Riflessioni sulla questione greca e le potenziali conseguenze
di Francesco Schettino
Gli ultimi di giugno, e i primi del luglio del 2015 sono, senza dubbio, tra i giorni al tempo stesso più drammatici ed interessanti degli ultimi anni, se non altro per l’imprevedibilità degli eventi che si avvicenderanno sino a domenica 5 luglio; in quella data verrà celebrato, in uno dei momenti più solenni da quando l’Unione europea è stata creata, il celeberrimo referendum greco che chiederà al popolo ellenico di esprimersi sull’accettazione delle condizioni poste dalle “istituzioni” in relazione alla questione del debito pubblico.
Sono oramai ampiamente noti i fatti che negli scorsi giorni hanno determinato l’interruzione delle contrattazioni tra la ex-troika (ora istituzioni) ed il governo ellenico, rappresentato da Tsipras e dal ministro dell’economia Varoufakis, evento che ha indotto proprio il capo del governo a consultare il “popolo” sull’opportunità di proseguire o interrompere la lunga trattativa: volendoli riassumere – chiedendo al lettore la licenza di non essere estremamente rigorosi nell’esposizione –, le proposte del governo greco, basate principalmente sul recupero dell’evasione fiscale e l’aumento della tassazione dei grandi patrimoni e dei capitali, si sono scontrate pesantemente con le esigenze delle istituzioni di continuare a vessare i lavoratori greci attraverso l’aumento della tassazione indiretta, anche su ben di prima necessità, tagliando pensioni e stipendi degli impiegati pubblici e prolungando l’età pensionabile con effetto quasi immediato. Ancora una volta, come se ce ne fosse stata la necessità, Ce, Bce e, ancor più il Fmi, si sono rivelati in tutta la loro natura e funzionalità istitutiva, ossia quella di tutelare il capitale internazionale, nelle sede istituzionali, a completo ed ovvio discapito della classe subalterna.
Non è un caso che sia stata proprio la Lagarde, in base a quanto trapela dalle dichiarazioni dei presenti, a sottolineare come l’aumento dell’aliquota di tassazione diretta sui grandi capitali potesse essere una misura con un incerto risultato fiscale, mentre quella sui lavoratori avrebbe conseguito un risultato ampiamente più certo: dietro all’ovvietà di dichiarazioni di questo tipo – un aumento delle aliquote fiscali dirette sui lavoratori dipendenti fornisce un gettito fiscale garantito a differenza della volatilità di grandi patrimoni e capitali – va letta una presa di posizione evidentemente rigida poiché inequivocabilmente di classe. Per quanto lo stesso Tsipras si sia meravigliato pubblicamente (attraverso twitter) di tale rigidità, lamentando persino una differenza netta di trattamento con quanto avvenuto in passato ai danni di Portogallo e Irlanda, l’atteggiamento di Juncker & co. è stato sin troppo esplicito nella sua durezza: in sostanza è stato ribadito che sui prestiti non si fanno sconti a nessuno. Che una larga fetta di lavoratori greci sia ormai da anni in condizioni di povertà assoluta, che gli ospedali non siano più in grado di fornire le cure basilari; che nei supermercati vengano venduti generi alimentari scaduti; che ci sia un esercito di persone che ormai stabilmente vive per strada o nelle automobili; e che a fronte di tutto ciò, armatori e uomini e donne della grande finanza internazionale si godano quotidianamente le splendide isole dell’Egeo, non viene vissuto dalle istituzioni come problema immediato che urla vendetta, tutt’altro.
Il governo in carica, eletto all’inizio dell’anno corrente, porta con sé senza ombra di dubbio una quantità di contraddizioni politiche difficili da contare a partire dalla sedicente “eccentricità-murxiana” di Varoufakis, passando per l’alleanza con il gruppo di destra che garantisce la maggioranza in parlamento, fino all’eterogeneità stessa all’interno di cui naviga Syriza stesso. Tuttavia, bisogna dare atto a Tsipras, a Varoufakis e al gruppo dirigente che evidentemente li hanno sostenuti – sia ben chiaro, su posizioni meramente socialdemocratiche – di essere riusciti, in qualche maniera, a ribaltare le regole del giuoco trovandosi dopo mesi di tira e molla ad essere loro a dover fare la mossa decisiva.
