con le altre. Inoltre esso procede assai lentamente; i diversi stadi e interessi non vengono mai completamente superati, ma soltanto subordinati all’interesse che trionfa e continua a trascinarsi per secoli accanto ad esso. Ne segue che anche all’interno di una nazione gli individui hanno sviluppi del tutto diversi, anche non tenendo conto delle loro condizioni finanziarie, e che un interesse anteriore, la cui peculiare forma di relazioni è già stata soppiantata da quella appartenente a un interesse posteriore, resta ancora a lungo in possesso di un potere tradizionale nella comunità apparente che si è resa indipendente di contro agli individui (Stato, diritto), un potere che in ultima analisi può essere spezzato soltanto da una rivoluzione. Ciò spiega anche perché in rapporto a singoli punti, che permettono una sintesi più generale, la coscienza possa apparire talvolta più avanzata rispetto alla situazione empirica contemporanea, cosicché nelle lotte di un periodo posteriore ci si può appoggiare, come autorità, a teorici anteriori.
Al contrario, in paesi come il Nord America, che cominciano in un’epoca storica già progredita, lo sviluppo procede assai rapido. Tali paesi non hanno altri presupposti naturali all’infuori degli individui che vi si stabiliscono e che sono stati indotti a ciò dalle forme di relazioni dei vecchi paesi, non corrispondenti ai loro bisogni. Essi cominciano quindi con gli individui più evoluti dei vecchi paesi e pertanto con la forma di relazioni più sviluppata, corrispondente a questi individui, ancor prima che questa forma di relazioni possa imporsi nei vecchi paesi [3]. Questo è il caso di tutte le colonie, che non siano semplici stazioni militari e commerciali. Ne sono esempio Cartagine, le colonie greche e l’Islanda nel secolo XI e XII. Una situazione analoga si verifica nella conquista, quando nel paese conquistato viene trasportata bella e pronta la forma di relazioni sviluppata su un altro terreno; mentre nel luogo d’origine essa era ancora legata ad interessi e rapporti sopravvissuti da epoche precedenti, qui invece può e deve essere stabilita completamente e senza impedimenti, se non altro per assicurare un potere durevole ai conquistatori. (L’Inghilterra e Napoli dopo la conquista normanna, con cui ricevettero la forma più perfetta dell’organizzazione feudale).
Secondo la nostra concezione, dunque, tutte le collisioni della storia hanno la loro origine nella contraddizione tra le forze produttive e la forma di relazioni. D’altronde non è necessario che per provocare delle collisioni in un paese questa contraddizione sia spinta all’estremo in questo paese stesso. La concorrenza con paesi industrialmente più progrediti, provocata dall’allargamento delle relazioni internazionali, è sufficiente per generare una contraddizione analoga anche nei paesi con industria meno sviluppata (per esempio il proletariato latente in Germania, fatto apparire dalla concorrenza dell’industria inglese).
Questa contraddizione fra le forze produttive e la forma di relazioni, che come abbiamo visto si è già manifestata più volte nella storia fino ad oggi senza però comprometterne la base, dovette esplodere ogni volta in una rivoluzione, assumendo in pari tempo diverse forme accessorie, come totalità di collisioni, come collisioni di diverse classi, contraddizione della coscienza, lotta ideologica, ecc., lotta politica, ecc. Da un punto di vista limitato si può isolare una di queste forme accessorie e considerarla come la base di quelle rivoluzioni, ciò che è tanto più facile in quanto gli individui da cui procedevano le rivoluzioni si facevano essi stessi delle illusioni sulla loro propria attività, a seconda del loro grado di cultura e dello stadio dello sviluppo storico.
