IL NOSTRO GRAMSCI
I Parlamenti non eletti col suffragio proporzionale puro, eliminano sostanzialmente dall’arena politico parlamentare tutti coloro che non sono proprietari e non appartengono alla classe borghese e di affaristi. Questi Parlamenti sono le Trade Union della borghesia, a favore della quale viene elaborata una legislazione che da tutti i punti di vista sia per essa vantaggiosa. Di conseguenza è statalismo in quanto esiste sempre un intervento dello stato. (Antonio Gramsci)
Mai come in questa fase va tenuto presente la necessità del partito della classe operaia come elaboratore della unità tra teoria e pratica, con/nesso ai movimenti “spontanei” in quanto privi di una direzione consapevole per obiettivi né corporativi né settoriali, stante il pericolo di inserimento (soprattutto in fasi di crisi economica e sociale) di degenerazioni provocate da movimenti antidemocratici e reazionari, volti a impedire che dal “movimentismo” si sviluppi una identità politica feconda per la lotta di classe.
di Angelo Ruggeri (dedicato a …ed in di Salvatore d’Albergo fondatore del Centro “Il Lavoratore” e del Movimento per la difesa e il RILANCIO della Costituzione)
La teoria del Partito e la teoria dello stato di Gramsci (la sua stessa teoria del partito è teoria marxista dello stato), mutuata da Marx e portata ai suoi massimi sviluppi da Gramsci, spiega perché per riacquistare la consapevolezza della possibilità reale di ricostruire le basi di un partito comunista, del partito della rivoluzione democratica e della transizione al socialismo, occorre rivedere criticamente l’esperienza del “socialismo reale”, anziché continuare nella acritica identificazione del marxismo con il “soviettismo”.
La sua teoria del “mercato determinato”, tratta dell’economia politica e del suo metodo, ed è una critica del liberalismo ma anche una critica serrata contro un economicismo marxista presente non solo ma soprattutto nel determinismo economicista e dogmatismo kautskiano e menscevico, proprio, da allora ad oggi, anche del revisionismo e del riformismo socialdemocratico di sinistra.
La teoria del mercato determinato, è la teoria economica condivisa e applicata dalla UE, costituisce labase dell’economia politicae, quindi,della politicaeconomicadell’Unione Europea, dell’atlantismo e occidentalismo, del capitalismo finanziario degli Stati europei: sia del Centro-Nord che del centro-Sud Europa, sia tedescocentrici che anglo-americani. Teoria economica, economia politica e politica economica, a cui subalternamente si rifanno gli uni e gli altri, delle correnti politiche italiane esterne o interne alla “sinistra” oltre che al PD nuova veste di una DC “che guarda a destra”, esclusivamente dorotea, conservatrice e reazionaria.
Innanzitutto è evidente che Gramsci è un classico del pensiero politico, e che già per questo motivo vada studiato, partendo però sempre dalla considerazione che esso è un autore complesso. E ne abbiamo molteplici prove.
Difficile soprattutto per i non italiani poiché la molteplicità dei riferimenti all’Italia letteraria, filosofica, storica rende la sua comprensione più difficoltosa all’estero. Inoltre si può dire che il suo pensiero è intrinsecamente difficile.
Questo può risultare particolarmente evidente se si considera che anche dopo la prima pubblicazione delle opere di Gramsci e dei Quaderni del carcere, un concetto tanto importante come quello di rivoluzione passiva non sia stato realmente compreso, se non intorno al 1917. Si è dovuto quindi attendere molto tempo per capire che tale concetto di rivoluzione passiva, che si trova in Gramsci, riveste un’importanza fondamentale sia nella riflessione sui problemi del IXX secolo, che nella riflessione su alcuni aspetti del XX secolo. Questo è un esempio sorprendente. Ma se ne possono aggiungere altri.
Si è scoperto abbastanza rapidamente – ed oggi il pensiero di Gramsci l’italiano più letto e diffuso nel mondo, l’hanno “scoperto” ovunque, nel Sud e nel Nord del globo, dall’America Latina all’Asia al Nord America ai Pesi anglofoni, ecc. – che l’originalità di Gramsci consiste nell’aver colto l’importanza del momento ideologico, culturale, teorico, insieme alla dimensione politica del processo storico. Ma a partire da questo sono sorti problemi di interpretazione. Si può ragionevolmente arrivare a ritenere che in sostanza Gramsci non si sia interessato molto al mondo dell’economia, che egli abbia trascurato di studiare nell’opera di Marx, tutto ciò che si riferiva specificatamente alla vita economica e che riguardo all’Italia o il mondo non sia stato attento alle trasformazioni economiche. Ebbene nulla di più falso.
Una confusione che al di la della volontà di strumentalizzazione al di la della volontà di manovre politiche che ha facilitato la messa in discussione il concetto di egemonia. In questo senso che si deve definire la “società civile” in questa seconda accezione. Si tratta di un contenuto economico, è il luogo delle attività economiche, è il luogo della produzione economica, il luogo degli scambi e di tutto ciò che è strettamente legato a questo mondo della vita economica. Vedremo come Gramsci precisi questo aspetto, ossia Gramsci pensa al contenuto della “società civile” attraverso l’ausilio del concetto di “mercato determinato” che ha una importanza considerevole e con l’ausilio della parola “economicus” che mi sembra dotata di estrema ricchezza direi dal punto di vista direi antropologico.
Allora sintetizziamo, cominciando dalla teoria del “mercato determinato” in Gramsci, cominciamo da qui e spendiamo qualche parola in proposito perché si tratta molto semplicemente di una critica del liberalismo da parte di Gramsci, la critica del liberalismo. In effetti che cos’è un “mercato determinato”?
Si tratta in fondo dell’economia politica e del suo metodo. Gramsci l’affronta per gradi, ritenendo che l’economia politica abbia il diritto, come qualsiasi altra disciplina scientifica, di procedere per astrazioni e di conseguenza di non saper tenere conto ad esempio dello stato, analizzando una società nei suoi aspetti puramente economici e studiandone gli automatismi, le tendenze che si manifestano in un “mercato determinato”.
Considerandolo dunque un “mercato determinato”, senza tenere conto di tutto quello che non rientra nella pura economicità e studiando le connessioni necessarie tra i vari aspetti puramente economici del capitalismo e del mercato. E’ quello che lui chiama l’economismo del pensiero liberale.
Ebbene Gramsci afferma chiaramente che un mercato determinato non esiste da solo, in modo astratto. Un mercato determinato ha luogo sempre in quello che Gramsci chiama un “blocco storico”, e il “blocco storico” è formato dalle strutture di produzione e scambi, che contemporaneamente si effettuano in condizioni politiche, in condizioni statali.
E’ impossibile immaginare il mercato determinato del capitalismo, concorrenziale classico, senza far intervenire lo stato, senza il controllo, l’intervento dello stato.
In che modo si deve fondamentalmente immaginare questo intervento dello stato? Qui è un pensatore liberale come Einaudi che Gramsci critica direttamente. In effetti lo stato non accontenta di fare rispettare la legalità che consacra in qualche modo l’eguaglianza formale tra i protagonisti degli scambi.
Lo stato è presente nel mercato determinato in modo ben più decisivo.
Lo stato è presente in quanto garantisce ad una classe sociale il monopolio della proprietà dei mezzi di produzione, e di conseguenza se vi sono in questo “mercato determinato” dei capitalisti e dei proletari che non sono proprietari se non della propria forza lavoro, tutto ciò viene garantito dallo stato.
Vi è questa dimensione di forza nel mercato determinato, cioè nel mercato capitalista. Naturalmente l’economista che esprime delle ipotesi nell’ambito della pura economicità, può non tenere conto del fatto che lo stato garantisce l’economicità di queste strutture, che si tratta di un rapporto di forza.
Il concetto di mercato determinato è in Gramsci un concetto socio-economico e anche socio-politico. Questo è in sostanza la critica dell’economismo. Gramsci ha criticato l’economismo nel pensiero liberale, ma l’ha criticato anche in alcune forme di marxismo che gli sembravano decisamente insoddisfacenti poiché risentivano dell’influsso del pensiero liberale –borghese, mentre egli promuove decisamente un tipo di pensiero socio-economico che sia sempre in grado di prendere in considerazione i rapporti di forza e le diverse fasi di un rapporto di forza in una data situazione.