Riavvolgendo il nastro della memoria all’inizio dell’anno corrente, quando fu ufficializzato l’esito delle elezioni elleniche, in molti sentenziarono che le timide velleità del governo appena eletto di allentare la morsa del capitale internazionale sul “popolo” ellenico sarebbero state rapidamente polverizzate dalla troika: altri sottolinearono come lo stesso programma presentato in campagna elettorale sarebbe stato irrealizzabile. Tutte queste perplessità, in effetti, non erano infondate, trovandosi in una situazione connotata da rapporti di forza straordinariamente sfavorevoli per Tsipras & co. Tuttavia, mese dopo mese, riunione dopo riunione – complice anche l’affermazione politica di Podemos in molte città spagnole (in particolare Madrid e Barcellona) che ha sempre dichiarato di collocarsi in continuità politica con il governo greco – l’espediente tattico attendista ha evidentemente giovato alla parte che, sin dall’inizio, era oggettivamente debole e incapace di dettare l’agenda. Ma forse anche per la approfondita conoscenza da parte di Varoufakis della teoria dei giuochi, a distanza di un semestre dall’inizio del governo, l’economia mondiale, nella sua interezza e dunque non solo i creditori [vedi più avanti], si trova a dipendere proprio dall’esito del referendum convocato dal governo di Syriza: ne sono testimonianza i drammatici crolli delle borse di mezzo globo a seguito dell’annuncio del fallimento dell’accordo. Forse sottovalutando l’orgoglio tipicamente greco, le istituzioni sono state troppo convinte che prima o poi Tsipras avrebbe ceduto, anche perché dilaniato dalle lotte intestine al proprio partito. Ma così, evidentemente, non è stato, o se è avvenuto non ha generato i risultati attesi.
Il paradosso più grande è che per due ordini di motivi la questione greca avrebbe potuto avere un esito molto differente, essendo gestita in maniera nettamente diversa dalle istituzioni: innanzitutto perché, di fatto, non ha un peso specifico tale da impensierire quantitativamente né l’intera struttura economica dell’Ue né, a maggior ragione, il resto del mondo. Il suo pil non è troppo dissimile da quello della regione Lazio, ma è inferiore di quello della Lombardia ed il suo debito è poco più del 10% di quello italiano. L’altra ragione risiede nel fatto è che da settembre 2009 a oggi, praticamente tutti i titoli del debito pubblico greco (junk bonds, cioè i titoli-immondizia) sono stati stralciati dai bilanci del capitale privato perché acquistati dal settore pubblico. Infatti, i capitali più esposti, come noto, erano quelli francesi (79 mrd €) e, a seguire, quelli tedeschi (45 mrd €); a distanza quelli olandesi (12 mrd €) e italiani (7 mrd €); ma soprattutto, è importante ricordare che si trattasse esclusivamente di soggetti privati. Con una operazione straordinaria, dal punto di vista di classe, nel giro di pochi anni, il montante di questi titoli è stato redistribuito tra i bilanci pubblici dei 4 paesi con il pil più alto. Violando de facto le proporzioni precedenti, le manovre poste in essere hanno determinato una situazione tale per cui attualmente i tedeschi detengono la quota maggiore dei titoli (62 mrd nel settore pubblico, 14 mrd nel privato); a seguire la Francia (47 mrd solo nel settore pubblico), l’Italia (41 mrd, settore pubblico) e la Spagna (27 mrd settore pubblico). Insomma, viene confermato ancora una volta che la legge della privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite diviene fondamentale specie nelle fasi di crisi; e che il fondo salva stati, che è alla base di questa manovra, ha scaricato sui due piigs più importanti (Italia e Spagna) la gran parte del peso di questi titoli spazzatura e, soprattutto, sul loro settore pubblico [si veda 150].
Dunque, mettendo a sistema i due elementi, ossia lo scarso peso relativo dell’economia greca e del suo indebitamento e il fatto che quest’ultimo ormai è stato trasferito dal settore privato a quello pubblico, i dubbi sulla opportunità (per il capitale locale) di tanto accanimento restano tanti. La sterilizzazione del capitale privato da questi titoli, almeno in teoria, avrebbe potuto indurre le “istituzioni” a poter assumere un atteggiamento meno rigido e più collaborativo. Invece, la chiusura assoluta da parte di Bce, Fmi e Commissione europea – per quanto le proposte del governo ellenico siano state formulate talvolta in maniera non del tutto precisa – sembrerebbe ispirata da un dogmatismo eccessivo che male si combina con gli interessi del capitale locale, specie se, come in questo caso c’è poco da perdere. Peraltro, diviene difficile, per il capitale e i suoi lacchè, presentare una situazione in cui le istituzioni, guidate dagli stati più ricchi del continente, continuano a vessare pesantemente un paese già martoriato e in crisi umanitaria da almeno un quinquennio.