La trasformazione delle forze (rapporti) personali in forze oggettive, provocata dalla divisione del lavoro, non può essere abolita togliendosene dalla testa l’idea generale, ma soltanto se gli individui sussumono nuovamente sotto se stessi quelle forze oggettive e abolendo la divisione del lavoro. Questo non è possibile senza la comunità. Solo nella comunità con altri ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le sue disposizioni; solo nella comunità diventa dunque possibile la libertà personale. Nei surrogati di comunità che ci sono stati finora, nello Stato, ecc., la libertà personale esisteva soltanto per gli individui che si erano sviluppati nelle condizioni della classe do minante e solo in quanto erano individui di questa classe. La comunità apparente nella quale finora si sono uniti gli individui si è sempre resa autonoma di contro a loro e allo stesso tempo, essendo l’unione di una classe di contro a un’altra, per la classe dominata non era soltanto una comunità del tutto illusoria, ma anche una nuova catena. Nella comunità reale gli individui acquistano la loro libertà nella loro associazione e per mezzo di essa.
Da tutto quello che si è visto finora risulta che il rapporto di comunità nel quale entravano gli individui di una classe e che era condizionato dai loro interessi comuni di fronte a un terzo, era sempre una comunità alla quale questi individui appartenevano soltanto come individui medi, soltanto in quanto vivevano nelle condizioni di esistenza della loro classe; era un rapporto al quale essi partecipavano non come individui, ma come membri di una classe. Nella comunità dei proletari rivoluzionari, invece, i quali prendono sotto il loro controllo le condizioni di esistenza proprie e di tutti i membri della società, è proprio l’opposto: ad essa gli individui prendono parte come individui. È proprio l’unione degli individui (naturalmente nell’ambito del presupposto delle forze produttive attualmente sviluppate), che mette le condizioni del libero sviluppo e del libero movimento degli individui sotto il loro controllo, condizioni che finora erano lasciate al caso e che si erano rese autonome di contro ai singoli individui proprio attraverso, il fatto che essi erano separati come individui, attraverso la loro necessaria unione, che era data con la divisione del lavoro ma che per la loro separazione era diventata un vincolo ad essi estraneo. L’unione che si è avuta finora non era affatto arbitraria, come viene rappresentata per esempio nel Contrat social, ma necessaria (si confronti per esempio la formazione dello Stato nordamericano e le repubbliche sudamericane) sulla base di quelle condizioni entro le quali poi gli individui potevano godere della casualità. Questo diritto, di poter godere indisturbati della casualità all’interno di certe condizioni, veniva finora chiamato libertà personale. Queste condizioni di esistenza sono naturalmente soltanto le forze di produzione e le forme di relazioni di ciascun periodo.
Se si considera filosoficamente questo sviluppo degli individui nelle condizioni comuni di esistenza degli ordini e delle classi che si susseguono nella storia, e nelle idee generali che perciò vengono loro imposte, ci si può facilmente immaginare che in questi individui si sia sviluppata la specie o l’uomo, o che essi abbiano sviluppato l’uomo: modo di immaginare che schiaffeggia sonoramente la storia [4]. Si possono allora concepire questi diversi ordini e classi come specificazioni dell’espressione generale, come suddivisioni della specie, come fasi di sviluppo dell’uomo.
Questa sussunzione degli individui sotto classi determinate non può essere superata finché non si sia formata una classe la quale non abbia più da imporre alcun interesse particolare di classe contro la classe dominante.