Donde che così come con raffinatezza viene concepito lo stato in termini reali e prospettici – nella situazione storica data, e in vista di mutamenti coerenti con la concezione della democratizzazione e dell’estinzione dello stato e del diritto, così con acume scarsamente utilizzato da una cultura giuridica separata dalla filosofia e dalla storia, Gramsci ha esplicitato una concezione teorica relativa alle forme concrete dello stato, che comporta una valutazione specifica – quindi – dei criteri con cui si fonda, si regge e si modifica sia la struttura che la funzione dello stato, con particolare riferimento alla forma di governo in Italia. (Qui) Si entra perciò a contatto con la nozione di “costituzione”, di funzione “costituente”, di costituzionalismo, di poteri e funzioni statali, di indirizzo politico e di governo, usando cioè una terminologia che è espressione della cultura giuridica borghese – e precisamente, con riguardo all’Italia, delle fasi “liberale” e “fascista”, così presenti alla lotta e alla cultura del leader comunista carcerato – e che per la prima volta, e contestualmente (nonostante le difficoltà della reclusione e quindi della limitazione di conoscenze sia documentali che reali), sono state coinvolte in una valutazione non ripetitiva, né passiva, ma al contrario “critica”: cioè in stretta coerenza con la teoria marxista del rapporto tra egemonia, blocco storico e stato e quindi del rapporto tra struttura e sovrastruttura, nella piena consapevolezza del carattere fondante ma non escludente della filosofia della praxis rispetto al rapporto tra dialettica e materialismo e quindi tra filosofia, politica, diritto ed economia, ciò che – come vedremo – in Gramsci risulta da analisi appropriate ed anticipatrici.
In tale contesto, fondamentale per un uso corretto della formula oggi equivocamente presentata di costituzione “formale”, è la nozione di “costituzionalismo” con cui Gramsci – nel valutare il rapporto tra il “metodo” del diritto romano e il “codice” del diritto bizantino – ha colto l’affermarsi di un processo nuovo, per cui invece di ripetere il passaggio da una storia in continuo e rapido sviluppo a una fase storica “relativamente stagnante”, il movimento liberale ha concretato l’affiorare di un gruppo sociale che vuole una “legislazione” permanente come “cornice legale” volta a fissare i limiti dell’arbitrio individuale, in un “quadro permanente” di ‘concordia discorde’ con l’obiettivo di far sviluppare le forze implicite nella funzione storica del gruppo sociale affiorante (Q 6, pag.732). Risalta in tal modo il significato né contraddittorio né banalizzato di costituzione “formale” come quadro di principi che, in quanto “superiore agli arbitri dei magistrati”, istituiscono un rapporto coerente tra i valori portati da un gruppo sociale che miri a creare un nuovo stato e le forme “permanenti” che assicurino un nuovo “diritto” come ambito nel quale mantenere la dialettica sociale.
Vi è un testo chiave che bisogna sempre tenere presente anche quando si pensa al mercato determinato, ed è il testo in cui Gramsci definisce le diverse fasi di un rapporto di forza. Vie una fase puramente oggettiva in qualche modo, che consiste nel numero di imprese, nel numero di operai e di persone utilizzate in un certo settore. Questi sono dei dati oggettivi, ai quali poi fa seguito una fase propriamente politica, e anche una terza fase che non bisogna mai dimenticare: la fase propriamente militare. Queste sono le tre fasi del rapporto di forza.
Un mercato determinato esiste in un blocco storico, (in cui esistono) ossia in una situazione nella quale bisogna considerare le tre fasi del rapporto di forza.
A questo proposito si può dire che per un periodo di tempo, si è avuta la tendenza a fare di Gramsci un teorico delle sovrastrutture, cosa assolutamente giusta, ma che andava in qualche modo a discapito di Gramsci stesso. Infatti egli era attento alle trasformazioni strutturali del mondo, nella misura in cui queste trasformazioni del mondo o di un paese, erano fondamentalmente delle trasformazioni economiche.
Sono solo alcuni esempi che dimostrano quanto non sia facile comprendere i concetti fondamentali di Gramsci, e bisognerà anche ritornare e spiegare, per esempio, sulla complessità del concetto di società civile in Gramsci. Si può constatare molto facilmente che in Gramsci vi sono più concetti di società civile. Ecco allora un primo aspetto della questione, ma è solamente un primo aspetto.
Un certo numero di filosofi e di storici, hanno avanzato l’idea che il concetto di egemonia e il concetto di società civile in quanto strettamente legato a quello di egemonia, sarebbe in qualche modo un concetto inadeguato al concetto che oggi abbiamo del valore della democrazia, in particolare della sua dimensione pluralistica.
In qualche modo il concetto di egemonia non ci permetterebbe di superare una concezione della politica basata fondamentalmente sull’idea di forza, ovvero sull’idea di una certa manipolazione ideologica. Si tratterebbe cioè di un consenso, ma di un consenso ottenuto con dei mezzi manipolatori. E dunque questo concetto di egemonia sarebbe deprivato della sua dimensione universale, del suo riferimento all’emancipazione. Si avrà l’occasione invece di vedere che in questo modo si disconosce radicalmente la natura e l’importanza di questo concetto di egemonia di Gramsci. Ma anche di mostrare in qualche modo le ragioni che hanno potuto spingere, o in tutti i casi favorire, questa incomprensione.
Lasciando da parte le strumentalizzazione politiche che possono essere esistite e ci sono state, si potrà dimostrare che a causa della complessità stessa del pensiero di Gramsci, vi erano degli aspetti che potevano portavano in questa direzione.
Cominciando dall’inizio, si può cercare di spiegare brevemente, ma il più possibile chiaramente, ciò che Gramsci intende per società civile. Arrivando poi in riferimento a questo significato di società civile, al concetto di egemonia.
Bisogna precisare che Gramsci intende la società civile in un senso molto particolare, che per quanto se ne sappia non è utilizzato da altri pensatori. Il concetto di egemonia è stato usato da altri filosofi politici, in questo senso o in un senso simile. Ma utilizzare il concetto di società civile nello stesso senso stretto di Gramsci, è qualcosa che sembra essere specifico di Gramsci.
Che cosa intende egli per società civile? Che cosa è la società civile nel senso specificatamente gramsciano? Ebbene, la società civile è costituita da un insieme di organismi definiti “privati”, come i sindacati, i partiti politici, come le molteplici associazioni di ogni tipo, le Chiese, gli editori, i giornali. Tutti questi organismi sono degli organismi della società civile, degli organismi definiti “privati”. E’ importante insistere su questo punto, ossia essi sono connessi all’iniziativa individuale o di gruppi che in quanto tali non appartengono alla sfera dello Stato nel senso stretto del termine, alla “sfera pubblica” dello stato. Dunque sono il frutto dell’iniziativa di individui o di gruppi. E l’insieme di questi organismi funziona secondo un principio che è evidentemente il principio dell’adesione volontaria. Si aderisce volontariamente o non si aderisce affatto, se non si vuole, ad uno di questi organismi della società civile. Il principio dell’adesione volontaria è dunque un dato fondamentale, deriva da una iniziativa degli individui, non da un comandamento dall’alto, dello stato, ma da una iniziativa degli individui, un’adesione volontaria, appunto.
Secondo l’interpretazione di Gramsci, gli intellettuali giocano un ruolo fondamentale nell’elaborazione e nell’organizzazione della società. Gli organismi della società civile cercano di ottenere il consenso di larghe masse della popolazione, e in questo senso essi sono il luogo di una lotta per l’egemonia sull’intera società, ovvero per l’egemonia culturale e politica di un gruppo sociale sull’intera società. Il principio dunque non è quello del comando o della coercizione, ma quello del consenso. Si tratta di ottenere il consenso, di persuadere, ed evidentemente per poterlo fare è necessario che questo gruppo sociale, che cerca di ottenere l’egemonia culturale e politica dell’intera società, usi consapevolmente questa politica egemonica, questa forma di politica, e in ciò si faccia portatore di un progetto in qualche modo di dimensione universale (generale e finalistico: facile capire perché chi non ha più una visione generale del mondo e ha abbandonato ogni progetto generale e l’obbiettivo del socialismo di cui nemmeno parla, ha perso e perde egemonia e con essa voti e consensi a vantaggio di una egemonia e crescita dei consensi di destra).
