Vi sottopongo questa ricerca del servizio pubblico televisivo sul “tentato golpe dell’8 dicembre 1970” per capire quanto siano cambiati, oggi, ma non cessati i metodi per modificare la nostra Costituzione.
MOWA
È in atto la cosiddetta “strategia della tensione”. Alcune forze eversive di destra sono intente a tessere le “trame nere” miranti a provocare il collasso della democrazia, con l’appoggio mascherato di ambienti conservatori e reazionari, e anche di settori dei servizi segreti. Dopo il gravissimo attentato di Piazza Fontana a Milano il 12 dicembre 1969, che causa 16 morti, la scia degli atti eversivi aumenta vertiginosamente. Nella notte fra il 7 e l’8 dicembre del 1970 a Roma Valerio Borghese, già comandante militare durante la Repubblica di Salò, con forze neofasciste e la complicità di corpi “deviati” dello Stato tenta un “golpe” penetrando nel ministero degli Interni. L’eversione reazionaria, il cui obiettivo è la costituzione in Italia di un regime neofascista del tipo di quello instaurato dai colonnelli in Grecia, continua per molti anni, culminando nella strage di Brescia, il 28 maggio 1974, 8 morti e un centinaio di feriti, nella strage del treno Italicus, il 4 agosto 1974, 12 morti, fino ad arrivare alla strage della stazione di Bologna, il 2 agosto 1980, in cui si contano 83 vittime e circa 200 feriti.
APPROFONDIMENTO
Nella notte del 7 dicembre 1970, la vita democratica italiana è minacciata da un oscuro pericolo: è in atto un complotto pianificato nei minimi dettagli per l’assalto ai centri nevralgici del potere, un colpo di Stato. I ministeri dell’Interno e della Difesa, la sede della RAI, le centrali di telecomunicazione e le caserme sono presidiate in attesa dell’ordine di attacco, ma quando scatta l’ora decisiva tutte le forze mobilitate per il golpe sono richiamate a rientrare nei ranghi.
Il Paese, ignaro degli avvenimenti che si sono susseguiti nella notte dell’Immacolata, scopre quale rischio abbiano corso le istituzioni repubblicane soltanto il 17 marzo 1971, quando il quotidiano “Paese Sera” rivela l’esistenza di un progetto eversivo dell’estrema destra.
L’opinione pubblica, scioccata, si interroga su chi siano i protagonisti della cospirazione, quali gli obiettivi e soprattutto come e perché il piano sia giunto così vicino alla concreta attuazione, sebbene senza essere coronato dal successo.
Le prime ipotetiche risposte iniziano ad arrivare dalla magistratura: il 18 marzo 1971, il sostituto procuratore di Roma Claudio Vitalone emette gli ordini di cattura, per il tentativo di insurrezione armata contro lo Stato, verso gli esponenti della destra extraparlamentare Mario Rosa e Sandro Saccucci, l’affarista Giovanni De Rosa, l’imprenditore edile Remo Orlandini, ed il giorno successivo è raggiunto da un mandato anche Junio Valerio Borghese, già comandante della famigerata Decima Flottiglia MAS, in seguito divenuto leader della formazione neofascista Fronte Nazionale.
Il “principe nero”
Junio Valerio Borghese, rampollo della celebre casata romana, si è distinto come ufficiale di Marina durante la Seconda Guerra Mondiale al comando del sommergibile Scirè, per l’affondamento delle corazzate inglesi Valiant e Queen Elizabeth nel porto di Alessandria d’Egitto il 18 dicembre 1941.
Dopo l’armistizio del 1943, aderisce alla Repubblica di Salò continuando l’attività nella Decima Flottiglia MAS, ricostituita come reparto indipendente di volontari, di cui diviene il comandante.
La formazione, che gode di una singolare autonomia e di un regolamento particolare, collabora con l’occupante tedesco nella guerra agli Alleati e nella spietata repressione della Resistenza partigiana, ma ancora prima della fine del conflitto allaccia rapporti con i servizi segreti americani (l’OSS, da cui nascerà nel 1947 la CIA) in funzione anticomunista ed antislava.