Gli individui hanno sempre preso le mosse da se stessi, ma naturalmente da sé nell’ambito delle loro date condizioni e situazioni storiche, non dal « puro » individuo nel senso degli ideologi. Ma nel corso dello sviluppo storico, e proprio attraverso l’indipendenza inevitabile che entro la divisione del lavoro acquistano i rapporti sociali, emerge una differenza tra la vita di ciascun individuo in quanto essa è personale, e in quanto è sussunta sotto un qualche ramo di lavoro e sotto le condizioni relative. (Ciò non va inteso nel senso che per esempio il rentier o il capitalista cessino di essere delle persone; ma la loro personalità è condizionata e determinata da rapporti di classe determinatissimi, e la differenza emerge solo nel contrasto con un’altra classe, e per loro stessi emerge solo quando fanno bancarotta). Nell’ordine (e più ancora nella tribù) questo fatto rimane ancora nascosto: per esempio un nobile resta sempre un nobile, un roturier sempre un roturier, a prescindere da ogni altra sua condizione: è una qualità inseparabile dalla sua individualità. La differenza fra l’individuo personale e l’individuo come membro di una classe, la casualità delle condizioni di vita per l’individuo, si ha soltanto con la comparsa della classe che a sua volta è un prodotto della borghesia. Solo la concorrenza e la lotta degli individui tra di loro produce e sviluppa questa casualità come tale. Quindi sotto il dominio della borghesia gli individui sono più liberi di prima, nell’immaginazione, perché per loro le loro condizioni di vita sono casuali; nella realtà sono naturalmente meno liberi perché più subordinati a una forza oggettiva. La differenza dall’ordine si manifesta particolarmente nell’antagonismo fra borghesia e proletariato. Quando l’ordine della popolazione urbana, le corporazioni, ecc. si affermarono contro la nobiltà delle campagne, le loro condizioni di vita, la proprietà mobiliare e il lavoro artigiano, che già erano esistiti allo stato latente prima che si separassero dal vincolo feudale, apparvero come qualche cosa di positivo, che veniva fatto valere contro la proprietà fondiaria feudale, e quindi in un primo tempo anche assunsero a loro volta e a loro modo la forma feudale. Senza dubbio i servi della gleba che fuggivano consideravano la loro servitù come qualche cosa di casuale per la loro personalità. Ma con ciò facevano semplicemente la stessa cosa che fa ogni classe che si libera da un vincolo, e poi non si liberavano come classe, ma isolatamente. Inoltre essi non uscivano dall’ambito del sistema degli ordini, ma si limitarono a formare un nuovo ordine e conservarono il modo di lavoro che avevano avuto fino allora anche nella nuova situazione, e lo perfezionarono liberandolo dai vincoli che lo avevano impacciato fino allora e che non corrispondevano più allo sviluppo che esso aveva raggiunto. Nel caso dei proletari, invece, la loro propria condizione di vita, il lavoro, e quindi tutto l’insieme delle condizioni di esistenza della società odierna, sono diventati qualche cosa di casuale, su cui i singoli proletari non hanno alcun controllo e su cui nessuna organizzazione sociale può dare loro il controllo; e la contraddizione tra la personalità del singolo proletario e la condizione di vita che gli è imposta, il lavoro, si manifesta al proletario stesso, soprattutto perché egli è stato sacrificato fin dalla giovinezza e perché gli manca la possibilità di arrivare, in seno alla sua classe, alle condizioni che lo farebbero passare nell’altra classe. Mentre i servi della gleba fuggitivi, dunque, volevano soltanto sviluppare e fare affermare liberamente le loro condizioni di esistenza già in atto, e quindi in ultima istanza arrivarono soltanto al lavoro libero, i proletari invece, per affermarsi personalmente, devono abolire la loro propria condizione di esistenza quale è stata fino ad oggi, che in pari tempo è la condizione di esistenza di tutta la società fino ad oggi, il lavoro. Essi si trovano quindi anche in antagonismo diretto con la forma nella quale gli individui della società si sono dati finora un’espressione collettiva, lo Stato, e devono rovesciare lo Stato per affermare la loro personalità.
[1] Produzione della forma di relazioni stessa. (Nota di Marx).
[2] A sua volta.
[3] Energia personale degli individui di singole nazioni – Tedeschi e Americani – energia già per incrocio di razze – donde il cretinismo dei tedeschi – in Francia, Inghilterra, ecc. Popoli stranieri trapiantati su un terreno già sviluppato, in America su un terreno tutto nuovo, in Germania la popolazione naturale è rimasta tranquillamente al suo posto. (Nota di Marx e Engels)
[4] La frase che ricorre spesso in san Max, che ciascuno è tutto ciò che è attraverso lo Stato, è in sostanza identica all’affermazione secondo cui il borghese è soltanto un esemplare della specie borghese; affermazione che presuppone che la classe dei borghesi sia esistita già prima degli individui che la compongono (Nota di Marx e Engels)