Si scopre allora che in contrasto con la società politica o con lo stato inteso come un organo giuridico che funziona secondo il principio del comando, secondo il principio della coercizione o anche come dice Gramsci, secondo il principio della dittatura, noi abbiamo qui un principio completamente diverso, quello della libera adesione, quello del consenso, che permette di dire che lo stato, come lo concepisce Gramsci, non è riducibile alla semplice società politica o allo stato nel senso letterale del termine. Lo stato integrale per Gramsci comprende, nello stesso tempo, la società civile con i cuoi organismi detti privati, che sono lasciati all’iniziativa degli individui o dei gruppi, e l’apparato giuridico di comando. Tale è lo stato integrale. E forse già a partire da alcune considerazioni si può cogliere il significato profondo di questo concetto di egemonia in Gramsci. E’ necessario sottolineare l’importanza che Gramsci attribuiva all’egemonia, soprattutto nelle società moderne. E si potrebbe aprire una parentesi per illustrare la larghissima applicazione che ha avuto questo concetto. Gramsci lo rintraccia in Machiavelli, e dimostra come i giacobini abbiano avuto una politica egemonica audace, siano stati capaci di trascinare la classe contadina nelle lotte della rivoluzione francese. Dunque il concetto di egemonia ha avuto dal punto di vista storico una applicazione abbastanza vasta. Si può aggiungere che quello che caratterizza più fortemente il mondo moderno delle società occidentali sviluppate, quelle che Gramsci chiama le democrazie moderne, è che queste società si distinguono principalmente per un funzionamento in cui l’egemonia riveste un ruolo sempre più importante.
Dunque si può dire che Gramsci ha riflettuto soprattutto sulla specificità delle democrazie occidentali. Ciò che caratterizza queste democrazie è certamente un sistema rappresentativo con un ampliamento del suffragio universale. Ma ciò che le caratterizza è in primo luogo l’esistenza di partiti politici di massa e di organizzazioni sindacali di massa. Queste sono le due caratteristiche fondamentali delle democrazie moderne. Gramsci ha cercato di elaborare per il movimento operaio, una strategia adeguata a queste società occidentali sviluppate, a queste democrazie moderne, che egli ha dato un nome a questa strategia parlando di un passaggio dalla “guerra di movimento” alla “guerra di posizione”.
Le società moderne, le democrazie moderne, rappresentano una priorità che Gramsci intravede allorché sottolinea l’importanza sempre crescente di questo momento egemonico della politica. Questa è insomma la specificità propriamente moderna di questo concetto. Tuttavia si può aggiungere che in qualche modo, Gramsci, coglie qualche cosa di radicalmente nuovo nella storia del mondo. Se l’egemonia diventa tanto importante, ossia se diventa veramente decisiva, tanto da conquistare tramite la forma argomentativa, attraverso l’attività degli organismi della società civile, l’adesione di più vaste masse della popolazione, questo significa che la politica stessa è sul punto di trasformarsi. Si può quindi dire che Gramsci ha colto l’emergenza di questo momento nuovo della storia, l’emergenza di una forma nuova di sviluppo storico, in cui la convinzione e il consenso sono sempre più importanti.
Questa novità nella politica il fatto che essa non si possa ridurre fondamentalmente al suo aspetto di dominazione, il fatto che emergano con la borghesia o il proletariato delle classi che siano capaci di conquistare l’egemonia e che nel loro progetto politico abbiano precisamente tale scopo, direi che questi fatti significano evidentemente che l’egemonia possiede questa dimensione di universalità, ed è in rapporto con una trasformazione profonda, che ha qualcosa in comune con l’emancipazione degli uomini. Ciò che rende universale e di grande attualità il pensiero di Gramsci in tutto il mondo. Perché questo concetto di egemonia di Gramsci, sembra di grandissima fecondità. Anche ad esempio, rispetto ad un filosofo come Habermas e alla sua teoria dell’agire comunicativo, che se ha un valore lo ha nel fatto che sembra davvero caratteristica di queste profonde trasformazioni e di queste nuove aspirazioni a delle trasformazioni ancora più profonde della politica in senso democratico. Verso discussioni democratiche senza limitazioni. Lo ha nel fatto che per affrontare questa tematica dell’agire comunicativo su un terreno realistico, il terreno della lotta per l’egemonia è certamente il più adeguato. Si può anzi dire che il terreno della lotta per l’egemonia è il terreno sul quale si sviluppa questa attività comunicativa, sulla quale ad es. persino un Habermans insiste tanto. Questo solo per sottolineare la modernità del pensiero di Gramsci.
Da un lato c’è l’insistenza sulla distinzione metodologica operata da Gramsci tra società civile e società politica. Per un altro verso la società civile è il risultato di un processo storico. Ed indubbiamente la società civile è un prodotto storico, ma questo non esaurisce la questione, perché il problema è quello di sapere esattamente la portata storica di questo concetto e della struttura sociale che gli corrisponde. In una prima fase la società civile è certamente un prodotto storico, un prodotto storico della modernità. E’ ovvio che per esistere realmente questa struttura di cui parla Gramsci, questi organismi detti privati che non sono lo stato nel senso stretto del termine, deve verificarsi una totale distinzione tra la sfera dello stato e la sfera della società. E’ necessario dunque fare riferimento allo stato rappresentativo moderno con il suo rapporto e la sua distinzione rispetto all’intera società. Questa è una prima condizione a cui se ne devono aggiungere almeno altre due. La prima è che bisogna far risaltare, storicamente, il singolo individuo, in quanto esso stesso è il prodotto della modernità, un prodotto dello sviluppo della borghesia, e la sua indipendenza personale, ossia bisogna che siano annullate le forme di vita comunitaria precedenti. L’individuo moderno è l’individuo che in qualche modo si sente isolato. Hegel, al quale Gramsci fa spesso riferimento, parla dell’individuo moderno come del figlio della società civile. Questo individuo dunque è caratterizzata dalla sua indipendenza personale. I limiti della indipendenza personale, che caratterizzavano precedentemente la vita sociale, le relazioni sociali, sono stati annullati con l’emergere del mondo moderno, dello stato moderno, della società moderna. L’indipendenza personale dunque, è la prima condizione dell’esistenza della società civile nel senso gramsciano del termine. E questa indipendenza personale è stata chiaramente teorizzata da Hegel nella sezione dei principi della filosofia del diritto, che si chiama il diritto astratto, e più precisamente nella sezione denominata la società civile.
Società civile che per Hegel, è la soppressione delle comunità precedenti. Così Hegel definisce in primo luogo la società civile. Il concetto fondamentale del diritto astratto è dato dalla stessa persona giuridica, con la sua capacità giuridica di contrattare, di allacciare rapporti, di comportarsi in qualità di soggetto giuridico, di associarsi ad altri.
Il primo punto dunque è che l’individuo emerge come soggetto giuridico, con i diritti che gli competono. Ma se questo primo punto è stato generalmente ben accolto dai teorici liberali, vie è un secondo aspetto specifico che alcuni di loro accettano con molta reticenza. Questo è il diritto di associazione, poiché non viene costituita nessuna società civile se gli individui, che i rapporti di mercato in qualche modo isolano e dividono, non superano tale isolamento associandosi e prendendo parte ai differenti organismi sociali.
E’ necessario dunque che gli individui realizzino una tale attività associativa. E’ questa una dimensione fondamentale della loro esistenza che costituisce in qualche modo, non più delle comunità naturali ma delle nuove forme di vita politica che sono appunto delle associazioni. Questa dimensione associativa dunque, è una condizione fondamentale dell’esistenza della società civile nel senso gramsciano del termine.
Se ad esempio si considerano i sindacati, è chiaro in quale senso il pensiero liberale classico ha rifiutato di giustificare tale principio di associazione, presupponendo una contraddizione tra la libertà e l’indipendenza dell’individuo e il principio di associazione, Quello che caratterizza al contrario filosofi come Hegel o come Gramsci, e il secondo deve molto al primo, è di avere messo in relazione il principio d’indipendenza personale e il principio di associazione.
Questa struttura che Gramsci chiama la società civile è nata con la borghesia, è nata con i rapporti di mercato, è nata con il capitale, è nata con la grande industria. Ma se la si osserva con maggiore attenzione è facile individuare delle forme di società nelle quali il capitale e la società industriale moderna, hanno avuto uno sviluppo senza che si realizzasse una società civile vera e propria. Un esempio viene dal Giappone, dove esiste una scuola marxista della società civile, che fa riferimento più esplicitamente ad Hegel che a Gramsci. L’idea fondamentale sviluppata da questa scuole della società civile è la seguente. Relativamente all’industria e ai suoi settori di punta, il Giappone è un paese estremamente dinamico, è un paese capitalista. So ha dunque contemporaneamente il capitale e l’industria.
