la trasformazione del capitalismo transnazionale post crisi 2008
Francesco Schettino
9 novembre 2016: una data che difficilmente sarà dimenticata negli anni che verranno. Media europei e giornali di tutto il mondo oggi osservano con un malcelato sgomento l’elezione di Donald Trump alla presidenza dello stato capitalista considerato come il più potente al mondo, gli Usa. L’alternativa di Hillary Clinton evidentemente, nonostante la palese collocazione all’estrema destra del neopresidente – appoggio del Kkk, libri con i discorsi di Hitler sul comodino, come ebbe a dire l’ex moglie – non è stata sufficiente. Considerata genericamente – e su questo ci riproporremo più avanti di proporre un approfondimento – come la candidata dell’establishment, nonostante l’endorsment ricevuto da tutti i settori della cultura a stelle-e-strisce (e non solo) la sua sconfitta è sonora e netta, nonostante persino le previsioni, sempre più inattendibili, la davano per vincente addirittura al 90%.
Fiumi di inchiostro e di parole sicuramente anticiperanno l’uscita di questa breve nota che, in forma preliminare, tenterà di fornire un abbozzo di analisi di quali possano essere le ragioni e le prospettive più immediata da una prospettiva di classe. Per questo, e per tanti altri motivi, è opportuno non farsi ammaliare da vacue analisi sociologiche avulse da un contesto più ampio ma altresì tener conto delle condizioni materiali sia dell’enorme massa che ha eletto Trump, sia dello stato di salute del capitale a base dollaro che di quello internazionale più in generale. Restringere il fenomeno Trump a una scelta democratica in opposizione ad Hillary è evidentemente un modo borghese e limitato di tentare di indagare su una questione che è di portata nettamente più ampia.
Già dalla fine dell’anno 2008, ossia dalle settimane che seguirono il crollo di Lehman Bros, e dunque dai momenti appena successivi alla violenta emersione dell’ultima crisi, in palese controtendenza con l’ottimismo di tanti settori della sinistra di classe, evidenziammo che la concomitanza della crisi più violenta del modo di produzione del capitale e l’assenza di una classe subordinata “per sé”, ossia cosciente del suo ruolo storico, avrebbe potuto generare tendenze del tutto opposte a quelle auspicate. Non a caso, parlammo più volte della necessità di ragionare su un programma minimo in una fase non rivoluzionaria (in questa ottica va letta la pubblicazione dell’omonimo testo di Gamba e Pala a cura del collettivo della Contraddizione, La Città del sole, Napoli, 2015); il nostro obiettivo consisteva, in sintesi, nell’individuare un percorso che, tenendo conto della fase fortemente sfavorevole, riuscisse a raccogliere alcuni punti attorno a cui permettere una accumulazione delle forze residue. Probabilmente ammaliati da praticonerie immediate o da volontarismo massimalista, il nostro appello è stato ampiamente ignorato dalla maggioranza di coloro che sostengono di lavorare per un superamento del modo di produzione attuale, spendendo forse troppo poco tempo per comprenderlo analiticamente e rimanendone, così, spesso involontariamente fagocitati nei suoi oliati meccanismi.