Terminata la guerra, dopo un concitato periodo di latitanza e ripetuti arresti, Borghese è condannato il 17 febbraio 1949 per collaborazionismo riuscendo però, grazie alla protezione americana (in particolare dal responsabile del controspionaggio dell’OSS, James Jesus Angleton), ad essere in breve tempo scarcerato.
Per Borghese si avvia così la carriera politica e ottiene nel 1951 la presidenza onoraria del Movimento Sociale Italiano, da cui però presto si scosta per avvicinarsi alle posizioni più estremiste della destra extraparlamentare.
Nel settembre 1968, mentre tutta la penisola è attraversata dalla contestazione, fonda il Fronte Nazionale nel tentativo di coagulare attorno a sé i movimenti più radicali, compreso Avanguardia Nazionale di Stefano Delle Chiaie, che non si riconoscono nella politica istituzionalizzata e parlamentare dei partiti.
Dichiarando un’aperta e violenta ostilità per la sinistra italiana, insistendo sul pericolo di una “deriva rossa”, Borghese entra in contatto con diversi settori delle Forze Armate, con il comando militare americano e della NATO, allaccia rapporti con numerosi esponenti dell’industria e della finanza per raccogliere così i fondi necessari all’organizzazione di gruppi armati.
Con il fallimento del piano golpista del 1970, Borghese trova asilo nella Spagna franchista, dove rimane nonostante la revoca, nel 1973, dell’ordine di cattura da parte della magistratura italiana. Muore a Cadice il 26 agosto 1974, in circostanze mai completamente chiarite.
Un’inchiesta senza fine
La procura della Repubblica di Roma, costretta ad archiviare l’indagine del 1971 per mancanza di prove, riapre l’istruttoria il 15 settembre 1974, quando il ministro della Difesa Giulio Andreotti consegna uno scottante rapporto del servizio segreto militare (SID) che getta nuova luce sul piano eversivo.
Il dossier, redatto dal generale Gianadelio Maletti, si basa sulle dichiarazioni del costruttore Remo Orlandini registrate dal capitano Antonio La Bruna, e coinvolge tra i cospiratori anche il direttore del SID Vito Miceli: i vertici militari, risultando (nonostante quanto fino ad allora sostenuto) in realtà consapevoli del tentato golpe, sono scossi da un terremoto da cui lo stesso Miceli esce destituito.
Già redatta una lista di personalità politiche da arrestare, gli insorti si apprestavano ad occupare le principali città italiane, su tutte Milano, Venezia, Reggio Calabria, ma soprattutto le istituzioni con sede a Roma.
L’operazione architettata dai golpisti, chiamata “Tora Tora” per la ricorrenza dell’attacco giapponese a Pearl Harbor, sarebbe partita a Roma dai cantieri edili di Orlandini nel quartiere Montesacro, dalla palestra dell’Associazione Paracadutisti in via Eleniana, dal quartiere universitario dove si erano riuniti i gruppi dei congiurati, affiliati ai movimenti neofascisti e membri dell’Esercito.
Mentre un commando sarebbe penetrato nel ministero degli Interni, sottraendo mitragliatori dall’armeria, una colonna di automezzi della Guardia Forestale di Città Ducale, agli ordini del colonnello Luciano Berti, si sarebbe fermata poco distante dalla sede della RAI in via Teulada.
Al momento decisivo però, un inspiegabile contrordine avrebbe interrotto improvvisamente l’attuazione definitiva del piano.
La magistratura spicca nuovi arresti ed avanza formulando ulteriori accuse, sulla presunta avvenuta occupazione del Viminale, sul progetto di rapimento del Presidente della Repubblica e sulla marcia verso la capitale intrapresa dalla Guardia Forestale.
Il processo è inaugurato il 30 maggio 1977, ma dei 78 imputati i più compromessi, tra cui Remo Orlandini ed il medico reatino Adriano Monti, sono latitanti. Il 14 luglio 1978, la sentenza di primo grado si risolve in trenta assoluzioni, ma anche per i condannati cadono i più gravi capi d’accusa, come l’insurrezione armata, e resta solo il reato, relativamente attenuato, di cospirazione politica. Sono dunque comminati dieci anni a Remo Orlandini, otto a Rosa, De Rosa e al colonnello dell’Aeronautica Giuseppe Lo Vecchio, cinque anni a Stefano Delle Chiaie e al colonnello dell’Esercito Amos Spiazzi, quattro a Sandro Saccucci; escono invece assolti “perché il fatto non sussiste” Vito Miceli, Luciano Berti, Adriano Monti.