Quanto alla società civile essa è completamente embrionale e di conseguenza si può avere uno sviluppo del capitale e dell’industria senza che vi siano delle strutture adatte alla società civile.
Una confusione che al di la della volontà di strumentalizzazione al di la della volontà di manovre politiche che ha facilitato la messa in discussione il concetto di egemonia. In questo senso che si deve definire la “società civile” in questa seconda accezione. Si tratta di un contenuto economico, è il luogo delle attività economiche, è il luogo della produzione economica, il luogo degli scambi e di tutto ciò che è strettamente legato a questo mondo della vita economica. Vedremo come Gramsci precisi questo aspetto, ossia Gramsci pensa al contenuto della “società civile” attraverso l’ausilio del concetto di “mercato determinato” che ha una importanza considerevole e con l’ausilio della parola “economicus” che mi sembra dotata di estrema ricchezza direi dal punto di vista direi antropologico. Allora sintetizziamo, cominciando dalla teoria del “mercato determinato” in Gramsci, cominciamo da qui e spendiamo qualche parola in proposito perché si tratta molto semplicemente di una critica del liberalismo da parte di Gramsci, la critica del liberalismo. In effetti che cos’è un “mercato determinato”? Si tratta in fondo dell’economia politica e del suo metodo. Gramsci l’affronta per gradi, ritenendo che l’economia politica abbia il diritto, come qualsiasi altra disciplina scientifica, di procedere per astrazioni e di conseguenza di non tenere conto ad esempio dello stato, analizzando una società nei suoi aspetti puramente economici e studiandone gli automatismi, le tendenze che si manifestano in un “mercato determinato”. Considerandolo dunque un “mercato determinato” senza tenere conto senza tenere conto di ciò che non rientra nella pura economicità e studiando le connessioni necessarie tra i vari aspetti puramente economici del capitalismo e del mercato. E’ quello che lui chiama l’economismo del pensiero liberale. Ebbene Gramsci afferma chiaramente che un mercato determinato non esiste da solo, in modo astratto. Un mercato determinato ha luogo sempre in quello che Gramsci chiama un “blocco storico”, e il “blocco storico” è formato dalle strutture di produzione e scambi, che contemporaneamente si effettuano in condizioni politiche, in condizioni statali. E’ impossibile immaginare il mercato determinato del capitalismo, concorrenziale classico, senza far intervenire lo stato, senza il controllo, l’intervento dello stato. In che modo si deve fondamentalmente immaginare questo intervento dello stato? Qui è un pensatore liberale come Einaudi che Gramsci critica direttamente. In effetti lo stato non accontenta di fare rispettare la legalità che consacra in qualche modo l’eguaglianza formale tra i protagonisti degli scambi. Lo stato è presente nel mercato determinato in modo più decisivo. Lo stato è presente in quanto garantisce ad una classe sociale il monopolio della proprietà dei mezzi di produzione, e di conseguenza se vi sono in questo “mercato determinato” dei capitalisti e dei proletari che non sono proprietari se non della propria forza lavoro, tutto ciò viene garantito dallo stato.
Vi è questa dimensione di forza nel mercato determinato, cioè nel mercato capitalista. Naturalmente l’economista che esprime delle ipotesi nell’ambito della pura economicità, può non tenere conto del fatto che lo stato garantisce l’economicità di queste strutture, che si tratta di un rapporto di forza.
Il concetto di mercato determinato è in Gramsci un concetto non solo socio-economico ma anche socio-politico. Questo è in sostanza la critica dell’economismo.
Gramsci ha criticato l’economismo nel pensiero liberale, ma l’ha criticato anche in alcune forme di marxismo che gli sembravano decisamente insoddisfacenti poiché risentivano dell’influsso del pensiero liberale –borghese, mentre egli promuove decisamente un tipo di pensiero socio-economico che sia sempre in grado di prendere in considerazione i rapporti di forza e le diverse fasi di un rapporto di forza in una data situazione.
Donde che così come con raffinatezza viene concepito lo stato in termini reali e prospettici – nella situazione storica data, e in vista di mutamenti coerenti con la concezione della democratizzazione e dell’estinzione dello stato e del diritto, così con acume scarsamente utilizzato da una cultura giuridica separata dalla filosofia e dalla storia, Gramsci ha esplicitato una concezione teorica relativa alle forme concrete dello stato, che comporta una valutazione specifica – quindi – dei criteri con cui si fonda, si regge e si modifica sia la struttura che la funzione dello stato, con particolare riferimento alla forma di governo in Italia.
(Qui) Si entra perciò a contatto con la nozione di “costituzione”, di funzione “costituente”, di costituzionalismo, di poteri e funzioni statali, di indirizzo politico e di governo, usando cioè una terminologia che è espressione della cultura giuridica borghese – e precisamente, con riguardo all’Italia, delle fasi “liberale” e “fascista”, così presenti alla lotta e alla cultura del leader comunista carcerato – e che per la prima volta, e contestualmente (nonostante le difficoltà della reclusione e quindi della limitazione di conoscenze sia documentali che reali), sono state coinvolte in una valutazione non ripetitiva, né passiva, ma al contrario “critica”: cioè in stretta coerenza con la teoria marxista del rapporto tra egemonia, blocco storico e stato e quindi del rapporto tra struttura e sovrastruttura, nella piena consapevolezza del carattere fondante ma non escludente della filosofia della praxis rispetto al rapporto tra dialettica e materialismo e quindi tra filosofia, politica, diritto ed economia, ciò che – come vedremo – in Gramsci risulta da analisi appropriate ed anticipatrici.
In tale contesto, fondamentale per un uso corretto della formula oggi equivocamente presentata di costituzione “formale”, è la nozione di “costituzionalismo” con cui Gramsci – nel valutare il rapporto tra il “metodo” del diritto romano e il “codice” del diritto bizantino – ha colto l’affermarsi di un processo nuovo, per cui invece di ripetere il passaggio da una storia in continuo e rapido sviluppo a una fase storica “relativamente stagnante”, il movimento liberale ha concretato l’affiorare di un gruppo sociale che vuole una “legislazione” permanente come “cornice legale” volta a fissare i limiti dell’arbitrio individuale, in un “quadro permanente” di ‘concordia discorde’ con l’obiettivo di far sviluppare le forze implicite nella funzione storica del gruppo sociale affiorante (Q 6, pag.732). Risalta in tal modo il significato né contraddittorio né banalizzato di costituzione “formale” come quadro di principi che, in quanto “superiore agli arbitri dei magistrati”, istituiscono un rapporto coerente tra i valori portati da un gruppo sociale che miri a creare un nuovo stato e le forme “permanenti” che assicurino un nuovo “diritto” come ambito nel quale mantenere la dialettica sociale.
Vi è un testo chiave che bisogna sempre tenere presente anche quando si pensa al mercato determinato, ed è il testo in cui Gramsci definisce le diverse fasi di un rapporto di forza.
Vi é una fase puramente oggettiva in qualche modo, che consiste nel numero di imprese, nel numero di operai e di persone utilizzate in un certo settore. Questi sono dei dati oggettivi, ai quali poi fa seguito una fase propriamente politica, e anche una terza fase che non bisogna mai dimenticare: la fase propriamente militare. Queste sono le tre fasi del rapporto di forza.
Un mercato determinato esiste in un blocco storico, (in cui esistono) ossia in una situazione nella quale bisogna considerare le tre fasi del rapporto di forza.
Donde l’importanza del diritto di associazione, perché non viene costituita nessuna società civile se gli individui, che i rapporti di mercato in qualche modo isolano e dividono, non superano tale isolamento associandosi e prendendo parte ai differenti organismi sociali con cui si costituiscono non più delle comunità naturali ma delle nuove forme di vita politica, mettendo in relazione il principio d’indipendenza personale e il principio di associazione, relazione che il pensiero liberale ha rifiutato di giustificare.
Ci sono società nelle quali il capitale e la società industriale moderna, hanno avuto uno sviluppo senza che si realizzasse una società civile vera e propria con forme associative effettive, come accade in molti luoghi della globalizzazione, dove si può avere uno sviluppo del capitale e dell’industria senza che vi siano delle strutture adatte alla società civile nel senso gramsciano.
