di Luigi Grimaldi – Luciano Scalettari
L’Italia delle commemorazioni e degli auspici oggi ricorderà di nuovo che il 20 marzo 1994 a Mogadiscio Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono stati assassinati. Esattamente ventidue anni fa. Il Tg3 ne farà un breve servizio (magari più breve, gli anni passano) e qualche quotidiano e sito ne pubblicherà una notizia, magari in taglio basso. E in qualche commemorazione ufficiale si ribadirà a piè fermo che occorre arrivare alla verità. Ancora, dopo 22 anni, dopo 5 magistrati che si sono succeduti nell’inchiesta con l’unico risultato di aver condannato (a 26 anni di carcere, 17 fatti) un giovane somalo che probabilmente a breve sarà dichiarato innocente, dopo la revisione del processo che sta per iniziare (il prossimo 5 aprile). Dopo una Commissione parlamentare dedicata al caso, che è riuscita solo nell’intento di allontanare ancora di più la verità. Dopo anni di battaglie della famiglia (ora solo di Luciana Alpi, dato che il papà di Ilaria nel frattempo è mancato) che ha trovato davanti a sé soltanto muri di gomma istituzionali, omertà, depistaggi, indagini mai realizzate, piste investigative prontamente interrotte non appena portavano risultati. Ventidue anni dopo non c’è alcuna verità giudiziaria, non ci sono colpevoli, non si sono individuati i mandanti. Non si sono nemmeno cercati – e magari indagati, come avverrebbe in un Paese serio – i depistatori e gli occultatori. Anche se molti dei fatti che hanno deviato dalla ricerca della verità sono ormai ben noti.
Si sa dei tardati soccorsi ai due giornalisti, dei rilevamenti non effettuati sul luogo dell’omicidio, dell’autopsia non fatta, dei taccuini scomparsi, della sottrazione delle video cassette girate nell’ultimo tragico viaggio dai due giornalisti. E, ancora, si sa dei magistrati e dei poliziotti fermati quando trovavano testimoni e indizi importanti, si sa delle “interferenze” subite dalla Commissione parlamentare e della ricostruzione fuorviante votata dalla maggioranza (governo Berlusconi 2) di allora. Si sa degli anni di inerzia della Procura rispetto a 26 precisi punti di indagine indicati dal Gip Cersosimo (nel 2007, quasi 9 anni fa). Si sa, infine, che la desecretazione dei documenti, pur lodevolmente voluta dalla Presidente della Camera Boldrini, non ha portato ad alcuna rivelazione importante. E non poteva essere diversamente, non solo perché è difficile che il depistatore istituzionale lasci nelle archivi delle istituzioni le prove di quanto fatto, ma anche perché, in ogni caso, si è trattato di una desecretazione a metà, che ha reso pubblici (in parte) gli archivi, ma non la documentazione sull’operato della Commissione Alpi-Hrovatin e delle precedenti Commissioni Rifiuti: è, semmai, nel come si è agito e indagato che si possono trovare gli elementi dei depistaggi e dell’occultamento della verità, non negli archivi, nei quali le carte che contano non sono mai arrivate. Non solo. L’operazione di desecretazione non ha mai nemmeno sfiorato altri archivi, ben più importanti: ossia quelli delle operazioni militari e di intelligence che ricadono sotto l’area Nato (ad esempio Stay Behind, la nota Gladio) vera cassaforte impenetrabile nella quale il nostro Paese facilmente rinchiude tutte le faccende scomode.
Ora, il 23° anno dalla morte di Ilaria e Miran si apre con il processo di revisione ad Hashi Omar Hassan, l’unico condannato per concorso in omicidio. Il capro espiatorio, come lo ha definito persino la madre di Ilaria Alpi. Per merito di una giornalista – e non della Procura di Roma – è stato individuato e intervistato l’unico accusatore in vita (l’altro è morto nel 2003) di Hashi, tale Ahmed Ali Raghe detto Jelle: alla collega Chiara Cazzaniga di Chi l’ha visto ha dichiarato che la sua testimonianza era prezzolata, pagata da esponenti delle «istituzioni italiane». Si sa chi ha contattato Jelle, chi lo ha fatto venire in Italia a testimoniare, chi ne ha raccolto le dichiarazioni senza nemmeno registrarle, chi lo ha lasciato fuggire ancora prima dell’apertura del processo, chi non lo ha mai rintracciato in tutti questi anni.
Attendiamo ora la revisione. Forse il vero, primo processo sul caso “Alpi-Hrovatin”.
20 marzo 2016