Il 29 novembre 1984, dopo due giorni di camera di consiglio, la Corte d’Assise d’Appello assolve tutti gli imputati, derubricando il programma golpista come un “conciliabolo di quattro o cinque sessantenni”, ed anche la Cassazione conferma tale interpretazione il 24 marzo 1986.
Il 7 novembre 1991, il giudice milanese Guido Salvini, entrato in possesso dei nastri originali delle registrazioni effettuate da Antonio La Bruna, scopre che le versioni consegnate durante gli anni alla magistratura risultano tagliate nei numerosi passaggi in cui compaiono i nomi di esponenti politici e militari di primo piano, come l’ammiraglio Giovanni Torrisi, Capo di Stato Maggiore dal 1980 al 1981.
Rispetto alla versione integrale dei nastri, veniva inoltre omesso ogni riferimento a Licio Gelli e alla loggia massonica P2, che avrebbe dovuto provvedere al sequestro del Presidente Saragat, e restava sottaciuto anche il coinvolgimento della mafia siciliana, incaricata di eliminare il capo della polizia Angelo Vicari, come poi sarà confermato anche da Tommaso Buscetta, Antonino Calderone, Luciano Leggio. La giustizia incrimina perciò Maletti e La Bruna per la manipolazione dei nastri, ma il provvedimento cade in prescrizione nel 1997 ed in ogni caso Giulio Andreotti, all’epoca loro referente superiore in qualità di ministro della Difesa, giustifica i tagli in quanto avrebbero riguardato informazioni non essenziali se non addirittura potenzialmente nocive al processo.
Apparati deviati
Grazie al Freedom of Information Act deciso dal presidente americano Clinton, il quotidiano “La Repubblica” acquisisce documenti desecretati della CIA e rivela, il 19 dicembre 2004, che i servizi segreti statunitensi conoscevano il complotto eversivo di Borghese, e che Adriano Monti, designato come ministro degli Esteri del governo golpista, sarebbe stato il tramite dei contatti tra i cospiratori e Ugo Fenwich, impiegato presso l’ambasciata americana a Roma.
Sebbene alcuni settori marginali della CIA avrebbero dimostrato interesse e garantito il necessario appoggio per il colpo di Stato, la risposta conclusiva si sarebbe risolta in un parere di sarcastica ostilità ad eventuali mutamenti nell’equilibrio dell’area mediterranea.
Nel 2005, Adriano Monti esce da un trentennale silenzio per dichiarare, alle telecamere di “La Storia siamo noi”, il proprio diretto coinvolgimento nella trama cospirativa, in qualità di mediatore deputato a sondare le disponibilità della classe dirigente americana allora facente capo a Nixon.
A questo scopo si sarebbe incontrato a Madrid con Otto Skorzeny, già protagonista con un commando di SS della liberazione di Mussolini dalla prigione del Gran Sasso nel 1943, assoldato dalla CIA nel dopoguerra.
Secondo Monti, l’intelligence americana richiese come garanzia la nomina di Giulio Andreotti a capo del Governo, ma non è possibile appurare se il diretto interessato, che ha smentito la circostanza, ne fosse consapevole.
Gli interrogativi ancora aperti
A tutt’oggi, nonostante un dettagliato rapporto della Commissione Stragi sugli episodi che hanno caratterizzato la “strategia della tensione”, non sono ancora chiari i motivi e soprattutto le responsabilità del contrordine che ha fermato Borghese e i suoi uomini.
L’ipotesi avanzata da Claudio Vitalone, nella ricostruzione della strategia golpista, è che l’intervento armato sarebbe servito unicamente come premessa ad una svolta autoritaria, legittimata come una reazione normalizzatrice rispetto all’eccezionale condizione di emergenza.
Rimane tuttora ignoto l’effettivo grado di coinvolgimento degli apparati statali e delle personalità politiche nel contorto piano eversivo, ma è ormai sicuro che quello della notte del 7 dicembre 1970 non fu certo un “golpe da operetta”.