La guerra in Siria è anche guerra d’informazione, e forse più di altre per via della carenza sul terreno di giornalisti e osservatori neutrali in grado di verificare le notizie diffuse dalle parti in conflitto o a esso riconducibili. Notizie spesso fabbricate o falsificate che si rilevano tali solo quando ormai hanno prodotto l’effetto politico o militare desiderato.

È ancora presto per stabilire se la notizia dell’attacco chimico di Douma sia tra queste, ma i precedenti attribuiti in un primo momento al regime di Assad si sono poi rivelati di dubbia paternità se non chiaramente opera dei gruppi ribelli fondamentalisti, come denunciò a suo tempo Carla Del Ponte, ex procuratore capo del tribunale penale internazionale e membro della commissione d’inchiesta Onu sui crimini in Siria. Nel 2013 la mancanza di prove a carico delle forze di Assad per l’attacco di Ghouta, poi confermata da un’inchiesta Onu, convinse Obama a non ordinare la rappresaglia promessa per il superamento di quella che definì la “linea rossa”.

Nel 2017 dopo l’attacco di Khan Sheikun, il più impulsivo Trump lanciò un raid missilistico punitivo nonostante i forti dubbi sulle responsabilità di Assad denunciati da inchieste giornalistiche indipendenti, tra cui quella del premio Pulitzer, Seymour Hersh, e successivamente confermati dallo stesso segretario alla Difesa James Mattis che ammise che “gli Stati Uniti non hanno prove” della colpevolezza delle forze governative siriane.

Tutti questi attacchi con armi chimiche sembrano rispondere a una logica politica che si ripete nel tempo: sono avvenuti sempre dopo che l’amministrazione Usa si è dichiarata indisponibile a intervenire direttamente nel conflitto siriano a fianco dei ribelli e contro Assad. È successo cinque anni fa quando Obama resisteva alle crescenti pressioni interventiste interne e internazionali. È successo nuovamente l’anno scorso (4 aprile 2017) dopo che Trump aveva dichiarato (30 marzo 2017) che rovesciare Assad non era più una priorità per gli Stati Uniti.

Si ripete oggi dopo che Trump ha annunciato (29 marzo 2018) che gli Stati Uniti si ritireranno presto dalla Siria. Secondo fonti ben informate vicine all’intelligence israeliana e americana (Debka) il sospetto è che dietro all’ultimo attacco chimico di Douma vi siano “certi gruppi ribelli che vogliono alzare la temperatura nella speranza che gli Usa mandino rinforzi in Siria invece di ritirarsi come annunciato da Trump”. Tanto più in questa fase del conflitto in cui le forze governative, grazie al sostegno russo e iraniano, stanno di fatto vincendo la guerra contro i ribelli. Sospetto suffragato dalla recente scoperta, ignorata dai mass media occidentali, di una fabbrica di armi chimiche dei ribelli di Jaish al-Islam proprio nell’area della Ghouta orientale, ad Al-Shifuniyah. Va infine soppesata l’attendibilità dell’unica fonte della notizia che, come al solito, sono i Caschi Bianchi: l’organizzazione civile di soccorso fondata dall’ex mercenario inglese James Le Mesurier e finanziata dai governi britannico e americano, la cui neutralità è stata più volte messa in discussione in virtù della sua vicinanza ai gruppi di integralisti islamici anti regime, Al-Nusra in particolare; emblematico il video che ritrae i Caschi Bianchi che festeggiano la conquista di Idlib con i militanti armati del gruppo brandendo le loro bandiere nere. In guerra, la prima vittima è sempre la verità.