Per arrivare al periodo del capitalismo concorrenziale, l’idea di Gramsci che era stata di Marx è che i Parlamenti borghesi eletti col suffragio censitario e con l’eliminazione di tutti coloro che non erano proprietari e che non pagavano un certa imposta, questi parlamenti, diceva Gramsci, fossero le Trade Union della borghesia a favore della quale veniva elaborata una legislazione che da tutti i punti di vista fosse vantaggiosa. Di conseguenza esisteva sempre un intervento dello stato, sosteneva Gramsci. Tuttavia si è a conoscenza di una situazione che se nazionalizzare statalizzare rappresenta un’intervento dello stato anche deregolamentare, denazionalizzare, privatizzare e liberalizzare interi settori dell’economia, rappresenta e deve essere considerato un intervento dello stato, si tratta di due forme differenti di intervento.
Vanno tenute quindi ben presenti le incisive, molteplici annotazioni riconducibili a unitarietà teorico-politico concernenti l’interdipendenza che già nel ‘900 – a partire dal tipo di assetto dei rapporti tra capitalismo internazionale e nazionale riscontrabili negli anni ’30 nel cono d’ombra della “crisi del 1929” – la filosofia della prassi sapeva cogliere, valutando criticamente il nesso tra i rapporti civili e politici e i rapporti economici, sul presupposto che teoricamente “tutto è politica”, cogliendo che c’è eguaglianza tra “filosofia e politica”, tra pensiero e azione (Q 7 § 35).
Donde la famosa, perspicua elaborazione del concetto di “blocco storico” – che oggi viene assunto e proposto come concetto da applicare non più solo allo stato nazione ma al globo intero e alla globalizzazione: donde il concetto e l’analisi del blocco storico atlantico e della UE come sua parte integrante dei gramsciani americani – come unità tra la natura e lo spirito, sì da poter chiarire che i rapporti sociali di produzione sono le strutture di cui l’insieme delle soprastrutture sono il riflesso (Q 8 § 182).
In tal guisa spicca, esemplarmente, il carattere attuale dell’osservazione di Gramsci circa l’”intransigenza” dell’”economismo” per la sua vocazione storica a una rigida avversione di principio ai “compromessi”, conseguenza della convinzione ferrea che esistano per lo sviluppo storico “leggi obiettive dello stesso carattere delle leggi naturali” che da luogo a un “fatalismo fatalistico affine a quello religioso“, e alla ripulsa volontaria tendente a predisporre queste situazioni secondo un piano“. Il che assume tanto maggior rilievo, ove si pensi alla chiarezza con cui Gramsci seppe cogliere l’antitesi tra la “patente statale” con cui si salvava l’industria privata mediante l’Imi e l’Iri, con una sorta di “nazionalizzazione per rimediare a una certa arretratezza, e la nazionalizzazione da concretare in una fase storica organica e “necessaria allo sviluppo dell’economia verso una costruzione programmatica” (Q 15 § 1°). Per tale differenza tra accumulazione privata nella logica dell’economicismo e nazionalizzazioni e per le intese ispirate dalla strategia togliattiana della “democrazia progressiva”, la costituzione repubblicana e antifascista del 1948 ha come sua originalità, nelle “carte” del costituzionalismo, le norme c.d. “programmatiche” culminanti in quella sulla “programmazione globale” dell’economia a fini sociali.
Sulla spinta delle intese ispirate negli anni 1944-47 dalla strategia togliattiana, la nostra Costituzione ha avuto il pregio di contribuire all’identificazione sempre più precisa dei termini reali in cui già nel ‘900 ha acquisito carattere centrale e dominante il ruolo della moneta e quindi delle “istituzioni” di riferimento.
Al qual proposito Gramsci ha sottolineato quella caratteristica della “rapidità di circolazione della moneta” che è la forma del rapporto tra il commercio internazionale e “le divise nazionali” (Q 15§ 5): rapidità che in prossimità dei nostri giorni – nel passaggio dall’automazione all’informatizzazione – è stata viceversa presa a pretesto per proclamare apoditticamente che l’odierna iperbolica velocità dei flussi finanziari, additata come un “assoluto”, segnerebbe di per sé una cesura totale tra il capitalismo di fine secolo XX e quello di inizio XXI secolo.
Cesura “totale”, anziché “passaggio di fase” con effetti di trascinamento del rapporto capitale finanziario/capitale industriale sul nesso teorico tra fordismo, società post-moderna, economia post-fordista, dando una lettura della trasformazione dell’impresa (e del capitalismo) “multinazionale ” nell’impresa (e capitalismo) transnazionale tramite la “rete” delle imprese portatrici del fenomeno della “delocalizzazione” e della “de-territorializzazione”: da cui sono state dedotte le conclusioni sulla cd “fine dello stato” nonché “fine del lavoro”, enfatizzando il passaggio dal ciclo della produzione di beni “materiali” al ciclo della produzione di beni “immateriali”, come base fondativa della “economia della conoscenza” su cui si staglierebbe l’avvento del lavoro come fatto sempre più “individuale” al posto del lavoro quale espressione del rapporto tra “occupazione” e società.
Sennonché, l’abbacinante apertura di tale prospettiva nei termini della cd “globalizzazione” col suo semplicismo ha avuto il ben noto effetto disarmante perché apoditticamente dogmatico, in quanto si è tradotto nel definitivo snaturamento politico di una formazione che, da “estrema sinistra” ispiratrice del processo di “trasformazione” della società, si è alterata in “sinistra parlamentarista”, ciò che risulta più vistosamente deformante nel “caso italiano” di cui proprio da sinistra si è scatenato proprio quel “rovesciamento teorico/politico” che è stato perseguito sin dalla fondazione della Repubblica delle forze conservatrici, camuffatesi nella Dc e a latere per contrastare l’attuazione della Costituzione segnata dai caratteri innovativi della “democrazia sociale”, mentre in Francia per l’influenza egemonica di De Gaulle – respinto nel 1946 il primo progetto di costituzione per le affinità con quello che sarà nel 1948 il “modello italiano” – dal 1958 e cioè da ben 50 anni vige il sistema cd. “semi-presidenziale” con cui si è flirtato nei dibattiti della Commissione D’Alema del 1997.
E in proposito è bene ricordare che l’avvio del rovesciamento ideologico ha preceduto la caduta del regime sovietico, che poi è stato usato come “simbolico” alibi di una demonizzazione “monocorde” – da sinistra come da destra – della sempre più controversa esperienza sovietica allontanatasi dall’ispirazione rivoluzionaria dell’ottobre del 1917. Con una operazione teorico-politica non chiaramente percepibile dalle masse, estraniate sempre più da una dialettica culturale ormai abbandonata, in quanto si è pervenuti ad una sintonia perversa senza distinzioni – neppure da parte di Rifondazione comunista oggi addirittura alla caccia cieca di una cd “nuova cultura politica” – sulle contraddizioni provocate dalla direzione staliniana del processo di pianificazione socialista, sintetizzabile nell’antinomia tra le forme della conquista del “potere politico” e le cadenze dei passaggi al nuovo “ordine economico-sociale” che hanno favorito di sovrapporre all’obiettivo del “socialismo” (in un “paese solo”) la parodia dello “stato sociale” (nelle modellistiche roosveltiana, weimariana e corporativo-fascista). Operazione nel contempo incentrata sulla liquidazione sommaria del materialismo storico e del marxismo – con il pretesto di squalificare dietro la simbologia del “marxismo-leninismo” l’idea stessa di comunismo/socialismo e del patrimonio teorico marxiano culminato nel fecondo contributo di Antonio Gramsci, sì da pervenire all’attuale agiografia sul primato dei “diritti umani” (e del “privato”) sulla qualità dei “rapporti sociali”, primato imperniato sulla contrapposizione di “potere” delle forze dalla cui egemonia dipende “quale” potere supporti la creazione dei diritti sociali, compresi quelli “ambientali” da cui sono condizionati gli “status” di genere ritenuti più pregnanti o sostitutivi delle situazioni derivanti dall’esito delle vicende dei conflitti di classe, oggi come ieri.