Nel frattempo, privo di ostacoli insormontabili, il capitale mondiale non ha incontrato molte difficoltà esterne alla propria classe per individuare un nuovo assetto che possa garantirne la sopravvivenza stessa. Il fenomeno più pericoloso, ossia quello della progressiva rarefazione della classe media e la sua nuova collocazione negli originari ranghi del proletariato è stato abilmente gestito in ogni parte del mondo dalla classe proprietaria. E come ci ha già insegnato la storia, lo “spodestamento” dell’aristocrazia operaia di certo non si traduce immediatamente in un fenomeni rivoluzionari ma, al contrario, potenzia – se lasciato a sé – fenomeni spaventosi di reazione: i casi del fascismo e del nazismo, con i dovuti distinguo, da questo punto di vista rappresentano casi esemplari. In altri termini, lo svelamento della legge generale dell’accumulazione che, specie in fasi di crisi, genera ancor più evidentemente “accumulazione di miseria insieme a accumulazione di capitale” (ciò che correntemente viene definita come “polarizzazione”) detiene un potenziale straordinario di destabilizzazione. La sparizione, progressiva, della classe media – vero architrave ideologico, e non solo, del capitalismo moderno – avrebbe potuto mostrare la vera natura del modo di produzione attuale: tuttavia, attraverso l’abile utilizzo delle armi più affilate da parte degli organi sovrastrutturali – tra cui quelle del razzismo, terrorismo, immigrati ecc. sono solo le più evidenti – il problema è stato, almeno al momento, parzialmente attenuato. L’esasperazione della concorrenza tra chi lavora, garantita da un esercito industriale di riserva (ossia i disoccupati) in esponenziale aumento, ha dunque frammentato ulteriormente la classe lavoratrice in innumerevoli rivoli.
L’emersione del dispotismo fascista – che dai media viene edulcorato ideologicamente da un termine non adeguato come “populismo” – perfettamente incarnato da Trump, Le Pen, Farage, (collega dei 5* in parlamento europeo), NPD nonché da Erdogan, Orban, Duda e, per alcuni versi, da Putin, ha raggiunto, con la recente elezione del presidente Usa, quel grado di pervasione mondiale da far pensare che dalla quantità si è passati alla qualità.
Il sistema di capitale, a causa della crisi di accumulazione perdurante, ha necessità di gestire in maniera autoritaria il processo complessivo di produzione e circolazione delle merci. Le colonne della parvenza liberale della democrazia borghese, per questo, stanno venendo giù una alla volta giacché il controllo della classe potenzialmente rivoluzionaria deve essere mantenuto molto più alto di prima (vedi anche le cosiddette riforme costituzionali europee auspicate da JP Morgan), così come la produzione di valore e plusvalore non deve trovare intoppi e soddisfare così la voracità dei proprietari del capitale (vedi anche le cosiddette riforme del lavoro). Tuttavia, come ogni processo interno a un modo di produzione, ciò procede generando continue contraddizioni: queste si verificano innanzitutto all’interno della classe dominante giacché la forma autoritaria è sicuramente più esclusiva di quella normalmente garantita da una democrazia borghese nelle forme conosciute nella seconda metà del secolo passato. In altri termini, almeno in teoria, la vittoria elettorale dell’uno o dell’altro candidato garantisce un accantonamento più secco, rispetto al passato, della fazione che soccombe. Per rimanere sul terreno della battaglia elettorale appena conclusa negli Usa, Trump e Clinton erano rappresentanti di fazioni del capitale per alcuni versi opposte, per altre molto prossime. Queste contraddizioni tra “fratelli nemici” si sono risolte nella vittoria da parte di quella fazione del capitale che predilige maggiore protezione del mercato locale rispetto all’internazionalismo del capitale più spinto di cui si faceva interprete Hillary – ed una contemporanea retrocessione da parte della classe lavoratrice (che in parte ha sostenuto il newyorchese).
Le prospettive, dunque, sono di difficile interpretazione: i mercati finanziari hanno ovviamente reagito in maniera fortemente negativa all’elezione del “cigno nero” giacché, essendo per certi versi apparentemente meno gestibile, potrebbe generare quell’instabilità mondiale di cui il capitale, in questo momento ha tutt’altro che necessità. Con una economia globale in difficoltà di accumulazione da quasi 10 anni; una bolla speculativa ancor più gonfia e densa di strumenti tossici di quella esplosa nel 2008 e, soprattutto, con la possibilità che gli Usa di Trump possano definitivamente perdere (o almeno scalfire) il ruolo egemone del capitalismo mondiale (a vantaggio forse delle economie asiatiche) – complice anche la perdurante crisi del capitale-dollaro – di certo non tutti dormiranno sonni tranquilli nelle prossime settimane in attesa di capire come e dove gli Stati uniti nei prossimi 4 anni si collocheranno.
(…to be continued)