di Giorgio Bongiovanni
La Calabria è una delle regioni dove più si tocca con mano il problema della povertà e della disoccupazione. Eppure, per il giro di denaro prodotto, questa stessa regione si qualifica come la più ricca, superiore persino alla California (lo stato più ricco degli Usa con un Pil di circa 2,2 trilioni di dollari). Parliamo di decine di miliardi di euro, cifre da capogiro di cui però la punta del nostro stivale non vede che le briciole. Perché quei miliardi sono gestiti in toto dai capi della ‘Ndrangheta, i veri padroni della Calabria, che dispongono di pacchetti azionari nelle banche off shore e non solo di tutto il mondo, e denaro liquido ricavato dal traffico di droga (in particolare cocaina, di cui le cosche calabresi detengono il monopolio nel mondo occidentale). Da tempo ormai la ‘Ndrangheta ha scalato la classifica nel settore del narcotraffico piazzandosi al primo posto, per anni occupato da Cosa nostra. Oggi, dai confini dell’ex Jugoslavia al Portogallo, dall’Alaska alla Terra del Fuoco, la polvere bianca viaggia per mare, terra e aria sotto l’occhio vigile dei calabresi. La ‘Ndrangheta “fattura” ogni anno 70/80 miliardi di euro solo in traffico di droga. Sono dati in realtà forfettari, ricavati dai maggiori esperti a seguito dei sequestri di stupefacenti. Ma molti di più sono i carichi di cocaina purissima che riescono a passare inosservati, continuando ad alimentare quello che è il settore criminale di gran lunga più redditizio.
Oggi la ‘Ndrangheta, per gli attuali assetti, ramificazioni e disponibilità finanziarie, è l’organizzazione criminale nostrana più potente, il cui cuore batte a Reggio Calabria, dove si stima che il numero degli affiliati arrivi alle diecimila unità (si pensi che a Palermo, quasi quattro volte più grande del capoluogo calabrese, la densità di affiliati si aggira intorno alle mille unità). A Reggio Calabria si sbarca a fatica il lunario, la percezione della presenza mafiosa è scarsa, e forse proprio per questo è qui che vengono gestiti immensi capitali finanziari. Ma è sempre nella stessa città che la Direzione distrettuale antimafia capitanata dal procuratore Cafiero De Raho (e precedentemente da Giuseppe Pignatone e da Salvatore Boemi) sta seguendo alcune tra le inchieste più scottanti che svelano la vera struttura della ‘Ndrangheta: non così “orizzontale” come si credeva, ma con una forma che ricorda la Cosa nostra degli anni ’70, quando a capo della mafia siciliana c’era la Cupola, la commissione formata dai principali capimafia poi scalzata dalla furia dei corleonesi di Totò Riina.
E’ Giuseppe Lombardo, sostituto procuratore reggino, che con le sue inchieste sta facendo emergere la nuova ipotesi del cosiddetto “sistema circolare integrato”, svelando una possibile ed inquietante verità: che la ‘Ndrangheta non è solo un’organizzazione criminale che vota e fa votare, elargisce e riceve favori, stipula alleanze con personaggi di potere. Ma che addirittura questi ultimi sono soggetti interni alla mafia calabrese. E che fanno parte della cosiddetta “cupola invisibile”, un livello superiore ed occulto agli stessi soldati delle cosche, della quale fanno parte componenti “riservati” delle singole mafie. E’ a questa sfera che apparterrebbe, secondo l’inchiesta “Mammasantissima”, il senatore Antonio Caridi, il cui nome è nella lista degli indagati del blitz scattato il mese scorso per opera della Dda di Reggio Calabria, nello specifico del pm Lombardo con il coordinamento di De Raho. “Dirigente ed organizzatore della componente ‘riservata’ della ‘ndrangheta” di cui “fruiva dell’appoggio, tramite la sua articolazione di vertice cosca De Stefano in occasione di tutte le consultazioni elettorali alle quali prendeva parte, dalla prima candidatura (elezioni comunali 1997) alle elezioni regionali del 2010”. Così Lombardo descrive nella richiesta d’arresto la figura di Caridi, per il quale ieri il Senato ha accolto la proposta della Giunta per le Immunità di dire sì all’arresto. L’accusa, per il politico, è di essere parte di quella componente invisibile alla quale hanno accesso solo quei soggetti apicali che dettano le strategie della ‘Ndrangheta. Un livello riservato ben più alto rispetto alle singole e tradizionali mafie, che cessano di essere “a compartimenti stagno” per riunirsi intorno ad un tavolo comune. Oggi non solo le inchieste giudiziarie hanno tracciato lo storico rapporto d’affari tra mafie, in particolare ‘Ndrangheta e Cosa nostra, ma si inizia a delineare la possibilità di un legame ben più profondo, sancito da una cupola che presiede le organizzazioni criminali e ne detta le strategie. Una possibile rivoluzione rispetto alle straordinarie intuizioni alle quali erano giunti, al tempo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, quando spiegavano che Cosa nostra a volte dettava le alleanze, altre subiva quelle date dalla politica. Allo stato dell’arte lo scenario che sembra prendere forma (e che verrà vagliato in un prossimo processo) è quello in cui le organizzazioni criminali possono esercitare il loro potere solo se la componente invisibile lo consente in base alle strategie da questa predisposte.
Ecco quindi la ragione per la quale pm come Giuseppe Lombardo in Calabria e Nino Di Matteo in Sicilia non solo sono minacciati, ma ufficialmente condannati a morte dalle mafie e, in realtà, anche dal vero potere che vige in Italia: lo stesso che Roberto Scarpinato e Saverio Lodato avevano delineato nel libro scritto a quattro mani (“Il ritorno del Principe” edito da Chiarelettere). Un sistema che oggi Lombardo e pochissimi altri giudici iniziano a smascherare.
05 Agosto 2016