Ed è così che mentre non si intravedono ripensamenti – salvo qualche tatticismo tradotto nella pratica compromissoria degli “emendamenti” legislativi di indirizzi contestati verbosamente, e senza lotte che non siano stancamente “difensive” – continua ad avanzare in Italia come in Europa un tipo di politica economico-sociale di cd “corporativismo democratico” che accompagna complicemente in un impoverimento generalizzato le forme cd “innovative” di un meccanismo produttivo che rompe l’unità di classe del proletariato, nel momento stesso in cui insinua la falsa immagine della scomparsa delle classi sociali secondo le suggestioni di quegli interpreti delle forme di lavoro dotate bensì di tecniche operative sempre più sofisticate ma a maggior scapito dell’autonomia sociale del proletariato e di spezzoni sempre più ampi dello stesso “ceto medio”.
Ne viene che buttando alle ortiche tutto l’armamentario che serve oggi a contrastare le prospettive di dittatura sociale e politica della borghesia internazionale e nazionale, si occulta dietro la rimozione “tout court” del marxismo (salvo la “libera uscita” di logomachie “filologiche” suggerite da “riletture” eminentemente “accademiche” dei “sacri testi”) un’operazione ideologica complessa, che consiste nel semplice “tagliare le unghie” al neoliberismo una volta data precedenza con la strategia delle riforme istituzionali alla questione del “governo” inteso come “gestione” monopolistica del potere politico burocratico in antitesi – nel nome della cd. “non violenza” – alla “conquista del potere” esemplificato dalla commistione leninismo-stalinismo, tacendosi però completamente e interessatamente su quell’aspetto centrale della critica marxista che, come tale non può non investire l’unità organica dei rapporti politici, economici e sociali, il che obbliga a coniugare il marxismo oltre che nella critica – per certi versi diffusa anche in termini troppo semplicistici – delle forme liberal-democratiche e fasciste dell’organizzazione del potere “borghese”, anche nella critica marxista dello viluppo conseguente dell’iniziativa di lotta dei comunisti e delle rispettive forme organizzative, riallacciandosi oggi a dibattiti a suo tempo emersi intorno all’esperienza del Pcus.
Mentre urge evitare – tra l’altro – le conseguenze derivanti dal silenzio di chi oggi ostenta con tutte le incongruenze del “revisionismo” l’appellativo di “comunista”, avendo ripudiato marxismo e comunismo come prospettiva che si identifica apoditticamente con il “soviettismo” senza andare oltre alla facile assunzione di stereotipi. Ciò che non esime peraltro dal prendere le distanze da chi enfatizza acriticamente il “socialismo reale” e la stessa figura di Stalin, come se bastasse una orgogliosa rivendicazione di pur necessari ”distinguo” nella storiografia dei 70 anni che vanno dal 1917 al 1989 per evitare la deriva di chi si adegua all’asserito superamento di “tutto il ‘900” proprio in questa fase che, al contrario, reclama una presa di coscienza delle deviazioni teorico-politiche fomite della caduta rovinosa in corso “a sinistra” per cause opposte a quelle riconoscibili nella caduta incontenibile di consensi del popolo che aveva creduto vanamente di trovare interlocutori validi in quanti, in sede politica e in sede sindacale, hanno acriticamente enfatizzato la cd società del “cambiamento”.
Occorre pertanto rilanciare l’uso del materialismo storico anzitutto perché anche nello stadio odierno dei rapporti tra capitalismo e movimento operaio è decisivo aver coscienza che la dimensione di massa assunta dalle rivendicazioni popolari e quindi dai lavoratori di ogni collocazione è suscettibile di attivare la ricostruzione del partito comunista se si instaura coerentemente un rapporto tra fattore “soggettivo” e fattore “oggettivo” dello scontro sociale a partire dall’ideologia che è la forma generale con cui si realizzano i presupposti delle lotte soprattutto sul terreno economico-sociale, ribadendo ad ogni livello della lotta di classe la portata decisiva del richiamo marxiano che il regno della “libertà” può fiorire solo sulle basi del regno della “necessità”.
Dato che la storia si configura come trasformazione continua della natura umana in cui il “lavoro” spinge verso un’accelerazione della trasformazione sia dei rapporti sociali che dei rapporti civili, e poiché l’attuale stadio di sviluppo innovativo del capitalismo esibisce in forma di “mercato mondiale” l’integrazione dei gruppi sociali e delle stesse nazioni, si rende inevitabile riattualizzare le categorie marxiane con riguardo sia alla critica conseguente dell’attuale fase della “trans-nazionalità” dell’impresa-rete, sia alla critica della strategia della lotte del movimento operaio e del partito come strumento necessario al conseguimento degli obiettivi di transizione a una nuova formazione sociale coniugando unità, libertà e solidarietà. A tal fine occorre, su un versante rimuovere la falsa idea che l’innovazione tecnologica sia tale da rompere la continuità con la manifestazione organica del capitale finanziario emersa già agli inizi degli anni ’30 quando Gramsci osservò tempestivamente che nel rapporto tra il commercio internazionale e le divise nazionali, “tra i dati tecnici particolari da cui non si può prescindere (…) c’è la rapidità di circolazione che non è un piccolo fatto economico” (Q15, § 5): facendo quindi ammenda di quanto sostenuto soprattutto dagli intellettuali pronubi alla “sinistra parlamentarista” negli ultimi vent’anni sul “superamento” dello stato-nazione, e sulla “fine” del lavoro come conseguenza automatica della informatizzazione e delle sue incidenze in quelle che sono forme nuove di una globalizzazione che si è rivelato storicamente come natura del mercato in sé.
E su un altro versante strettamente correlato al primo, non va più rinviata una discussione di massa sulla natura dei rapporti tra gli istituti della democrazia politica, economica e sociale con la varietà delle forme della lotta di classe, riflettendo sulle implicazioni che per il nuovo ruolo del partito comunista ha la rielaborazione del nesso tra la crisi successiva alle lotte sviluppate in Italia e in Occidente nel ‘900 e la crisi della “democrazia socialista” consegnata alla storia senza che si sia voluto analizzare, non già dal punto di vista della cultura borghese (come hanno fatto Kelsen e Bobbio), ma dal punto di vista marxista stesso, a quale concezione della democrazia debba ispirarsi il partito della classe operaia nella lotta per la socializzazione del potere nello stato capitalistico ripercorrendo , a tal fine il nesso tra teoria e prassi nella lotta per la “transizione” al socialismo nelle sue manifestazioni storiche.
L’interdipendenza tra i due versanti di una medesima problematica – poiché si tratta di applicare la filosofia della prassi nei “rapporti storicamente determinati” della formazione sociale borghese, riflettendo nel contempo sui caratteri che sono desumibili dalle reali contraddittorie manifestazioni della lotta per il socialismo in URSS (ma anche in Cina, Jugoslavia e Cuba) – comporta che dal punto di vista dei contenuti degli obiettivi perseguiti non ci si limiti ai timidi accenni ad un “keynesismo” variante di una delle “terze vie” compatibili con i condizionamenti dell’economia capitalistica sociale; rilanciando quindi anziché la teoria dello stato sociale, la teoria del “controllo politico e sociale” dei centri di potere dislocati con la cd “de-territorializzazione” (o delocalizzazione) nell’universo mercato internazionale/nazionale, oltre quindi il riduttivismo dei cd “bilanci partecipativi” (che semmai vanno inseriti in un quadro sempre più ampio della contrapposizione tra politica ed economia).
Sì che nel contempo, sul versante della “soggettività” invocata con il generico e populistico slogan dei “diritti” nel segno eminente della “privacy”, si mistificano i contenuti reali della costituzione italiana del 1948, enfatizzando altresì la “carta sociale “europea” (in qualunque versione derubricata dalla dipendenza del “sociale” dall’“economico” e dall’iperverticismo istituzionale), per cui emerge in tutta la sua pregnanza l’indispensabilità della teoria di fronte al contrasto che presenta l’omologazione “revisionista” del comunismo al fascismo, mediante la sovrapposizione dei rispettivi partiti di massa definiti perciò parimenti “totalitari”. Ignorando la differenza tra “nomina dall’alto” ed “elezione” dei dirigenti, la cui contraddittoria supremazia sui militanti nei partiti comunisti è risultata degenerazione di un principio diverso dalla “gerarchia” ideologizzata dal fascismo e nel partito e nello stato: precisamente in quanto mentre il partito fascista aveva “istituzionalizzato” il regime “reazionario” di massa con la dittatura del “duce” capo contestualmente del partito e del governo, il partito comunista all’opposto ha dato luogo allo “intellettuale collettivo” con un “centralismo democratico” operante con l’istituzionalizzazione dello sbocco unitario del rapporto maggioranza-minoranza a seguito di un “voto” escluso in via di principio nell’organizzazione fascista, ciò che rende incomparabili nonostante le ben note degenerazioni il regime sovietico e il regime fascista.