Queste motivazioni avvalorano pertanto l’ipotesi di una strategia indiretta – che è assimilabile al celebre detto “parlo a nuora perché suocera intenda” –; in sostanza, l’atteggiamento apparentemente irrazionale e allo stato dei fatti controproducente, avrebbe come obiettivo primario il corrispondente iberico, Podemos. La Spagna è ancora oggi, nonostante la pesante crisi che ha attraversato, la decima potenza mondiale e la quarta, in termini di pil, d’Europa dopo Germania, Francia ed Italia; chiaramente ogni sua scelta potrebbe avere delle ripercussioni ben più significative sull’intera struttura del capitale non solo basato sull’euro ma anche a livello mondiale. Dunque, i muscoli mostrati con il governo greco avrebbero potuto agire principalmente da deterrente contro le velleità, volgarmente definite di anti-austerity, di un potenziale governo iberico a guida Podemos (le elezioni autunnali sono molto prossime e i risultati di Madrid e Barcellona da questo punto di vista fanno riflettere); tuttavia le cose sembra si siano collocate su un piano più inclinato e meno gestibile da parte del capitale legato all’euro e al dollaro che, forse ingenuamente, non avevano fatto i conti con le possibili ingerenze dei fratelli nemici della cooperazione di Shanghai, ossia di Russia e Cina.
Sin dall’insediamento del nuovo governo, il capitale russo, impersonato da Putin, ha strizzato benevolmente l’occhio alla Grecia, candidandosi esplicitamente come alternativa credibile al pugno di ferro della troika. Già nelle prime settimane successive all’elezione furono frequenti le occasioni di incontro tra i due presidenti e altrettante furono le dichiarazioni pubbliche da parte di Putin che sostenne di poter garantire sufficiente liquidità al sistema bancario ellenico anche qualora fossero saltati i negoziati con Fmi, Bce e Ue. I rapporti, nei mesi si sono infittiti, e, soprattutto per la posizione strategica della Grecia all’interno del Mediterraneo, all’inizio dell’aprile dell’anno in corso si è giunti ad un accordo per la costruzione di un gasdotto che, una volta abbandonato il progetto South Stream – anche e soprattutto per le (poco) note vicende ucraìne – potrà portare, attraverso la Turchia (gli accordi con Erdogan sono stati già firmati) il gas russo nel cuore dell’Europa: da questo punto di vista, le finanze greche potrebbero usufruire di un anticipo sostanzioso per la costruzione del cosiddetto Turkish Stream il che rappresenterebbe una valida alternativa allo strozzinaggio, mascherato da prestito, di Fmi ecc. Da questo punto di vista, anche l’apertura di credito – per ora esclusivamente verbale – da parte della superbanca che verrà a breve costituita in ambito Brics, che ha indotto lo stesso Tsipras a rallegrarsene sostenendo che “l’Europa non è più il centro del mondo”, lascia intendere che le carte a disposizione del governo ellenico non siano poi così di poco conto. Specie se si considera la recente (29 giugno) uscita del primo ministro cinese, Li Quekiang, che interrogato sulla questione ha, senza mezzi termini sostenuto che per quanto riguarda il debito greco, “la Cina è pronta a ricoprire un ruolo attivo” proprio perché l’eventuale grexit sarebbe un problema globale e non solo europeo: “è infatti interesse della Cina che la Grecia resti nell’eurozona” in quanto partner commerciale di primo livello e una crisi dell’area dell’euro finirebbe per aver ripercussioni significative anche nella Rpc. Poi non va tralasciata la questione del Pireo, porto più importante del Mediterraneo, che da decenni è nel mirino del capitale cinese, il cui controllo garantirebbe il possesso di uno strategico ed estremamente profittevole avamposto proprio nel cuore dell’Europa e del territorio interessato dal realizzando “accordo” Ttip.
Pertanto, sulla questione si intrecciano quelle conflittualità interimperialistiche che connotano la fase attuale del modo di produzione del capitale e che, negli ormai numerosi scenari di guerra esplicita (medioriente, Ucraina ecc.), vedono solamente l’esteriorità di un fenomeno economico nettamente più complesso connotato da una contrapposizione frontale del capitale dell’area euro\dollaro con gli stati coinvolti nella Cooperazione di Shanghai, Russia e Cina in primis. È proprio per questa ragione, ossia per evitare che uno stato come la Grecia, che ha anche una valenza simbolica importante per la storia dell’Europa, finisca per essere coinvolto da aree di influenza imperialistica ostili, che Obama è intervenuto energicamente chiedendo a Juncker di fare di tutto per evitare sia il default che la uscita dall’area monetaria unica e quindi dall’Ue. Perdere anche solo un tassello, per quanto di poco conto, del partner (si fa per dire…) dell’accordo Ttip (transatlantic trade and investments partnership) significherebbe rendere instabile uno degli elementi che in prospettiva dovrebbe rinforzare il capitale Usa (ai danni di quello legato all’euro) contro quello asiatico e che, di fatto, sta lì anche a ricordare la vittoria da parte del capitale legato al dollaro sul fratello nemico vincolato all’euro nella guerra che ha individuato il primo atto di ostilità esplicita nel febbraio 2010 con l’attacco speculativo… proprio al debito pubblico greco! [vedi n.133]
E a preoccupare i governanti di tutto il mondo c’è il fatto che, questa situazione di estrema instabilità, si materializza in un momento di estrema fragilità dell’economia mondiale. Basti osservare l’andamento delle borse e, dunque, di gran parte del capitale fittizio per comprendere come le dichiarazioni di ripresa, di fine della crisi ecc. fossero esclusivamente fumo venduto da sicofanti del capitale che, ad ogni inizio anno, cercano di velare la realtà con illusori giuochi di prestigio. Persino Martin Wolf, storico editorialista del financial times ed influentissimo commentatore dei fatti economici ha iniziato ad insistere sul fatto dell’inevitabilità del pesante aggravamento delle condizioni già critiche. Dal suo punto di vista, infatti, la risoluzione di una crisi basata sul debito, è stata apparentemente risolta facendo… altro debito (ossia i quantitative easing statunitensi, europei e giapponesi) rigonfiando ancor di più la bolla di capitale fittizio che, secondo i calcoli fatti dagli esperti, è persino più carica di titoli spazzatura rispetto al 2007/2008. Insomma, nonostante i tanti proclami dei governanti di mezzo mondo (ad es. il Dodd-Frank act), la quantità di prodotti derivati tossici si è moltiplicata straordinariamente anche grazie ai qe che hanno garantito liquidità a prezzi irrisori. Come scritto più volte su Contraddizione [vedi ad es. no.150], le immense difficoltà di accumulazione di capitale, dovute ad una crisi da sovrapproduzione e, dunque, ad una mancanza di sbocchi delle merci e del capitale prodotto hanno obbligato il capitale monetario a rapinare profitto attraverso speculazioni, trasformandosi così in capitale fittizio (ossia non-capitale, la sua negazione) e non già in capitale merce, tentando di accumulare, aggirando per la produzione di valore e plusvalore. E a questo, però bisogna aggiungere che, a differenza del periodo post-Lehman Brothers almeno due strumenti di politica monetari saranno preclusi: innanzitutto quello dell’immissione di nuova liquidità (per le ragioni appena viste) e soprattutto quello della leva del tasso di interesse che essendo nel 2008 mediamente prossima al 7/8% in Europa e negli Usa è stata suscettibile di una riduzione per stimolare nuovi investimenti (che come già detto sono stati solo in minima parte di natura produttiva); oggi rasenta lo zero e, pertanto, non potrà essere oggetto di ulteriori ribassi.
Per tutte le ragioni viste in precedenza, gli scenari possibili, successivi all’esito del referendum del 5 luglio (sempre che nel frattempo Tsipras non accetti le proposte fatte in extremis da Juncker o viceversa) sono molteplici e poiché non siamo soliti proporre “ricette (comtiane) per l’osteria dell’avvenire”, anche in questo caso preferiamo lasciare che gli eventi seguano il loro corso: restiamo tuttavia certi del fatto che, se il referendum del 5 luglio ci sarà, dal suo esito si genererà un effetto che potrà andar ben oltre la semplice ipotesi grexit, condizionando pesantemente, per quanto detto, tutti gli equilibri imperialistici mondiali. Potremmo persino ipotizzare che “niente sarà come prima” per quanto riguarda la tenuta del sistema: “è la prima volta che un’ombra, come nella caverna platonica, di lotta di classe sfiora le istituzioni sovranazionali, finora presentate come la compattezza di una divisione d’attacco. Forse mi sembra solo un monito, data anche la reazione di Juncker, ma anche una rappresentazione comprensibile per le popolazioni vessate che solleciti l’andarsi a cercare la verità che le liberi dopo essersi liberati, in contemporanea” (C.Filosa, 2/7/2015). Non bisogna infatti dimenticare che ci si trova in una fase di crisi acuta e prolungata che, da un momento all’altro potrebbe nuovamente aggravarsi: tuttavia, per quanto si tratti di una traiettoria di caduta, sarà imprevedibile individuarne la direzione che prenderà, analogamente al clinamen (parènclisi) degli atomi di memoria epicurea (e lucreziana).
[to be continued…] *Nella fisica epicurea, il clinamen è la deviazione spontanea degli atomi nel corso della loro caduta nel vuoto in linea retta, deviazione casuale, sia nel tempo sia nello spazio, che permette agli atomi di incontrarsi. Il concetto fu introdotto da Epicuro con il termine greco parenclisi (parénklisis, παρέγκλισις), sviluppato anche da Democrito e successivamente tradotto da Lucrezio con il termine latino clinamen (https://it.wikipedia.org/wiki/Clinamen). Il tema è stato approfondito anche da Marx (1841) nella “Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro” (https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1841/4/demoep.htm#n6 ).