Vero è allora che non può ignorarsi il nesso tra economia, politica e stato con le implicazioni circa la funzione della teoria marxista dello stato e del diritto, a sua volta interpretabile correttamente in relazione alla concezione del partito nel processo di ricomposizione fra intellettuali e masse.
Ritornare alla teoria, senza cesure di un processo storico la cui critica può valere scientificamente sulla base di una analisi della realtà che non presenta che “tempi lunghi” non cancellabili, significa mantenere un rigore non solo idoneo a cogliere la portata dei principi della “democrazia per il socialismo” e della loro violazione, ma anche di verificare se e quali mistificazioni siano in atto non solo da parte della borghesia e dei suoi centri di potere economico e politico, ma anche da parte dei “neofiti” dell’antimarxismo. Ciò perché essi assumendo l’antisovietismo nell’angolo visuale della critica dell’organizzazione del partito nelle forme del centralismo democratico, non solo separano la questione del rapporto tra democrazia e socialismo nel processo di transizione, ma addirittura ne assumono essi stessi i metodi denunciati contro le esperienze passate e presenti dei partiti comunisti “al potere”: come attestano le “espulsioni”, esecutive di un “burocratismo” duro a morire, mentre va sviluppata la ricerca spasmodica di un rapporto coerente tra “governati” e “governanti”, in nome della concezione della “democrazia diretta”, di cui comunque il “referendum” nella prevalente casistica, e soprattutto le “primarie”, sono l’interessata parodia.
3. – Pertanto nel valutare quali condizioni siano suscettibili di consentire la rilegittimazione di una politica che non sia mera gestione autoritaria dell’esistente, oltretutto fuori dagli stessi canoni mistificatori dello “stato di diritto” fatti propri dalla c.d. “costituzione europea” – la priorità assoluta da assegnare a quella teoria dell’organizzazione di massa, il cui abbandono ha accompagnato l’abiura del comunismo con il pretesto che la rivoluzione tecnologica e il sistema dei “mass-media” avrebbero tagliato l’erba al fondamento stesso delle dinamiche di massa, e quindi a una soggettività sociale privata di una idoneità a proiettare sul terreno della politica quelle esigenze di resistenza, e di controffensiva insieme, che risultano insopprimibili in tutte le diverse aree in cui si articola l’universalità del sistema produttivo.
Per affrontare realmente tale priorità occorre aprire, in seno al pulviscolare e variegato campo dei gruppi, movimenti, partiti operanti ciascuno in uno spirito “minoritario” altezzosamente autoappagantesi, una discussione sulle cause che hanno indotto, anche le forze che si sono “formalmente” dissociate dai protagonisti della dissolvenza dei partiti comunisti, ad adattarsi all’involuzione acclimatatasi persino in Italia (ove è ancora formalmente vigente la più avanzata Costituzione democratico-sociale dell’occidente europeo) per responsabilità delle forze del centro-sinistra che hanno avviato l’attacco ai principi della “democrazia organizzata”, cui il modello della Costituzione del 1948 è improntata, sino al punto di concorrere cioè all’uso cinico delle forme di “presidenzialismo” che sono state introdotte nei comuni, nelle province e nelle regioni come vera e propria anticipazione della “revisione” della Seconda Parte della Costituzione stessa. Dimenticandosi così di rivendicare pregiudizialmente la insopprimibile coerenza tra la lotta sociale e la lotta da sviluppare “dall’interno” oltre che “dall’esterno” di tali istituzioni territoriali per combattere ad oltranza la legittimità del “leaderismo”, la cui contrarietà di principio alla democrazia si sta combinando con il “leaderismo” che contrassegna le dinamiche interne alle stesse formazioni politiche che si pongono schematicamente ai margini degli schieramenti del “bipolarismo”, puntando però ad esserne assorbiti pur di far “contare” i “leader” medesimi, nel quadro istituzionale di un “verticismo” dilagante negli stati/nazione e in Europa.
Se questo è lo spettacolo cui stiamo assistendo, dobbiamo avvertire che tale linea volta a “promuovere” i “leader”, cancellando ogni idoneità delle residue spinte di base a incidere sugli assetti di potere già nelle asfittiche organizzazioni formalmente esterne al centro-sinistra, non potrà subire arretramenti ed essere sconfitta in favore del rilancio della democrazia di massa – causa il giustapporsi di partiti come Rifondazione Comunista ai “movimenti”, entro un movimentismo operante in modo disorganico negli “interstizi” del sistema di potere, e senza per altro scalfirne il sistema di governo né centrale né locale – se non si riprende consapevolezza del fatto che i partiti politici – tanto più in questa fase di riappropriazione ad opera della “violenza” (non, come si indulge a ripetere, della semplice “forza”) del primato del “potere” sul “diritto” vilipeso dalle “consorterie” fedeli al capitalismo – sono gli strumenti necessari di elaborazione e di fusione delle “concezioni del mondo”, il “crogiuolo della unificazione di teoria e prassi” (Gramsci Q11 § 12).
Ragion per cui la c.d. “forma-partito” deve essere espressione non già di una concezione “istituzionale” conforme alle esigenze della “burocrazia” che è “la forza consuetudinaria e conservatrice più pericolosa” che sta a sé e si costituisce come gruppo solidale separato dalla massa (Gramsci Q13 § 23), ma al contrario della attitudine reale a far sì che “tutti i membri” del partito siano considerati “come intellettuali” (Gramsci Q 12 § 1), con la conseguenza che l’organizzazione democratica del partito, come portatore di una concezione del mondo nel contrasto tra ideologia del capitalismo e ideologia del comunismo, deve dar luogo ad una divisione del lavoro politico che esalti le capacità elaborative e di decisione di una dislocazione di eguaglianza che anticipi nell’organizzazione del proletariato la prospettiva “egualitaria” da trasmettere con una lotta coerente nell’organizzazione della società e dello stato.
Divisione del lavoro da ricostruire in una visione non solo “finalizzata” ma anche “organizzativa”, quindi già nei principi di lotta che sulla base della teoria sociale e politica del partito legittimano il processo di socializzazione della politica e dell’economia, accolto nella Costituzione con il contributo determinante del Partito Comunista, e dei partiti confluiti nel patto unitario del 1948: con la conseguenza di assumere all’interno del partito il criterio del “lavoro collegiale”, come garanzia per affrontare (senza favorire il “tecnicismo” che è il fomite del burocratismo specialistico e di per sé contrario alla democrazia socialista) l’organicità della complessiva problematica dei rapporti tra società e istituzioni nazionali e sovranazionali. Con il conseguente supporto della sostituzione della relazione “gerarchica” (e come tale “antidemocratica” soprattutto nel partito di massa) tra istanze “superiori” e istanze “inferiori”, con la relazione “paritaria” e “democratica” tra istanze di “sintesi” e istanze “articolate territorialmente” e nei “luoghi di lavoro” delle stesse problematiche “generali” di competenza di tutti i segmenti organizzativi del partito.
Ciò presuppone, allora, che a fondamento della concezione programmatica del partito e quindi di una sua conseguente forma organizzativa – con la collegialità e paritarietà tra le istanze di lavoro – sia costantemente presente il principio (che è alla base di quelli “fondamentali” della democrazia sociale trasposti nella costituzione) secondo cui la prospettiva della lotta per la trasformazione della società e delle istituzioni va anticipata dai criteri di un lavoro democratico di massa che è all’apice delle ragioni della creazione stessa del partito, e quindi è la forma di un impegno “rivoluzionario”, inteso non tanto come giacobinismo, ma ben più incisivamente e estesamente come criterio di sviluppo di una coscienza di classe necessaria per comprendere la questione dello stato e in generale delle istituzioni “anche quando lo si attacca per rovesciarlo” (Gramsci Q 3 § 46), e per avere un partito efficiente, in quanto volto a promuovere una “catarsi” per concretare con la lotta sociale e politica il passaggio “dal momento meramente economico ed egoistico-passionale al momento etico-politico” (Gramsci Q10 § 6).
Questo spiega perché per riacquistare la consapevolezza della possibilità reale di ricostruire le basi del partito della transizione, occorre rivedere criticamente l’esperienza del “socialismo reale”, anziché continuare nella acritica identificazione del marxismo con il sovietismo, evitando in tale tipo di lavoro critico di perseverare nel ben noto vizio di isterilire la concezione “politica” di Marx, appiattendosi meccanicisticamente sulla espressione “formale” della prospettiva della estinzione del diritto e dello stato, nonché sulla sottolineatura di Marx – tuttora indebitamente “assolutizzata” (Petrucciani, Marx al tramonto del secolo, 1995) – circa i limiti che l’eguaglianza politica riveste ontologicamente nello stato moderno, nel senso che nel processo di trasformazione, pervenendosi alla separazione tra le sfere del politico e del sociale, l’eguaglianza politica sopprimerebbe anche se stessa.
È qui che si annidano i fraintendimenti derivanti da una ipostasi del concetto di democrazia politica assunto acriticamente come valore astorico, senza tener conto delle vicende che, per il contributo decisivo delle lotte innescate sulla base del marxismo e della sua concezione del diritto e dello stato, hanno dato luogo a forme di democrazia “politica” ben più avanzata di quelle di impianto “liberale”: sicché la concezione di una repubblica parlamentare nella quale il Parlamento diviene “centrale”, dotato cioè della potestà di “decidere” e non solo di “controllare”, come nei casi del “bipartitismo” e del “bipolarismo”, è proprio l’esempio reale di un modello nel quale si realizza la tendenza della guerra di movimento a trasformarsi in guerra di posizione (Gramsci Q 13 § 7).
Qui si colloca la problematica – solo accennata, peraltro, e non approfondita, del rapporto tra la politica dei partiti e la politica dei “movimenti” – che non può essere impostata su una visione astratta e statica delle due distinte forme della politica, ma verificando le cadenze storiche sia del sorgere che del deperire del ruolo attivo dei partiti, così come del manifestarsi e dello sfarinarsi dei movimenti: partiti e movimenti che sono entrati a fasi alterne in relazione simbiotica o disgiuntiva, specie nelle vicende della più recente crisi della società e dello stato nell’occidente continentale.
Mai come in questa fase va tenuto presente il nesso cha va istituito tra il partito della classe operaia come elaboratore della unità tra teoria e pratica, e i movimenti “spontanei” in quanto privi di una direzione consapevole per obiettivi né corporativi né settoriali, stante il pericolo di inserimento (soprattutto in fasi di crisi economica e sociale) di degenerazioni provocate da movimenti antidemocratici e reazionari, volti a impedire che dal “movimentismo” si sviluppi una identità politica feconda per la lotta di classe.
Senza comunque dimenticare mai che non si può correttamente parlare della c.d. “forma-partito” come se non dovesse distinguersi tra le formazioni politiche della borghesia e le formazioni politiche del movimento operaio – è tipico del “riformismo” di ieri e di oggi la non distinzione tra i due tipi di formazione e con ciò anche rispetto alla forma di potere e di stato borghese, su cui convergono tra loro “socialdemocrazia” e “socialismo reale staliniano”: che rende comprensibile la “liken” tra socialdemocratici ed ex della RDT – replicando contraddittoriamente le separatezze organiche alle tipologie dello stato “liberaldemocratico, da cui è derivata e va sottolineato, che la crisi del partito comunista – e la crisi dei partiti del movimento operaio di varie specie – è stata determinata dalla sua burocratizzazione, per aver replicato tali separatezze tipologiche proprie dello stato borghese c..d “liberaldemocratico” replicate all’interno steso dei partiti del movimento operaio: per cui congresso, comitato centrale, direzione e segreteria hanno corrisposto, al di là delle motivazioni addotte dai gruppi dirigenti, alle forme istituzionali dello stato borghese, costituite rispettivamente da popolo, parlamento, governo e premierato.
Sicché, a proposito dei movimenti, si tratta di capire se essi esprimono il tentativo di recupero della perduta vitalità delle organizzazioni operaie, o se viceversa implicano l’affacciarsi di aspetti molecolari di processi di crisi della società, in qualche modo incidenti anche sulla vitalità del partito avvolto nelle spire del suo sopravvenuto burocratismo, contrastante con gli interessi del movimento operaio.
La questione dei movimenti: recuperano vitalità perduta del movimento o espressione molecolare della crisi della società?
La questione, allora, della natura specifica di movimenti come quelli “no global” – tenuto conto degli indissociabili aspetti “interni/esterni” delle rispettive dinamiche, cioè della loro struttura e dei loro rapporti con il sistema politico-istituzionale – può essere persuasivamente affrontata se si analizzano le forme del rilancio delle ragioni “sociali” dell’impatto dei movimenti con i partiti e con le istituzioni. Intendendosi con ciò non solo il passaggio dalla “mobilitazione” alla “partecipazione”, ma anche e soprattutto la consistenza di questa come attitudine a trasformare le forme di “consenso” di massa che – nelle dimensioni ben più estese della globalizzazione/internazionalizzazione – chiamano in causa lo stesso tipo di regole adottate nell’organizzazione di partito e nelle istituzioni nazionali e sovranazionali, cioè l’uso della maggioranza e della unanimità.
Decisivi, ai fini del necessario chiarimento teorico-politico, è quindi la individuazione della portata differenziale degli ambiti deliberativi che risultano in concreto di pertinenza di istituzioni, partiti e movimenti, se si ammette che i movimenti non sono in grado di sostituirsi al sistema dei rapporti tra istituzioni e partiti, sul quale si tratta di vedere come riescano a influire, se si continua ad ammettere che persistono “aree di pertinenza” istituzionale esterne/estranee ai movimenti medesimi.
Si ripresentano cioè i problemi della “legittimazione” – sostanziale, e quindi anche formale – di forme di titolarità ed esercizio di “potere”, in ragione dei diversi contenuti di quell’indirizzo generale che qualifica il ruolo della politica, misurandosi con l’intreccio della molteplicità degli obiettivi sociali da raggiungere, nell’intersezione tra aspetti nazionali, sovranazionali e internazionali degli interessi in gioco. Con la conseguenza che l’assunto secondo cui si può “cambiare il mondo senza prendere il potere” (Holloway, 2002), se fa giustizia della visione riduttiva e “politicista” del concetto di presa del potere – sul presupposto tipico della cultura borghese e di un neo-marxismo incoerente secondo cui lo stato si identifica con “governo” – dovrebbe implicare la scelta di una linea strategica di lotta culturale, sociale e politica imperniata su una concezione della democrazia antitetica ad ogni organizzazione di potere dall’alto (autoritaria e totalitaria) che rovesci la costruzione della democrazia “rappresentativa” nella visione liberaldemocratica, attribuendo titolarità di potere alle assemblee, dal Parlamento ai consigli di autonomia territoriale e sociale (ciò che in Italia si è tentato a prezzo della reazione terroristica dello “stato duale” negli anni 1968-75), e sottraendolo agli “esecutivi” di partiti e istituzioni nazionali e sovranazionali che simbioticamente dominano la società politica, in funzione degli interessi canonizzati in nome del “mercato” (sia capitalistico, che socialista), contro una “base sociale” enfaticamente blandita in nome della mistificatoria idea della sovranità come “piramide rovesciata”, che i movimenti puntano a coinvolgere in dinamiche alternative ancora prive di una compiuta teorizzazione “permanente”.
Emerge così che la chiave di volta per interpretare il ruolo dei movimenti, rispetto al combinato ruolo di partito e istituzioni, va reperita in una rilettura della concezione della “Comune”, rammentando che essa è stata obliata dagli stessi marxisti con riguardo alla lotta in seno allo stato, e che ricorrono le condizioni per una rinnovata concezione dell’internazionalismo come cemento necessario della dialettica transnazionale dei movimenti odierni. Chiarendo che alla base dell’irrisolto problema dei rapporti tra assemblee ed esecutivi – problema aperto anche per i movimenti, a loro volta condizionati da vertici assunti come “portavoce” – sta la necessità di superare l’antinomia tra consenso “attivo” e consenso “passivo” che si nasconde dietro il fumoso termine di “consenso”, antinomia che peserà negativamente sulla democrazia sino a quando si perpetuerà la forza ideologica (coperta dal giuridicismo imperante in tutte le culture) del principio secondo cui il “potere di proposta” non solo non va sottratto agli “esecutivi”, ma neppure suddiviso con essi, scambiandosi per fonte di “anarchismo” o di “frazionismo” l’esplicazione del “pluralismo” nell’autonomia dei soggetti singoli e collettivi: donde le decisioni “per consenso” che esaltano il potere alieno.